< Il Marchese di Roccaverdina
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Capitolo VIII Capitolo X

IX.


Don Silvio La Ciura si era alzato più volte dal tavolino dove teneva aperto davanti a sè uno dei quattro tomi del breviario.

Quella sera sembrava che i venti di levante e di tramontana si fossero dati la posta a Ràbbato per una sfida di gara; e soffiavano, fischiavano, stridevano, urlavano, strisciando lungo i muri delle case, scotendo le imposte, sconvolgendo le tegole sui tetti, azzuffandosi agli svolti delle cantonate, pei vicoli, nelle piazze con gridi rabbiosi, con ululi prolungati, ora vicini, ora lontani, che davano i brividi al povero prete.

Ai ripetuti assalti, l’imposta poco solida del balconcino della sua cameretta avea minacciato di cedere, di spalancarsi, di lasciar invadere la casa da quel che sembrava un nemico assediante, inasprito sempre più della resistenza che trovava.

Don Silvio, interrompendo la recita dell’ufficio, era stato costretto a puntellarla con un pezzo di tavola e con una stanghetta. Ma quantunque rassicurato, si arrestava spesso a metà d’un versetto di salmo, e si sentiva diventare piccino piccino a quegli ululi, a quegli impeti fischianti che facevano fin tintinnire, a intervalli, la piccola campana del vicino monastero di Santa Colomba, e buttavano, di tratto in tratto, sul selciato della via qualche tegola o qualche vaso da fiori che vi si fracassavano con pauroso rumore.

La sua casetta a un solo piano, all’angolo del vicoletto breve e contorto, investita da un lato dal vento di levante e, di faccia, dal tramontano, sembrava vacillasse. Tutti gli usci delle stanze si agitavano e i vetri delle finestre e del balconcino trabalzavano, e sul tetto era un continuo acciottolìo di tegole, quasi vi spasseggiasse a salti un grosso animale.

Don Silvio levava gli occhi dal breviario, tendeva le mani giunte alla Madonna Addolorata appesa al capezzale del lettino, invocandola, o si rivolgeva al crocifisso di ottone che aveva davanti sul tavolino:

— Sia fatta la vostra santa volontà, Signore! Abbiate pietà di noi, Signore!

E si sarebbe detto che i venti, indispettiti di quella preghiera, assalissero allora con maggior violenza la casetta, e urlassero con più forza dietro la porta, dietro le finestre e il balconcino. Per ciò don Silvio rimaneva un po’ incerto se quei colpi che gli era parso di udire alla porta di casa provenissero dal rabbioso furore del vento o da qualche persona che veniva a chiedere per un moribondo la sua opera spirituale.

Di là, la vecchia sua sorella lo chiamava:

— Silvio! Silvio! Non senti? Picchiano.

Scesi con un lume in mano gli scalini di gesso della scaletta, egli avea domandato da dietro la porta:

— Chi siete? Che volete?

— Aprite, don Silvio! Sono io.

— Oh, signor marchese! — egli esclamò stupito, riconoscendolo alla voce.

E posato il lume sur uno scalino, toglieva la stanghetta di sorbo che sbarrava traversalmente la porta di entrata.

Una folata di vento spense il lume.

— Lasciate fare a me, — disse il marchese, richiudendo sùbito la porta e puntellandola forte con una mano, mentre con l’altra cercava tastoni la stanghetta che don Silvio aveva appoggiato in un angolo. — Ho i cerini, — soggiunse, dopo di averla rimessa trasversalmente a posto, introducendone i capi nelle due buche laterali che dovevano tenerla fissa.

E riaccese il lume.

— Signor marchese! Che accade?... A quest’ora?... Con questo inferno scatenato?

Alto, robusto, con la cappotta di panno scuro il cui cappuccio gli nascondeva metà della faccia, il marchese di Roccaverdina sembrava un gigante di fronte al magro corpicino del prete, in quella cameretta imbiancata a calce e che aveva, soli mobili, il tavolino con su un crocifisso di ottone, i volumi del breviario e poche carte alla rinfusa, il lettino con la coperta bianca e quella Madonna Addolorata al capezzale, e due seggiole col piano rozzamente impagliato, una davanti al tavolino e una accanto al letto.

— Permettete, — disse il marchese sbarazzandosi dalla cappotta che buttò su la seggiola più vicina.

Don Silvio non osava di tornare a interrogarlo, dopo che non avea ricevuto nessuna risposta a pie' della scala.

