< Il Marchese di Roccaverdina
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Capitolo VII Capitolo IX

VIII.


Quantunque, il giorno dopo, mamma Grazia lo avesse avvertito ch’ella aveva già dato aria al mezzanino, lasciando la chiave nella serratura dell’uscio perchè dalla scala interna nessuno passava, il marchese non era disceso a ricercare le vecchie scritture.

Fatte attaccare le mule alla carrozza, era partito per Margitello.

Titta, il cocchiere, si meravigliava di vedere il padrone rannicchiato in fondo alla carrozza chiusa, e insolitamente silenzioso. Aveva tentato, ma inutilmente, di fargli dire qualcosa.

— Ci vuole la pioggia! Guardi, voscenza; non un filo d’erba.

La pianura si estendeva da ogni lato, con terreni riarsi dal sole e screpolati, con aride piante di spino irte sui margini dello stradone.... E si era alla fine di ottobre! Qua e là, un paio di buoi attaccati all’aratro si sforzavano di rompere le zolle indurite, procedendo lenti per la resistenza che incontravano. Qualche asino, un mulo, una cavalla col puledro dietro, pascolavano, legati a una lunga fune, o con pastoie ai piedi davanti, tra le poche stoppie non ancora abbruciate.

— Quest’anno la paglia rincarirà. Non vi sarà altro per le povere bestie!

La carrozza, lasciato lo stradone provinciale, aveva infilato, a sinistra, la carraia di Margitello, tra due siepi di fichi d’India contorti, polverosi, coi fiori appassiti su le spinose foglie magre e quasi gialle per mancanza di umore. Le mule trottavano, sollevando nembi di polvere e facendo sobbalzare la carrozza su le ineguaglianze del suolo. A un certo punto, le ruote avevano urtato in un mucchio di sassi che ingombrava metà della carraia.

— Qui accadde la disgrazia! — disse Titta.

Quel mucchio di sassi indicava il posto dove era stato trovato il cadavere di Rocco Criscione, con la testa fracassata dalla palla tiratagli quasi a bruciapelo dalla siepe accanto. Chi era passato di là in quei giorni vi avea buttato un sasso, recitando un requiem, perchè tutti si rammentassero del cristiano colà ammazzato e dicessero una preghiera in suffragio di quell’anima andata all’altro mondo senza confessione e senza sacramenti. Così il mucchio era diventato alto e largo in forma di piccola piramide.

Ma neppure questa volta Titta sentì rispondersi niente; e frustò le mule, pensando a quel che sarebbe avvenuto a Margitello dove nessuno si attendeva l’arrivo del padrone.

Stormi di piccioni domestici, usciti alla pastura, si levavano a volo dai lati della carraia al rumore dei sonagli delle mule e delle ruote della carrozza, che ora correva su la ghiaia sparsa sul terreno a poca distanza dalla casina. Si scorgevano il ricinto della corte e le finestre chiuse, a traverso gli alberi di eucalitti che la circondavano da ogni parte.

Contrariamente alle previsioni di Titta, il massaio e i garzoni l’avevano passata liscia.

Il marchese avea visitato la dispensa, le stalle delle vacche, il fienile, la pagliera; aveva ispezionato minutamente gli aratri di nuovo modello fatti venire da Milano l’anno avanti, la cantina, le stanze di abitazione dei contadini, seguito dal massaio che gli andava dietro, timoroso di qualche lavata di capo; e non avea fiatato neppure quando allo stesso massaio era parso opportuno scusarsi per un oggetto fuori posto, per un ingombro che avrebbe dovuto essere evitato, per qualche arnese buttato là trascuratamente, guasto e non riparato.

