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XI.
Rocco Criscione, Agrippina Solmo, le Assise, la stessa nottata della confessione erano ormai pel marchese di Roccaverdina persone ed avvenimenti così lontani, ch’egli stesso si maravigliava di questo strano fenomeno della sua memoria.
Di tratto in tratto però, con lunghi intervalli, qualcuna di quelle figure gli si rizzava improvvisamente davanti e lo faceva sobbalzare, quasi apparizione reale.
Rivedeva ora Rocco ora la Solmo in un particolare atteggiamento, come li aveva visti anni addietro, in qualche circostanza insignificante, in campagna o in casa sua; e non riusciva a spiegarsi perchè mai quei ricordi gli scattassero dalle oscure profondità del cervello limpidi, precisi, senza che nessun apparente richiamo avesse potuto sollecitarli.
Rocco che maneggiava un arnese rusticano; che mangiava sul desco di pietra, nella corte di Margitello, un’insalata di pomidori, col fiasco di terracotta stagnata da un lato, e con la grossa pagnotta di pane scuro dall’altro, nell’atto di tagliarsene larghe fette da intingere nel condimento. La Solmo, coi capelli disciolti, quando si pettinava in maniche di camicia, e buttava indietro, con grazioso movimento della testa, parte della chioma nera e folta, legata rasente la nuca con la stringa; o quando, lavata e pettinata, innaffiava le graste di basilico e di garofani su pei terrazzini, orgogliosa di quei folti e rotondeggianti cesti di basilico, che ella accarezzava con le mani per impregnarsele di odore e annusarle deliziata.
E mai l’uno o l’altra in circostanze gravi, in atteggiamenti di rimprovero o di accusa, o semplicemente in atto di discorrere con lui o di stare ad ascoltarlo, no; ma occupati in qualche faccenda per conto loro, senza sospetto di essere osservati.
Apparivano improvvisamente e allo stesso modo sparivano, e non gli lasciavano altra impressione all’infuori dello sbalzo e di quella curiosità di sapere per quale nascosta ragione fossero apparsi e spariti.
Soltanto allorchè, allo stesso modo, egli rivedeva il gran Crocifisso che lo guardava, lo guardava con gli occhi velati dallo spasimo dell’agonia, agitando le labbra tumide e pavonazze per pronunziare parole che non prendevano suono, soltanto allora egli si sentiva rimescolare da terrore quasi puerile, e chiamava sùbito:
— Mamma Grazia!
In quel momento voleva qualcuno che gli stèsse vicino e lo aiutasse a vincere quell’impressione.
Mamma Grazia accorreva.
— Che vuoi, figlio mio?
Ed egli la intratteneva con un pretesto qualunque, fino a che la interna visione non si affievoliva, non si scancellava e non lo lasciava di nuovo tranquillo.
Qualche volta gli passava anche per la testa il timore che don Silvio non andasse a denunciarlo, in un impeto d’ingenuità o di compassione pel condannato a torto.
Incontrandolo, è vero, il sant’uomo lo salutava umilmente, al suo solito, con quel soave sorriso che gli illuminava il volto pallido e scarno. Il saluto: — Buon giorno, marchese! — Servo suo, marchese! — aveva però, o gli sembrava, la stessa intonazione delle ultime sue parole in quella notte, miste di compianto e di rimprovero: — Ho dimenticato!... Ah, signor marchese! Ah, signor marchese! — Ma la convinzione che i confessori, per speciale grazia divina, non potessero rivelare i peccati dei penitenti, lo rassicurava.
Infine, che prove avrebbe potuto dare don Silvio? La sola sua affermazione non era sufficiente!
Per tutto questo, sere addietro, egli aveva ascoltato senza indignarsi le empietà del cugino Pergola, e poi le aveva ripensate lungamente, ripetendosi spesso:
— E se ha ragione lui?... Non è solo nel pensare così.... E se ha ragione lui?
Il marchese non si era mai occupato di quelle intricate questioni, come non si era mai occupato di politica, di amministrazione comunale, nè di tant'altre cose che non lo riguardavano da vicino. Doveva badare ai suoi affari, non voleva avere grattacapi per nessuno.
Che gl’importava che fosse re Ferdinando II, o Franceschiello, o Vittorio Emanuele? Tanto, era la stessa solfa: — Pagare tasse! — La libertà? Ma egli aveva sempre fatto quel che gli era parso e piaciuto. Si sentiva meglio di un re in casa sua. Comandava ed era obbedito più di Vittorio Emanuele che non poteva far niente, dicevano, senza il consenso dei ministri. E allora che valeva l’essere re?
In quanto alla religione.... No! No! Il cugino Pergola, con quei libri proibiti, aveva dato l’anima al diavolo. Era protestante, frammassone, ateo; bestemmiava peggio di un turco...
Bestemmiava anche lui, ne conveniva, ma per cattiva abitudine, perchè aveva da fare con gente che non capiva le ragioni, ma le parolacce. E poi, una cosa era il praticar poco la religione, un’altra il negare l’esistenza di Dio, della Madonna, dei Santi!