Il marchese si passò più volte le mani su la faccia, si tolse di capo il berretto di màrtora, posandolo su la cappotta; poi, quasi facesse uno sforzo, disse:

— Voglio confessarmi! E scorgendo l’occhiata di stupore di don Silvio, soggiunse: — Ho anche fretta.

— Eccomi — rispose il prete. — Un momento, e vengo sùbito.

Andò di là, rassicurò sua sorella mezza cieca e malaticcia, senza dirle chi fosse venuto a trovarlo, e tornando nella cameretta chiudeva dietro a sè gli usci delle altre poche stanze.

Il marchese era rimasto in piedi, e l’ombra della sua persona proiettata dal lume si disegnava nera e ingrandita su la parete bianca, ingombrandola con la larghezza delle spalle e del torace, toccando la vôlta del soffitto con la testa attorno a cui si sparpagliavano, enormi come tentacoli di polipo, i ciuffi di capelli che egli aveva arruffati con rapido atto delle dita irrequiete.

Don Silvio intanto, cavata dalla cassetta del tavolino una stola di stoffa scura con due crocette di gallone di argento nelle estremità, se la passava dietro il collo, facendone ricadere i lembi sul petto. Tolse dal tavolino il lume, posandolo per terra nella stanza accanto, vicino all’uscio, in modo che la cameretta restasse in penombra; e sedutosi su la seggiola davanti al tavolino e fàttosi il segno della croce, ripetè: — Eccomi! — invitando nello stesso tempo, col gesto, il marchese a inginocchiarsi.

Il marchese esitò un istante. Volgendosi inquieto verso il balconcino contro cui il vento faceva impeto, tendeva l’orecchio all’urlo selvaggio che, imboccato il vicolo, passava rapidamente oltre, seguito da altri ùluli, da altri fischi, da altri stridi quasi umani che passavano pure rapidamente oltre in sinistra rincorsa, lasciandosi dietro un intervallo di morto silenzio più sinistro di loro.

Così, durante uno di questi intervalli, egli potè udire benissimo le gravi parole che il confessore gli rivolgeva a bassa voce, dopo di averlo aiutato a recitare il confiteor.

— Dimenticate ora la mia povera persona e il misero luogo dove vi trovate. Al cospetto di quel Dio che vi legge nel cuore, e che è Padre di misericordia e di perdono, confessate umilmente le vostre debolezze, i vostri falli, giacchè la sua santa grazia vi ha spinto a questo atto per la vostra eterna salute.

La voce di don Silvio aveva preso un accento solenne; e il marchese che, quantunque ginocchioni, si trovava con la fronte all’altezza della testa del prete sorretta da un braccio appoggiato al tavolino, rimase stupito della severa dignità di quel viso pallido, emaciato dai digiuni e dalle penitenze, che nelle circostanze ordinarie aveva un’umile espressione di sorridente dolcezza e di bontà quasi femminile.

Per vincere quest’impressione che lo aveva assai turbato, il marchese aspettò che il vento riprendesse a soffiare e a urlare; e giusto nel momento in cui parve che esso volesse trascinar via nella sua furia tutte le case del vicolo, balbettò:

— Padre, ho ammazzato io Rocco Criscione!

— Voi! Voi! — esclamò don Silvio con voce tremante, sollevandosi a metà da sedere, tanto gli era sembrato enorme quel che aveva udito.

— Meritava di essere ammazzato! — soggiunse il marchese.

— Dunque non siete pentito del fallo, figlio mio! — esclamò il prete riprendendo alquanto la sua calma.

— Sono qui, ai piedi vostri, per ottenere il perdono.

— E avete permesso — riprese quegli severamente — che l’umana giustizia condannasse un innocente?

— L’accusa non è venuta da parte mia.

— Voi però non avete fatto niente per impedire quest’infamia!

— È colpa dei giurati e dei giudici, se lo han condannato a torto, quasi senza prove.

— E perchè, perchè avete ammazzato Rocco Criscione?

— Se lo meritava!

— Chi vi ha dato il diritto di farvi arbitro della vita e della morte d’una creatura di Dio?

— Giacchè Dio lo ha permesso....

— Oh! Non bestemmiate a questa maniera per scusarvi e giustificarvi.

— Il Signore ci toglie il senno in certe circostanze.

— Quando meritiamo tale castigo!

