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Questo testo fa parte della raccolta Alcuni scritti del dottor Carlo Cattaneo, volume I


IL LORENZINO



L'arte dramàtica corse a memoria nostra il più strano rivolgimento. Si assalì l'arte antica colle due questioni dell'unità e delle nazionalità. - Ma la prima si rattiene intorno alle forme estrìnseche; e la seconda suppone che alla memoria del pòpolo sia più presente l'oscuro nome nazionale d'Ezzelino o di Cola Montano, che i nomi splendidamente stranieri d'Alessandro o di Maometto. Ma quando si dèvono abbàttere gli steccati che sèrrano il nobil campo dell'arte, non monta con che pòvero mezzo lo si consegna. L'effetto della dìsputa si fu che ora siamo lìberi signori del luogo e del tempo, e che ci sta solo a fronte il senso commune e il cuore umano.

Anche all'Italia è dunque lècito d'avere ambo i gèneri di tragedia.

Il primo era il gènere ideale; la tragedia dal pòpolo, il quale non legge istorie, e conosce solo gli eròi della tradizione, e aduna intorno ad un nome tutto ciò che la imaginazione può raccògliere di valore, di delitti, di sventure , d'ira e d'amore. L'espressione di questa tragedia è naturalmente ambiziosa, ardita, figurata, armònica, sprezzatrice dei modi vulgari; vuole il verso; tende indomitamente alla declamazione musicale. Ma essa degènera primamente in recitativo; poi si distilla nei cantàbili del melodrama; poi si tramuta in note sonore, e insegna la parola umana e il grido degli affetti agli strumenti da fiato, che dimàndano nelle strade: Ah perchè non posso odiarti?

L'altro gènere della tragedia, guidato dalla critica che disprezza le esagerazioni ideali e gli eròi di convenzione, ci richiamaa alla natura e al fatto; ripudia gl'ìdoli della tradizione, consulta la severa istoria, la crònica minuta, le maniere, le vestimenta; vuole consonanza e dottrina persino nelle quinte del palco. Vuole accanto a Filippo i paggi che s'addormèntano ginocchioni; aborre la protervia poètica del tu; intarsia diligentemente nel verso un Vostra Altezza Reale; e trionfa quando può scrìvere in una linea: Serenìssimo Doge, Senatori. E siccome fu detto che l'istoria non è l'òpera degli individui, ma delle grandi turbe sociali a cui gl'individui famosi prèstano il nome; così questa tragedia o conduce sul palco le moltitùdini in coro, i astori di Tell, o i mercenarii di Wallenstein; ovvero adotta il sistema rappresentativo; prende il Perez d'Alfieri, gli dà l'acconciatura istòrica, e delll'amico di Carlo ve lo elegge Marchese di Posa, deputato del gènere umano. Così l'ìdea filosòfica soppianta l'idèa popolare.

Codesta tragedia s'appròssima ognora più ad una realtà di stile quàchero; s'ingeloscisce della soverchia sonorità del verso; a poco a poco lo ammorza, come il piano del cèmbalo; lo disadorna, lo affloscia; infine gli dà un calcio definitivo, e si adagia schiettamente nella prosa. Epperò se la tragedia ideale è la madre di tutti i furori e i languori dell'òpera in mùsica, la tragedia istòrica è un piano inclinato che scìvola bellamente al drama in prosa. Quanto più i due gèneri s'allontànano, tanto più divèngono compatìbili; e i sistemi intermedii si fanno vacillanti, e incapaci di rispòndere alle improtunità della lògica. Perciò a' giorni nostri due tendenze estreme e opposte: òpera in mùsica e drama in prosa.

Shakespear trattò possentemente ad un tempo i due grandi gèneri. Trattò l'ideale tragedia del cuore e della fantasìa in Giulietta, in Hamleto, in Re Lear. Trattò la tragedia della memoria nella sequela dei Riccardi e degli Arrighi; la quale per verità è la migliore istoria dell'antica Inghilterra, cioè quella che meglio ci fa sentire la vita della procellosa baronìa normanna, e ne fa quasi risonar nella mente le voci minacciose e le ferrate schiniere.

