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X.
Non aveva avuto agio di riflettere lungo il faticoso giro per straducole e vicoletti a fine di evitare in qualche modo la furia del vento; ma appena chiuso cautamente il portoncino di casa e acceso il lume, il marchese respirò a larghi polmoni, quasi si sentisse liberato da insopportabile oppressione.
Era soddisfatto. Con lieta meraviglia, si sentiva tranquillo. La coscienza non gli rimordeva più, o almeno non lo atterriva coi tetri fantasmi che per poco — ne sorrideva compiacendosi — non lo avevano spinto al suicidio, quel giorno che era andato a rinchiudersi nella cameretta al secondo piano, deciso di tirarsi un colpo di revolver alla tempia. Due volte era stato sul punto di far scattare il grilletto; e perciò, trovatosi inattesamente faccia a faccia con Agrippina Solmo, aveva esclamato: Chi sa chi ti manda! Domineddio? O il diavolo?
Ora non gl’importava più di sapere precisamente chi l’avesse mandata quel giorno. Pensava soltanto che la giustizia umana si era legate le mani da sè, condannando Neli Casaccio; e che la giustizia divina doveva essere, in parte, già appagata dalla confessione spontaneamente e sinceramente fatta un’ora fa. Se il confessore non avea voluto imporgli una penitenza, se si era rifiutato di assolverlo, non era colpa sua.
Forse, scegliendo un altro sacerdote.... Si era lusingato che don Silvio La Ciura, tenuto per santo dal popolino — gli attribuivano anche parecchi miracoli — avesse dovuto giudicare meglio di tutti le circostanze per le quali un marchese di Roccaverdina era potuto diventare assassino.
E spogliandosi per andare a letto, esaminava freddamente il suo stato d’animo di quei giorni.
Una vampa di pazzia lo aveva avvolto! Si era creduto davvero stregato, come diceva mamma Grazia. Il colpo di fucile che aveva ucciso Rocco doveva però anche aver rotto la opera diabolica di quella donna, se egli si era sentito invadere immediatamente da invincibile avversione, da odio verso colei, appena ella poteva essere tutta sua, unicamente sua, come la desiderava e voleva prima di ammazzare lo spergiuro!
E quel sant’omo di don Silvio gli proponeva di denunciarsi, di prendere il posto di Neli Casaccio!
Se Dio intanto aveva permesso che costui fosse condannato, voleva dire probabilmente che gli pesava addosso qualche altro grave delitto rimasto occulto.
In quanto a lui, visto che il confessore si era rifiutato di assolverlo, perchè non si sarebbe rivolto a chi sta più in su di qualunque confessore, a chi ha piena facoltà di sciogliere da tutti i peccati, al Papa in persona? Il Papa è Dio in terra. Col pretesto di un viaggio nel continente, egli sarebbe andato a Roma per buttarsi ai piedi di Sua Santità. — Doveva fondare un altare con messa perpetua? Dotare un orfanotrofio? Regalare un calice di oro con brillanti a San Pietro? — Purchè il nome e l’onore dei marchesi di Roccaverdina non fosse macchiato!.. Oh! Pio IX avrebbe capito sùbito le buone intenzioni di lui; non era povero di mente come don Silvio!
E si era addormentato in ginocchio davanti a Pio IX che alzava la mano per assolverlo.
Così si rimetteva alla solita vita con vivissima eccitazione di occuparsi, di stordirsi, quasi le energie del suo organismo volessero prendersi la rivincita dell’inerzia in cui le aveva lasciate per tanti mesi, abbandonando gli affari di campagna in mano di garzoni incapaci e senza scrupoli, di mezzadri che col pretesto della cattiva annata, oltre di non pagare i fitti, venivano a piangergli davanti per avere soccorsi di semenza e di alcune giornate di quegli aratri di nuovo modello da lui fatti venire da Milano. La lunga siccità aveva reso duri come il ferro i terreni, e i vomeri ordinari non riuscivano a spezzarli per preparare i maggesi.
— Abbiamo la mano di Dio addosso! — conchiudevano malinconicamente.