Poi il marchese era salito, solo, nelle stanze superiori; e il massaio, dalla corte, gli vedeva spalancare le finestre, lo sentiva passare da una stanza all’altra, aprire e chiudere cassetti di tavolini e di cassettoni, armadii, spostare seggiole e sbattere usci. Due o tre volte, il marchese si era affacciato ora da una ora da un’altra finestra, quasi volesse chiamare qualcuno. Invece, avea dato lunghe occhiate lontano e attorno, per la campagna, o al cielo che sembrava di bronzo, limpido, senza un fiocco di nuvole da dieci mesi, infocato dal sole che bruciava come di piena estate.

Tre ore dopo, egli era disceso giù, aveva ordinato a Titta di riattaccare le mule, ed era ripartito senza dare nessuna disposizione, senza mostrarsi scontento nè soddisfatto.

A mezza strada della carraia di Margitello, là dov'era il pezzo di terreno di compare Santi Dimauro, che avea dovuto venderlo per forza, per evitarsi guai, il marchese, scorgendo dallo sportello il vecchio contadino seduto su un sasso rasente la siepe dei fichi d’India, coi gomiti appuntati su le ginocchia e il mento tra le mani, avea ordinato a Titta di fermare le mule.

Compare Santi rizzò la testa, e salutò il marchese sollevando con una mano la parte anteriore del berretto bianco, di cotone.

Voscenza benedica!

— Che fate qui? — gli domandò il marchese.

— Niente, eccellenza. Trovandomi al mulino, ho voluto dare uno sguardo....

— Rimpiangete ancora questi quattro sassi?

— Il mio cuore è sempre qua! Verrò a morirvi un giorno o l’altro.

— E avete faccia di lagnarvi, dopo che ve li ho pagati settant’onze?

Il vecchio si strinse nelle spalle, e riprese la sua positura.

— Montate in serpe con Titta — soggiunse il marchese.

— Grazie, voscenza. Ho lasciato l’asino al mulino; vo’ a riprenderlo, con la farina.

Titta si era voltato per convincersi se il padrone avesse parlato sul serio invitando compare Santi a montare in serpe, tanto gli era parso straordinaria la cosa; ma la sua curiosità rimase insoddisfatta. Il marchese gli accennò con la mano di tirar via, e le mule si rimisero al trotto al primo schiocco di frusta.

Lungo la ripida salita, Titta avea risparmiato le povere bestie. Alla svoltata della Cappelletta però, da dove lo stradone comincia a salire dolcemente, egli faceva riprendere il trotto; e pel movimento a sbalzi, i sonagli delle testiere squillavano all’ombra degli ulivi e dei mandorli che sporgevano dietro i ciglioni le chiome grige e verdognole tra cui stridevano alcune cicale ritardatarie, illuse forse dal persistente caldo che l’estate durasse ancora.

— Che c’è? — domandò il marchese all’improvviso arrestarsi della carrozza.

E, affacciatosi allo sportello, vide l’avvocato don Aquilante, con le lunghe gambe penzoloni dal parapetto di un ponticello, il cappellone di feltro nero, a larghe falde, che gli riparava dal sole, come un ombrello, la faccia sbarbata, con la grossa canna d’India tenuta ferma da una mano sul paracarro sottostante.

Don Aquilante socchiuse gli occhi, scosse la testa con l’abituale movimento, portò l’altra mano allo stomaco, quasi volesse reggere la cintura rilasciata dei calzoni, e scese dal parapetto, aggrottando le sopracciglia, stringendo le labbra con l’aria di un uomo importunamente disturbato.

— Qui, con questo sole? — disse il marchese aprendo lo sportello della carrozza.

Don Aquilante fece soltanto una mossa che voleva significare: Se sapeste! e, accettando l’invito espressogli con un gesto, montò accanto al marchese. Le mule ripartirono al trotto.

— Qui, con questo sole? — tornò quegli a domandare.

— Voi siete scettico.... Non importa!... Vi convincerete un giorno o l’altro! — rispose don Aquilante.