Intanto, quando si era fortificato, per un poco, contro l’impressione dei discorsi del cugino, la pulce cominciava a ronzargli dentro l’orecchio:
— E se ha ragione lui? E se ha ragione lui?
Una mattina quel demonio tentatore era andato insolitamente a fargli una visita.
— Vedete, caro cugino! Sono più cristiano di tutti voialtri; dimentico le offese. Non vi dispiacerà, spero, che sia venuto a trovarvi. Io sono indulgente. Capisco le debolezze umane, come le chiamano i preti. Quando tutti vi biasimavano perchè tenevate in casa la Solmo, vi difendevo, solo contro tutti i parenti. Mio suocero, vostro zio, buttava fuoco e fiamme dalla bocca e dagli occhi; la zia baronessa, peggio. Credete che fosse per la morale? Per vanità, per interesse. Avevano paura che la sposaste.... Oh, io l’avrei sposata per dispetto. Belloccia, giovane, onesta, via, più di parecchie maritate.... Siete stato troppo buono! Basta; avete fatto il comodo vostro; ve ne siete sbarazzato. Potrete ricominciare con un’altra.
— Ah, no! — esclamò il marchese.
— Perchè? Per quel che direbbe la gente? Lasciatela strillare! Voi fate una vita impossibile. Siete il marchese di Roccaverdina e non contate per niente. Se fossi nei vostri panni, non si dovrebbe muovere foglia in paese senza il mio consenso; e anche per fare un po’ di bene. Vi siete imprigionato qui, come se il mondo non esistesse.
— Bado agli affari miei.
— Potreste badarvi egualmente. Accumulate quattrini? A che scopo? Quando il danaro non serve a far godere la vita, è cosa senza valore.
— La godo a modo mio.
— Avete gli occhi chiusi, caro cugino. Se credete di guadagnarvi il paradiso!... Il paradiso è quaggiù, mentre respiriamo e viviamo. Dopo, si diventa un pugno di cenere e tutto è finito.
— E l’anima?
— Ma che anima! L’anima è il corpo che funziona; morto il corpo, morta l’anima. Chi ha mai visto un’anima? Soltanto don Aquilante e i pochi pazzi suoi pari si illudono di parlare con gli Spiriti.
— Chi ci assicura che sia come dite voi?
— La scienza, l’esperienza. Nessuno è mai tornato dall’altro mondo.... Ma già, per voi, le fandonie dei preti sono verità sacrosante.
— Le ha rivelate Dio.
— A chi? Se rifletteste un momento, vi avvedreste di qual ammasso di contradizioni è composta la Fede. E i preti, che la sanno lunga, dicono: — Fate quel che vi diciamo noi, non quel che facciamo noi! —
— Sono uomini anche loro....
— Siamo uomini pure noi; ci lascino tranquilli!
— Perchè Dio ci ha dunque creati?
— Non ci ha creato nessuno! La Natura ha prodotto un primo animale e da esso, per trasformazioni e perfezionamenti, siamo venuti fuori noi. Siamo figli di scimmia, animali come gli altri animali.
— Oh, questo poi!...
— Animalissimi! Solamente, invece dell’istinto, abbiamo la ragione; ed è la stessa cosa. Con la scusa della ragione, facciamo però tante cose irragionevoli. Abbiamo inventato l’anima immortale, il paradiso, l’inferno.... I cani, gli uccelli hanno l’anima anch’essi. Dove vanno le anime loro dopo la morte? C’è il paradiso dei cani? C’è l’inferno degli uccelli? Sciocchezze! Fantasticherie! Tutte invenzioni dei preti. E quando si avvedono che una loro balordaggine non si regge più, ne inventano sùbito un’altra. I sacerdoti pagani: Giove, Giunone, cento mila divinità. I preti cattolici hanno preso Dio agli ebrei e hanno inventato Gesù Cristo.
— State zitto! Inventato?
— Gesù Cristo era un uomo come voi e come me, bravo, caritatevole, che odiava i sacerdoti, che non voleva tempii.... Che ne hanno fatto i preti? Un Dio, col papa, coi cardinali, con chiese piene di fantocci, di madonne e di santi....
— State zitto! State zitto!
Il cavalier Pergola scoppiò a ridere.
— Che? Temete che ci si sprofondi il pavimento sotto i piedi? Ecco; non si sprofonda niente!... Ah! Ah! Ah! Voglio portarvi certi libri. Dovete leggerli; tanto, non avete nulla da fare.
— Sono proibiti.
— Figuratevi! I preti vorrebbero impedire il trionfo della verità....
E mentre il cavalier Pergola, parlando, agitava i quattro peli della barbetta che gli orlava il mento, il marchese si meravigliava di stare ad ascoltarlo con grande interesse.
— Se fosse così, come diceva il cugino?