Schiller trattò con gloria la sola tragedia ìstorica; espose in Tell e in Wallenstein le due forme popolari della nazionalità germànica, un commune di pastori e un quartier di soldati. Ma non intendendo le nazionalità meridionali, fece pensar tedesco i marinài di Genova e i mercanti di Messina. Goethe, che aveva più arte da poeta, e men coscienza da istòrico, gravitava verso l'ideale; e perciò il suo Tasso riescì un'inezia a fronte del Fàusto.

Dacchè siamo dunque al drama istòrico, addìo, sogni dell'imaginazione, addìo bella libertà di rìdere e di piàngere a lìbera fantasìa. Assistendo alla rappresentazione delle grandi scene del mondo positivo, ai grandi delitti, alle grandi sciagure, compatiremo, fremeremo; ma lì sul più bello, nell'istante che l'antica tragedia a' suoi buoni tempi si gettava perdutamente nel vòrtice degli affetti, noi ci sentiremo bàttere la spalla dalla mano impiombata della crìtica istòrica, della crònica minuziosa, della memoria contemporanea, e persino dell'etichetta di corte, che all'amante sisperato intimerà di non abbracciar le ginocchia d'una principessa. Noi sederemo in platèa, non per abbeverarci liberamente di sensazioni e d'affetti; ma, a guisa di correttori, saremo tenuti in coscienza a lagnarci che Pròspero non fu mai duca di Milano, che Miranda è un sogno, e che Calibano è men verosìmile di Meneghino.

Ad ogni modo il drama ìstorico è sempre una nuova fonte di piaceri intellettuali che nulla toglie ai tesori che giù possediamo. Ma poichè ci si presenta come cosa di realtà, vogliamo almeno che sia studiato il vero; vogliamo istoria, costumi, caràtteri e linguaggio. Ecco quattro cose che troviamo nel Lorenzino de' Mèdici di Giuseppe Rèvere. Firenze, la città intellettuale, la Psiche del medio evo, è un nome caro all'imaginazione de al cuore. Reca profondo cordoglio il vederla soccùmbere, fra le làgrime e il sangue, sotto il peso delle grandi nazionalità europèe, come oriuolo stritolato dalle ruote d'un carro. Il commune di Firenze fu il più vigoroso di quei plessi nervei, i quali diffusero la vita civile nel corpaccio dell'Europa feudale. Ma quella vitalità schietta, incàuta, popolare, non poteva resìstere ai tempi. Venezia sopravisse all'urto di Cambrai, perchè pòpolo dòcile aveva abbandonato da lungo tempo i suoi destini ad una corporazione serrata, la quale sapeva prevedere e preparare; atterrire i nemici interni; elùdere, divìdere, stancare gli stranieri; e armarsi delle conquiste per combàttere con armi eguali. Ma i Fiorentini avèvano troppe passioni e troppo ingegno; e non sèppero obedire se non alla dura necessità.

Le maniere di quel pòpolo appàiono nel drama, come veramente furono, spiranti ancora l'avita eguaglianza e un'indòmita garrulità. Fra loro e il nuovo duca non vi ha se non il legame della forza; non vi ha la minim'ombra di devozione feudale, mentre non v'è per anco la sudditanza moderna. Il che spiega la necessità di modi sì crudeli.

Il duca Alessandro è un giovinastro libertino, giovialiaccio, valoroso, sprezzatore della prudenza dei consiglieri, sprezzatore dei dotti, degli artèfici, delle donne, e di chiunque ha paura del sangue. Piuttosto che mostrar timore, egli cade inerme sotto il ferro d'un nemico palese, d'un nemico-nato.