— Ero pazzo, forse.... certamente.... in quella terribile notte!

— Ma dopo? Non avete riflettuto, non avete sentito rimorsi?

— Oh, padre! Che giornate e che nottate per lunghi mesi!

— Ebbene; era la voce di Dio che vi premeva, vi consigliava, vi chiamava....

— E sono venuto!... Lasciatemi parlare; non mi togliete con la vostra severità la forza di dirvi tutto. Aiutatemi anzi, siate misericorde!

— Dite, dite, figliuolo mio! Vi assisteranno la Beata Vergine e i santi da voi invocati col confiteor.

Ah! Perchè il vento taceva in quel momento? Il marchese aveva paura della sua stessa voce, davanti a quel sant’uomo, nella penombra della nuda cameretta.

Ma già egli aveva pronunciato le fatali parole: — Ho ammazzato io Rocco Criscione! — Quel segreto, da cui era stato torturato tanti e tanti mesi, gli era finalmente sfuggito di bocca! Ed ora egli sentiva bisogno, più che di accusarsi, di difendersi, di scolparsi anche!

Dopo che la giustizia umana non poteva più colpirlo, si sentiva oppresso dal terrore della giustizia divina. Gli sguardi semispenti di quel gran Crocifisso lo inseguivano fin là, dal mezzanino; e ora, quasi le avesse sotto gli occhi, egli vedeva agitarsi quelle livide labbra che gli era parso volessero pronunziare la parola: Assassino! e gridarla forte perchè tutti la udissero e tutti apprendessero!

Invano egli aveva tentato di persuadersi che tutto questo era opera della sua immaginazione esaltata. I sentimenti religiosi con i quali era stato educato dalla madre, attutiti dall’età, dai casi della vita, dalla poca frequenza con cui li aveva praticati specialmente in questi ultimi anni, suscitati quel giorno dalla vivissima impressione dell’inattesa vista del Crocifisso, gli erano rifioriti, da una settimana, nel cuore con la stessa semplicità, con la stessa sincerità di quand’era fanciullo.

Egli vi aveva opposto, sì, una specie di resistenza, quasi per istinto di conservazione, di difesa personale; ma quella notte, nello sconvolgimento della natura, il suo coraggio, il suo orgoglio avevano vacillato, avevano ceduto.

Ed era uscito di casa, spinto pure dalla certezza che nessuno, durante la tempesta scatenatasi su Ràbbato, lo avrebbe visto entrare dal prete, nessuno avrebbe potuto sospettare niente dell’atto ch’egli andava a compire.

Per questo non era umile davanti al confessore, per questo si ostinava a ripetere: — Se lo meritava! — parlando dell’ucciso.

Visto che il marchese intendeva di diffondersi nella narrazione, e comprendendo che avrebbe sofferto stando lungamente in ginocchio, don Silvio lo interruppe:

— Per le facoltà accordatemi, vi dispenso di continuare a confessarvi ginocchioni. Sedete; potrete parlare più liberamente.

Il marchese obbedì, grato di quel che gli pareva un giusto riguardo alla sua persona; e riprese:

— Mia zia diceva bene: Non dovevo sposare quella donna, per l’onore della nostra famiglia dove non è mai avvenuto nessun incrociamento con sangue basso.... Ma io non sapevo staccarmene. Convivevo da quasi dieci anni con lei....

— In peccato mortale — suggerì il prete.

— Come tanti altri — replicò il marchese. — La società non è un convento di frati che hanno fatto voto di castità. La carne ha le sue imposizioni; e i pregiudizi sociali sono talvolta più potenti delle stesse leggi umane e divine. Ho fatto male, come tanti altri; non mi accorgevo di far male. Eppure volevo impedirmi di arrivare fino all’eccesso paventato da mia zia e dagli altri miei parenti. Ci sarei arrivato più tardi, se non avessi preso la risoluzione.... Fu un patto, fra noi tre. Una sera, chiamai Rocco e gli dissi: — Devi sposare Agrippina Solmo.... — Contavo su la devozione di lui, su la sua fedeltà. Rispose: — Come vuole voscenza — — Dovrai però essere suo marito soltanto di nome!... — Non esitò; rispose: — Come vuole voscenza — Giuralo! — Giurò.... Poteva rifiutarsi....

— Ma è stato un gran sacrilegio! — esclamò il prete.