Il marchese sentì corrersi un brivido per tutta la persona. Pure fece il bravo, sorrise; e quantunque avesse pregato don Aquilante di non più riparlargli di quelle cose, ed ora ne sentisse più che mai invincibile terrore, provò un impeto di sfida per vincere la sensazione che gli sembrava puerile in quel punto, all’aria aperta e con tutta quella luce.

— Ah! Venite a cercare gli Spiriti fin qui?

— L’ho seguito a dieci passi di distanza, senza potere raggiungerlo. Ora è agitato; comincia ad aver coscienza della sua nuova condizione.... Voi non potete intendere; siete fuori della verità, tra la caligine dei pregiudizi religiosi.

— Ebbene? — balbettò il marchese.

— Un giorno vi persuaderete, finalmente, che io non sono un allucinato, nè un pazzo. Vi sono persone — soggiunse con severo accento, — che posseggono facoltà speciali per vedere quel che gli altri non vedono, per udire quel che gli altri non odono. Per esse, il mondo degli uomini e quello degli spiriti non sono due mondi distinti e diversi. Tutti i santi hanno avuto questa gran facoltà. Non occorre, però, di essere un santo per ottenerla. Particolari circostanze possono accordarla a un meschino avvocato come me....

— E non vi è riuscito di raggiungerlo! — disse il marchese, con accento che avrebbe voluto essere ironico e tradiva intanto l’ansia da cui era turbato.

— Si è fermato presso il ponticello ed è rimasto un istante in ascolto; poi, tutt’a un tratto, udito lo strèpito dei sonagli delle mule e il rumore delle ruote della vostra carrozza che saliva per la rampa sottostante, si è precipitato giù pel ciglione dirimpetto. Evidentemente, ha voluto evitare d’incontrarsi con voi.

— Perchè?

— Ve l’ho detto. Egli comincia ad aver coscienza della nuova condizione. In questo caso, tutto quel che rammenta la vita ispira orrore. È il punto più penoso dell’altra esistenza. Rocco che già si accorge di non essere più vivo....

Il marchese non osava d’interromperlo, nè osava di domandarsi se colui che gli parlava in quel modo avesse smarrito il senno o fosse ancora in pieno possesso della ragione. A furia di udirlo discorrere di queste stramberie, come il marchese soleva chiamarle, si sentiva attratto da esse, non ostante che da qualche tempo in qua gli ispirassero una gran paura del misterioso ignoto, a dispetto del suo scetticismo e delle sue credenze religiose.

E l’Inferno? E il Paradiso? E il Purgatorio? Don Aquilante li spiegava a modo suo; ma la Chiesa non dice che si tratta di cose diaboliche?

Titta aveva spinte le mule al gran trotto, per fare una bella entrata in paese con schiocchi di frusta, gran tintinnìo di sonagli e rumore di ruote; e questo distrasse il marchese dal torbido rimescolìo di riflessioni e di terrori che gli passava per la mente mentre don Aquilante parlava.

Rimescolìo di riflessioni e di terrori che lo riprendeva però appena posto il piede in quelle stanze deserte dove non si udiva altro di vivente all’infuori dello strascicar delle ciabatte di mamma Grazia e del borbottìo dei suoi rosarii, quando essa non aveva niente da fare.

— Ho lasciato la chiave nella serratura dell’uscio, — gli rammentò mamma Grazia.

E il marchese, per occuparsi di qualche cosa, quantunque veramente non avesse nessuna vecchia scrittura da ricercare, scendeva giù nel mezzanino.

Mamma Grazia aveva dato aria a quei due stanzoni, ma il tanfo di rinchiuso prendeva alla gola ciò non ostante. Larghe amache di ragnateli pendevano dagli angoli del soffitto. Un denso strato di polvere copriva i pochi vecchi mobili sfasciati, le casse, le tavole rotte che ingombravano la prima stanza e vi si distinguevano appena, perchè essa prendeva luce da l’altra che rispondeva su la via.