Si sentiva rimescolato, quasi una mano crudele tentasse di strappargli dalle viscere qualcosa di vivo e di tenace.
— Secondo voi — disse — ognuno potrebbe commettere qualunque delitto e scialarsela, giacchè non c’è inferno nè paradiso.
— C’è la legge, fin dove può; c’è la coscienza umana che ci dice: Non fare agli altri quel che non vuoi fatto a te stesso!
— È uno dei dieci comandamenti di Dio.
— Di Mosè, che era un gran sapiente, un politicone come non ne nascono più. Fingeva di salire sul Sinai a discorrere col Padre Eterno, quando era cattivo tempo e tonava; e poi veniva giù: — Il Padre Eterno mi ha detto questo; il Padre Eterno ordina quest’altro! — E faceva bene; col popolo ignorante si deve agire così.... Dopo che avrete letto quei libri di cui vi ho parlato....
— Non li leggerò; è inutile prestarmeli. Non voglio guastarmi la testa.
Eppure li lesse, con una specie di terrore, e li rilesse anche. Ragionavano assai meglio del cugino, che riferiva le cose buccia buccia, e, sentendosi a corto di argomenti, scaraventava fuori due, tre bestemmie in fila per sfogarsi contro i preti, contro il papa, fin contro il governo che non li impiccava tutti.
— Eh? — gli domandava il cavaliere. — Vi siete convinto?
Tutte le cose lette gli turbinavano nella mente e nella coscienza, senza che egli avesse coraggio di mostrargli che lo avevano scosso.
Gli sembrava di essere penetrato in una regione nuova, dove si respirava meglio, con più larghi polmoni, ma dove egli si sentiva ancora, come le persone arrivate di recente, un po’ sbalordito e solo. Bisognava abituarsi; e si accorgeva con piacere che non era difficile. Di giorno in giorno, rimuginando le cose udite e lette, vedeva che una difficoltà, una repugnanza, un ostacolo erano già superati.
Incontrando don Silvio, al saluto: — Servo suo, marchese! — ora rispondeva con tono di celata ironia, quasi volesse dirgli: — Non me la date più a intendere, prete mio! — E si sbalordiva di sorprendersi a pensare così.
Certe sere, durante la cena, dal balcone aperto, gli arrivava all’orecchio il confuso rumore delle voci che andavano cantando il rosario del Sagramento dietro a don Silvio, in penitenza per la siccità; e alzava le spalle, compassionando quei poveretti che sciupavano scarpe e fiato, ripeteva le stesse parole del cugino, con la speranza che il cielo si movesse a pietà di loro!
E non si turbava più, se udiva nella notte il rauco ritornello cantilenato dalla zia Mariangela:
— Cento mila diavoli al palazzo dei Roccaverdina! Oh! Oh! Cento mila....
Quei diavoli mandati attorno dalla povera pazza, cento mila qua, cento mila là, per tutte le case dei ricchi, gli facevano soltanto rivedere con l’immaginazione la figura della infelice, che portava i capelli tagliati alla mascolina, coperta di cenci, pavonazza in viso pel sangue che le saliva alla testa. Così andava girando per le vie, sboccata ma innocua, quando il marito non la incatenava al muro come una bestia feroce, per costringerla a restare in casa.
Ma poi, appena egli credeva di essere già certo, ridiveniva a poco a poco perplesso. A letto, prima di addormentarsi, in campagna sorvegliando i lavori e dando ordini, nell’andare e venire da Ràbbato a Margitello, o a Casalicchio, o a Poggiogrande, rannicchiato in fondo alla carrozza, tutte quelle storie del cugino, tutte le cose lette e rilette gli crollavano nella mente come un giuoco di carte.
E riprendeva a pensare al progettato viaggio in Roma, per farsi assolvere dal papa.
— Nel dubbio, non era meglio mettersi in salvo?
Intanto l’irrequietezza lo riafferrava. Il cugino Pergola aveva ragione quando gli diceva: — Voi fate una vita impossibile!
E la zia baronessa aveva pure ragione:
— Perchè non vuoi? Perchè?
Inoltre, in fondo in fondo al cuore, l’odio ora gli rimescolava più spesso i ricordi di Agrippina Solmo.
— Potrete ricominciare con un’altra! — gli aveva suggerito il cugino Pergola.
— Oh, no! Oh, no!
E ripiangeva la calma felicità di quegli anni in cui non dava retta a nessuno e faceva il piacer suo; e la sua casa era pulita come uno specchio, ed egli possedeva non un’amante delle solite, ma una vera schiava, buona, sottomessa.... che aveva anche il gran pregio di non fare figliuoli!
Ah, se non avesse ascoltato i rimproveri e i suggerimenti della zia baronessa!
Niente sarebbe accaduto di quel che era accaduto! Ed egli non si sarebbe trovato un delitto su la coscienza — gli sembrava quasi incredibile! — e Agrippina Solmo starebbe ancora là.....
— E dire che c’è gente che m’invidia! — sospirava, scotendo la testa.