— Allora, chiamai lei. Ero sicuro della sua risposta. Per quasi dieci anni, l’avevo vista davanti a me umile, obbediente come una schiava, senza ambizioni di sorta alcuna. Questo formava la sua forza, il suo potere sul mio cuore. Le dissi: — Devi sposare Rocco!... — Mi guardò supplicante, ma rispose anche lei: — Come vuole voscenza! — Sarai però sua moglie soltanto di nome, per l’occhio della gente; giuralo! — E giurò.... Poteva rifiutarsi....

— È stato un gran sacrilegio! Al concubinato avete sostituito l’adulterio! — lo interruppe con accento di grande tristezza don Silvio.

— Non dovevo, non potevo sposarla io, e la volevo sempre mia. Non badai ad altro. Nel mio cuore c’era allora una tempesta assai più tremenda di questa che sconvolge l’aria fuori.... Voi siete un santo.... non potete intendere....

Le parole gli morirono su le labbra.

I due venti in contrasto riprendevano in quell’istante i loro ululati, i loro stridi; urtavano alle imposte, strisciavano lungo i muri, pel vicolo, come una masnada in rivolta, inseguentisi, e la campanella di Santa Colomba tintinniva, quasi annunziasse lamentosamente un prossimo disastro.

— Avrei voluto sùbito prevedere che esponevo quei due a un gran cimento! — continuò il marchese coprendosi il viso con le mani. — Ma la provata devozione di Rocco mi affidava; ma la gratitudine e l’affezione, non meno provate, di essa mi affidavano ancora più! E l’ostacolo apparente metteva un sapore nuovo nella mia vita; non godevo di altro! Per compensare Rocco del suo sacrificio, gli lasciavo mano libera. A Margitello, a Casalicchio, a Poggiogrande, il padrone era lui. Spendeva e spandeva con le donne; tanto meglio. Mi pareva rassicurante segno di fedeltà al giuramento. A lei avevo regalato, in dote, anche quella casa vicino a casa mia. Essa veniva da me tutti i giorni, con la scusa di aiutare nelle faccende mamma Grazia, che non ha mai sospettato niente, e che la soffriva malvolentieri. E davanti a tutti, io conservavo con gran scrupolo le apparenze. Mi son divagato con questo giuoco.... fino all’istante che cominciò a infiltrarmisi nell’animo il bieco sospetto. Per quali indizi? Non saprei dirlo precisamente. Perdei la pace. Ella se n’accorse sùbito; e il suo contegno più non fu schietto e sincero come prima. Ah, che fiera trafittura pel mio cuore! La gelosia mi faceva spalancare gli occhi su ogni minimo atto di Rocco e di lei, ma mi dava insieme forza di dissimulare. Ora egli non correva più dietro alle donne. Aveva perseguitato con le sue insistenze la bella moglie di Neli Casaccio.... Poi, si era chetato; lo ha confermato pure essa, nella sua deposizione davanti al giudice istruttore.... Perchè? Come mai?... Avrei dovuto prevederlo!... Erano sposi davanti alla Chiesa e alla legge; erano giovani e costretti a vivere nella stessa casa, a vedersi quasi tutti i giorni.... Ma.... non avevano accettato il patto? Non avevano giurato? Se si fossero presentati a me e mi avessero confessato: — Non vogliamo, non possiamo più! — io.... non so che cosa avrei risposto, che cosa avrei fatto. Avrei perdonato forse, li avrei sciolti dal giuramento.... Invece....

— E della legge di Dio non vi ricordavate mai?

— Voi siete un santo; non potete intendere! Ella giunse fino a non nascondermi che colui le faceva pena; fino a pretendere che le apparenze fossero conservate anche davanti a lui!... Me la sentivo sfuggire di mano; perdevo la testa pensando all’infame tradimento che quei due mi avevano fatto o stavano per farmi. Ingrati! Spergiuri! Dissimulavo tuttavia. Volevo essere certo.... O tutta mia, o nè mia nè di altri! Pensiero fisso che mi ribolliva nel cervello, e mi offuscava la ragione.... E quando mi parve di non poter più dubitare.... È avvenuto così!... L’ho ammazzato per questo!... Se lo meritava!

E la durezza dell’accento con cui il marchese aveva pronunziato queste ultime parole vibrò in quell’intervallo di calma come uno scoppio di frusta e parve riempire la cameretta.