Egli non osava di rispondere, come le altre volte: — La vera mano di Dio che vi pesa addosso è la vostra pigrizia!
Guardava un po’ scoraggiato anche lui quelle campagne dove non si scorgeva un fil d’erba, quel cielo che, da mesi e mesi, non mostrava agli occhi ansiosi l’ombra di una nuvoletta all’orizzonte. Soltanto l’Etna fumava, quasi volesse ingannare la gente facendo scambiare per nuvole le dense ondate di fumo del suo cratere, che il vento disperdeva lontano.
Verso sera, la spianata del Castello si popolava di contadini, di gente di ogni condizione che venivano a interrogare il cielo per trarne qualche buon augurio. Le serate erano dolci, quantunque già si fosse alla fine di novembre. Non spirava un alito.
Il canonico Cipolla, che aveva letto i giornali in Casino, prognosticava vicina la pioggia.
— A Firenze piove da un mese, giorno e notte! In Lombardia, fiumi rigonfi straripano, allagano le campagne. Il cattivo tempo è in viaggio; arriverà anche qui!
E i contadini che stavano a udirlo a bocca aperta, volgevano gli occhi verso il levante per scorgere qualche indizio che annunziasse il prossimo arrivo del cattivo tempo in viaggio, e sarebbe stato tempo benedetto!
L’anno avanti non si era raccolto neppur tanto da compensare della semenza gettata nei solchi. Le ulive si erano risecchite su le piante. Per ciò tutti si sforzavano di raddoppiare la sementa, risparmiando il grano da molire, stringendosi le cigne dei calzoni attorno allo stomaco, sperando di rifarsi col nuovo raccolto.
E il marchese parlava poco e senz’alzare la voce, ora passeggiando su e giù per la spianata, dal bastione allo zoccolo della croce, ora seduto su uno scalino di esso, sentendosi lentamente compenetrare dalla costernazione che si leggeva su tutti i volti e dalle parole di tristezza che uscivano dalla bocca di quei poveretti.
Essi se ne andavano a uno a uno, a due, voltandosi indietro per dare un’ultima occhiata a quel cielo limpidissimo, a quelle campagne riarse, a quei monti lontani che non si erano coperti di neve e dietro i quali non si affacciava da mesi uno straccio di nuvoletta.
Anche quei del Casino che venivano lassù non a godere il fresco ma a spiare, come la povera gente, il cielo di bronzo, l’orizzonte senza vapori e l’Etna che fumava, anche quei del Casino non discutevano più del sindaco, degli assessori, di tutte le loro misere gare municipali per cui ordinariamente si accapigliavano trovandosi insieme.
— Sarà una mal’annata peggiore della precedente!
— I piccoli furti non si contano più!
— Che volete? La fame è cattiva consigliera!
— Dobbiamo pensare ai fatti nostri, marchese!
— Ognuno ha i suoi guai! — egli rispondeva.
E siccome, una sera, assieme con altre persone, era venuto lassù anche il cavalier Pergola, suo cugino, col quale stava in rottura, il marchese fu costretto a rivolgere la parola pure a lui che si era avvicinato salutandolo il primo.
Il cavaliere, ad arte o no, lo aveva toccato nel debole, domandandogli se era vero che quell’anno avrebbe adoperato la trebbiatrice a Margitello.
— Forse, per prova, togliendola in prestito dal Comizio agrario provinciale.
— Voi potete farlo; ma i piccoli proprietari?
— Si tratterebbe di trasportare i covoni. La spesa verrebbe largamente compensata dalla celerità e dalla perfezione del lavoro. Margitello è un punto centrale.... Noi abbiamo quel che ci meritiamo — aveva soggiunto il marchese. — Non ci curiamo di associarci, di riunire le nostre forze. Io vorrei mettermi avanti, ma mi sento cascare le braccia! Diffidiamo l’uno dell’altro! Non vogliamo scomodarci per affrontare le difficoltà, nè correre i pericoli di una speculazione. Siamo tanti bambini che attendono di essere imboccati col cucchiaino.... Vogliamo la pappa bell’e preparata!