Entrato quasi diffidente, arricciando il naso pel forte puzzo di muffa, strizzando gli occhi per vedervi, il marchese si era fermato più volte a fine di raccapezzarsi. Tutta roba da buttar via! Era là fin da quando viveva il marchese grande. Nessuno aveva mai pensato di fare un bel repulisti; lo avrebbe fatto fare lui e subito.

Ma pur pensando a questo, tornavano a frullargli nella testa le parole di don Aquilante, quasi qualcuno gliele ripetesse sommessamente dall’angolo più riposto del cervello:

— Ha voluto evitare di scontrarsi con voi! Comincia ad aver coscienza della sua condizione!

Ormai! Che doveva importargli delle stramberie dell’avvocato?... Ma se fosse vero? Eh, via!... Ma, infine, se fosse vero?...

E si arrestò con un senso di puerile paura, appena passata la soglia dell’altra stanza. La stessa angosciosa impressione di una volta, di molti e molti anni addietro! Allora aveva otto o nove anni.

Ma allora il lenzuolo che avvolgeva il corpo del Cristo in croce, di grandezza naturale, appeso alla parete di sinistra, non era ridotto a brandelli dalle tignuole; e non si affacciavano dagli strappi quasi intera la testa coronata di spine e inchinata su una spalla, nè le mani rattrappite, nè i ginocchi piegati e sanguinolenti, nè i piedi sovrapposti e squarciati dal grosso chiodo che li configgeva nel legno.

La vista di quel corpo umano, che il lenzuolo modellava avvolgendolo lo aveva talmente impaurito da bambino, ch’egli si era aggrappato al nonno, al marchese grande, da cui era stato condotto là, ora non si rammentava più perchè; e i suoi strilli avevano fatto accorrere mamma Grazia e la marchesa nuova non ancora assalita dalla paralisi. Il nonno aveva tentato di convincerlo che quello era Gesù Crocifisso, e che non ne doveva aver paura; ed era salito sulla cassapanca sottostante per togliere gli spilli dal lenzuolo e fargli vedere il Signore messo in croce dai Giudei, del quale la mamma gli avea raccontato la storia della passione e della morte, un venerdì santo, prima di farlo assistere nella chiesa di Sant’Isidoro alla sacra cerimonia della Deposizione. Anche quella volta egli aveva strillato dalla paura, come altri bimbi suoi pari; e mamma Grazia era stata costretta a portarlo via in collo facendosi largo a stento tra la folla delle donne accalcate nella chiesa quasi buia, e singhiozzanti e piangenti, mentre un prete picchiava con un martello sul legno della croce per sconficcare i chiodi del Crocifisso, e una tromba squillava così malinconicamente che sembrava piangesse anch’essa.

Questi ricordi gli eran passati, come un baleno, davanti agli occhi della mente; e intanto la paura di bambino si riproduceva in lui ugualmente intensa, anzi raddoppiata dalla circostanza che il vecchio lenzuolo, ridotto in brandelli, rendeva più terrificante quella figura di grandezza naturale, che sembrava lo guardasse con gli occhi semispenti e volesse muovere le livide labbra contratte dalla suprema convulsione dell’agonia.

Quanti minuti non aveva avuto forza e coraggio d’inoltrarsi nè di tornare addietro?

Quanto potè vincersi e dominarsi, aveva le mani diacce e il cuore che gli batteva forte. E non riusciva a formarsi un’esatta idea del tempo trascorso. S’impose però, facendosi violenza, di fissare il Crocifisso, anzi di accostarsi ad esso.

E soltanto dopo che si sentì un po’ tranquillo, uscì dallo stanzone, indugiò un istante nell’altro, e chiuse l’uscio a chiave. Ma nel salire le scale gli sembrava che quegli occhi semispenti continuassero a guardarlo a traverso la spessezza dei muri, e che quelle livide labbra contratte dalla suprema convulsione dell’agonia si agitassero, forse, per gridargli dietro qualche terribile parola!

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