Lorenzino è testa ideale; posta fuori del senso commune, perchè non cure gl'interessi e non gli intende; potrebbe farsi strumento di grandezza Guicciardini e gli altri astuti, e aprirsi la strada al regno, che è suo. In quella vece uccide il prìncipe per un'opinione latina e greca; e getta la corona in piazza, ove Cosimo l'aspetta. Aborrito dal pòpolo, pensa cattivarlo con una canzone; ecco le pìccole armi, le pistole corte delle menti ideali. Vuol èssere l'ammirazione del gènere umano, e non riesce tampoco a farsi applaudire da una donna innamorata. La nullità civile di quest'ànima depravata, artificiosa, che con una parola volge e rivolge Alessandro, e che non sa farsi crèdere da nessuno, è profondamente ritratta. È un'incarnazione dell'arte polìtica di quel sècolo, che svanisce in faccia alle grandi combinazioni e alla morale privata della moderna Europa.

La Ginori è più traviata che colpèvole; ogni mìnimo baleno d'allusione la riempie di vergogna, le fa coprire il volto colle mani; tenta di far del bene per compensare il male di cui sente il peso. Dacchè la innocente Nella è in casa sua, gli si mostra orrìbile il suo amore incestuoso; e poche parole d'un frate la stàccano da Lorenzino. La Ginori è peccatrice per debolezza.

Nella, buona figlia, buona sposa, accesa delle opinioni di chi vive con lei, rappresenta con suo padre la tenace moralità del pòpolo, che ama lo stato sotto cui nacque, ed ha l'ànimo di difenderlo.

Leonardo è la virtù importuna, fanàtica, vantatrice, declamatrice. Si promette di difendere e salvare altrùi; e per manco di misura e di prudenza perde sè stesso. Riprova il tradimento di Lorenzino, e si scalda a sperarne i pùbblici frutti. È l'uomo la cui privata illibatezza va nàufraga nel vòrtice delle parti civili.

Il Guiciardini è come le sue òpere, un ammasso di sapienza depravata.

Maurizio è, come fu, cosa vile e nauscosa; gli altri cagnotti d'Alessandro e di Lorenzino sono degni dei loro padroni.

I rimanenti si confondono col popolo; hanno quell'esaltazione d'ànimo, quella facilità di soverchie speranze, quella fierezza impròvida, che condusse Firenze a luttar coll'Europa e perire.

La dipintura d'un sècolo di tradimenti, di supplicii e d'incesti fa ribrezzo; e ci rende caro il vivere a tempi migliori. Vi sono alcune situazioni ben divisate; Corsini che, guidato dall'amore della sua donna e della sua patria, torna fra i perìcoli; Guicciardini che comanda freddamente al prìncipe Lorenzo de' Mèdici di far la spia; il cieco Lapo che, accarezzando la figlia sente la sua guancia lagrimosa; Alessandro che, nel furore della passione, s'arresta avanti la dama che nobilmente gli domanda: Duca Alessandro, sono questi i vostri modi?; la violenza di Nella che nessun timore trattiene quando l'affetto la spinge; le illusioni di Lorenzino solitario; la vista delle stanze, ove tanti morìrono! i pensieri d'amore che risùrgono in Corsini vicino a morte; la delicatìssima romanza simbòlca della Lena; quella nobile plebe fiorentina che parla in piazza di Michelàngelo e di Cellini; la sùbita pietà che inspira l'impròvido Alessandro quando si veste di raso e si mette i guanti profumati per andare alla morte; passo che rammente il Macbeth, quando il re Duncano chiama bello il sito e dolce l'aria del castello ove sarà scannato; la solitùdine e il disinganno dell'omicida, il quale sente tutta l'unitilità del delitto, e ci prepara a quella sentenza finale che l'alba del Signore non viene col sangue.

Questo lavoro, destinato alla lettura più che alla scena, palesa severi studii. La lingua, impressa sul tipo antico, corre nondimeno con certa sicurezza e facilità. V'è anche una prefazione, dettata con quella circospetta umiltà colla quale chi ha lavorato è bene in dovere d'inchinarsi avanti a chi non fa nulla.

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