— Parole d’oro!
— I nostri vini se li prende la Francia, con quattro soldi, e ce li rimanda trasformati in bordò. I nostri olî sono buoni appena per saponi o per macchine, e abbiamo intanto le migliori ulive del mondo. Io ho prodotto vini, così, per saggio, da mettersi in tasca tutti i bordò, tutti gli Xeres, tutti i Reni dell’universo; olî da dar dei punti a quei di Lucca e di Nizza.... Ma bisognerebbe produrre in grande, esportare.... E non parlo dei formaggi, del burro!...
Erano rimasti soli lassù, senz’accorgersi che la sera si era inoltrata; il plenilunio ingannava.
All’ultimo, il cavalier Pergola gli aveva detto:
— Pur troppo è così! Siamo ancora mezzi barbari!... Ecco: per parlare di noi, giacchè l’occasione è capitata, noi ci guardiamo da un bel pezzo in cagnesco. Perchè? Per un pregiudizio. Non ho sposato in chiesa! È il mio gran delitto. Vostro zio non vuol vedere in viso, nemmeno da lontano, sua figlia! Voi avete fatto lo stesso con me.
— Il torto è vostro, cugino! Siete scomunicato, non lo sapete? E fate vivere in peccato mortale anche quella poveretta!
— Perchè un prete sudicio non ci ha buttato addosso due gocce di acqua salata?
— Benedetta, cugino! Dio vuole così!
— Quale Dio? Chi lo ha visto cotesto Dio?
— Io vi rispondo come don Silvio La Ciura, quando don Aquilante voleva provargli che le persone della Santissima Trinità sono quattro: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo e il Dio che vien formato dalla riunione di tutti e tre.
— E che rispose quel bestione?
— Tre! Tre! Tre! E s’inginocchiò e baciò per terra... Lasciamo andare questo discorso.
— Ebbene, scomunicato qual sono, io sto bene quanto gli altri. Che mi fa la pretesa scomunica? Niente. Se fosse vera, dovrei vedermi cascare i panni d’addosso; le mie campagne non dovrebbero fruttare; i miei affari andare a rotoli. Invece! Guardate là. Che cosa concludono quei gonzi che si affollano dietro a don Silvio, recitando il rosario del Sagramento, con la croce e i lanternoni, in processione per le vie? Sciupano scarpe e fiato. Da mesi, ogni sera, essi vanno attorno, mettendo malinconia alla gente, invocando la pioggia. Se esistesse davvero un Dio che fa la pioggia e il bel tempo, avrebbe dovuto muoversi a compassione. Non piove e non pioverà fino a che le leggi della Natura....
— La Natura? Che cos’è?
— Il mondo, il cielo, l’universo, la materia; non c’è altro! E piove quando deve piovere, quando può piovere. E se noi crepiamo di fame, la Natura non si turba per ciò. Siamo insetti impercettibili di fronte al Creato.
— Ma cotesta Natura chi l’ha fatta?
— Nessuno. Si è fatta da sè, e da per sè....
— Chi ve l’ha insegnate tutte queste fandonie?
— Chi? I libri che voialtri non leggete. Fandonie? Verità sacrosante; e i preti che hanno paura di perdere la cuccagna, se esse si diffondono nel popolo....
— Voi l’avete sempre coi preti!
— Sono nemici d’ogni bene dell’umanità.
Tacquero, per guardare la folla fermatasi e inginocchiatasi laggiù davanti a la chiesa di Sant’Isidoro recitando il rosario del Sagramento dietro a don Silvio che portava la croce nera, tra una dozzina di lanternoni. Si udivano distinte le parole cantate:
— E cento mìlia volte sia lodato e ringraziato...!
In quel momento la campana del convento di Sant’Antonio dava il segno dell’un’ora di notte.
Il marchese si avviò.
Al lume di luna, si vedeva la folla dei preganti che sfilava inoltrandosi per la via di rimpetto, dietro la croce nera e le fiammelle gialle dei lanternoni che pareva traballassero.