Pallidissimo, con la testa china, gli occhi socchiusi pieno di terrore e di compassione, il prete aveva ascoltato il penitente, quasi dimenticando la sua funzione di confessore. Quella gran miseria umana, di cui egli ignorava i bassi avvolgimenti e le angosce, gli faceva stillare dalle palpebre cocenti gocce di lagrime che gli cascavano su una mano. Mai, da confessore, gli era accaduto un caso che avesse avuto almeno qualche lontana somiglianza con questo. E quel che più gli stringeva il cuore non era tanto il delitto confessato, quanto lo stato d’animo di colui che sembrava non avesse una chiara idea del gran sacramento di penitenza a cui era venuto a ricorrere. Mentre il marchese parlava, egli levava la mente a Dio, pregando per la contrizione del peccatore, invocando lumi perchè i suoi consigli giungessero a serenare quell’anima sconvolta e rabbuiata.

— Prostratevi di nuovo davanti a Dio — disse con voce lenta.

Il marchese si lasciò cascare pesantemente sui ginocchi, affranto; e si coprì un’altra volta la faccia con le mani convulse.

— Dio perdona soltanto a chi è pentito, a chi è pronto a riparare il male commesso. Sentite voi un profondo sentimento di contrizione dell’assassinio commesso e dei gravi peccati che lo hanno preceduto e preparato?

— Sì, padre! — rispose il marchese.

— Siete voi pronto a riparare i danni prodotti alla persona e alla reputazione altrui, unica positiva assicurazione del vostro pentimento?

— Sì, padre!... Se è possibile — quegli aggiunse esitando.

— C’è un innocente che soffre per colpa vostra. Bisogna giustificarlo, salvarlo.

— In che modo?

— Nel modo più semplice e più diretto.

— Non capisco....

— Egli sconta immeritatamente una pena che avrebbe dovuto ricadere sul vostro capo....

— Aiuterò, soccorrerò sua moglie e i suoi figli, in ogni maniera....

— Non basta.

— Che altro potrei fare?

— Liberarlo, prendendo il suo posto. Soltanto a questo patto....

— Padre, imponetemi qualunque gran penitenza....

— Questo vi dice il Signore per bocca del suo umile ministro; ne dipendono la vostra pace in questa vita, la vostra salvezza eterna nell’altra.

— Ho sentito dire che c’è un mezzo di riscatto dei peccati, beneficando chiese, istituzioni religiose, opere pie....

— Dio non mercanteggia il suo perdono. Egli che vi ha concesso la ricchezza può togliervela in un momento, se vuole. È stato immensamente misericordioso inspirandovi di accorrere al suo santo tribunale.

— Dovrei disonorare il nome dei Roccaverdina?

— Un misero orgoglio vi fa parlare così. Badate! Dio è giusto, ma inesorabile! Egli saprà vendicare l’innocente. Le sue vie sono infinite.

Il marchese abbassò il capo e non rispose.

— Pentirsi, quando il male da noi fatto è irreparabile, basta alla misericordia del Signore. Ma se la riparazione è possibile, urgentissima, il pentimento non vale niente. Io non potrei alzare la mano in nome di Dio ed assolvervi. Qualunque più grave penitenza sapessi imporvi sarebbe insufficiente, irrisoria. Riflettete bene!

— Rifletterò! — disse il marchese con cupa irritazione nella voce. — Badate intanto; io vi ho rivelato la mia colpa sotto il sigillo della confessione. Voi non potete denunciarmi alla giustizia....

— Denunciarvi? Che vi passa pel capo? Pensate piuttosto che in questo momento voi rifiutate la grazia del Signore....

— Assolvetemi!... Farò penitenza! — supplicò il marchese. — Riparerò in qualunque altro modo! Tutto si compensa nel mondo!

— Sentite? — rispose il confessore. — Dio ci parla anche coi venti, coi terremoti, con la fame, con la peste, e ci palesa l’ira sua e ci ammonisce....

— Tornerò un’altra volta!

E il marchese si rizzò in piedi.

— Il Signore vi aiuti! — esclamò il prete.

E mentre il marchese si rimetteva in testa il berretto di màrtora e indossava la cappotta, egli andò a riprendere il lume; e su quel viso pallido ed emaciato riapparve l’abituale dolce sorriso di bontà quasi femminile.

— Voi non potrete denunciarmi! — replicò il marchese.

E sembrava minacciasse.

— Ho dimenticato — rispose don Silvio. — Ah, signor marchese! Ah, signor marchese!

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