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XII.
Quella domenica andando, cosa insolita, dalla zia baronessa senza che fosse mandato a chiamare, il marchese ebbe la sorpresa di trovarvi la signorina Mugnos accompagnata dalla sorella minore e dalla serva.
Riconosciuta costei nell’anticamera, dove don Carmelo le dava spiegazioni, a modo suo, intorno a certi ritratti di antichi personaggi dei Lagomorto, appesi ai due lati della stanza sopra le cassapanche strette e lunghe con spalliere ornate dello stemma gentilizio rozzamente dipinto, il marchese aveva sùbito indovinato chi si trovava dalla zia. E suo primo movimento era stato quello di tornare addietro; per timidezza, come ai tempi ormai lontani in cui non aveva osato di fare alla giovinetta un’aperta dichiarazione; e anche per vergogna di trovarsi ora faccia a faccia con lei che già sapeva le intenzioni della zia baronessa e, forse, pure le riluttanze di lui, non essendo la prudenza una delle principali virtù della vecchia signora.
Ma don Carmelo era corso ad annunciare alla padrona:
— C’è il marchese!
E per alcuni istanti anche la baronessa si era trovata in imbarazzo.
— Si parlava della mal’annata — ella riprese. — Si può parlar d’altro? La povera gente muore di fame. È uno strazio!
— Dicono che il governo manderà dei soccorsi — fece il marchese.
— E queste cucine.... come le chiamano?
— Economiche. Distribuiranno, per pochi soldi o gratis, minestre di riso e pane. Al Municipio sono in faccende per metterle su.
Tacquero.
La signorina Zòsima, la maggiore delle Mugnos, non aveva detto una parola e non aveva alzato gli occhi.
La minore avea continuato ad andare attorno pel camerone, osservando minutamente i vecchi mobili e i quadri, dopo aver risposto con un inchino al saluto del marchese quando era entrato.
Così egli, trovandosi ora a lato della baronessa e di faccia a colei che era stata la sua breve passione giovanile, si sentiva su le spine; e non sapendo come riattaccare la conversazione, si arrabbiava internamente contro la zia che non gli veniva in aiuto e che pareva lo facesse a posta, per costringerlo a parlare.
Ah! Era molto cangiata la Mugnos.
E il viso pallido, con quei capelli castagni pettinati all’antica, semplicemente, con quel fazzoletto di seta scuro che glielo contornava, e col vestito quasi nero, semplicissimo anch’esso, mostrava più anni che ella non avesse in realtà.
Qualche cosa però della primitiva grazia sussisteva tuttavia nei lineamenti, nell’espressione; qualche cosa di soave, di gentile, di signorile, quantunque la modesta decenza dell’abito lasciasse scorgere la triste condizione in cui la famiglia era caduta per colpa del padre.
Costui aveva voluto vivere sempre da signore, senza far niente, indebitandosi, vendendo a uno a uno i fondi, le case, i canoni, tutto, pei vizii della gola e del giuoco. Era morto all’improvviso, a tavola; e, dalla mattina alla sera, la sua famiglia s’era vista sprofondare in un abisso.
Metà della scarsa dote della vedova, strappata a stento alle rapaci mani dei creditori accorsi sùbito, come corvi, faceva vivere miseramente lei e le figlie. Tutte e tre lavoravano, nascondendosi per pudore, di cucito, di ricamo o filando lino (così correva voce) fino a tarda notte, chiuse in casa come monache, uscendo soltanto le domeniche per la messa cantata o per qualche rarissima visita. E si intristivano in quelle stanze quasi nude, dormendo su pagliaricci perchè avevano dovuto vendere fin la lana delle materassa, orgogliose però di non chiedere niente a nessuno; la mamma, invocando silenziosamente la morte che si era dimenticata di venire a prendersela, e paventando nello stesso tempo, ma soltanto per quelle due angeliche creature, che essa venisse; le figlie, rassegnate a tutto e non lamentandosi mai.
Queste cose, parte egli le aveva sapute dalla baronessa; parte, da don Aquilante che, come avvocato, aveva dovuto rimediare per loro parecchi brutti affari, servendole con premura di amico, disinteressatamente. E la baronessa, dicendogli, l’altra volta: — Faresti la tua felicità e anche un’opera buona — accennava appunto a tali circostanze, che ella, evitando di offendere la dignitosa verecondia delle tre donne e con diversi delicati pretesti, si era sempre ingegnata di raddolcire.
Il marchese intanto, durante quei momenti di silenzio, si sentiva invadere da un impeto improvviso. La voce della coscienza gli suggeriva:
— Se tu lasci passare quest’occasione, se tu non parli ora, non si darà più il caso, mai più! E non potrai rimediare!
Questa voce era la conseguenza di quel che aveva pensato e fantasticato nei giorni avanti, quando avea fin temuto di vedersi di nuovo in balìa dei rinascenti stimoli che gli facevano rimpiangere il passato, quasi la creduta fattura di Agrippina Solmo tornasse a oprargli addosso.
Era anche la conseguenza della decisione da lui presa di far vita nuova, con intendimenti nuovi; di mescolarsi con gli altri, di agire insieme con gli altri, di non rimanere più oltre un’ombra, un nome, come aveva fatto fin allora.
Il cugino diceva benissimo:
— Il paradiso è quaggiù, se sappiamo godercelo!
E, ora, il marchese voleva goderselo, largamente; convinto ormai che appena morti si è morti per sempre. Non se ne sa niente di certo, per lo meno; e poteva darsi, in ogni caso, che nel mondo di là fossero più di manica larga dei confessori di quaggiù.
In quanto a Neli Casaccio.... Soccorrendone sotto mano, per mezzo di mamma Grazia, la famiglia, il marchese si era già messo l’animo in pace.
E poichè si trovava là, di faccia alla signorina Mugnos che non osava di guardarlo; e poichè sentiva l’impulso di non lasciarsi sfuggire l’occasione, e il cuore gli prediceva: — O ora, o il caso non si darà più, mai più! — egli cercava una parola, una frase con cui riprendere il discorso, quando la baronessa ruppe il silenzio:
— Ebbene? Non vi dite niente? Come se non vi foste mai conosciuti!
— Zòsima!! — esclamò il marchese. — Permettetemi di chiamarvi così, come anni fa.... Ricordate?
La signorina Mugnos alzò gli occhi, e un dolente sorriso le fiorì su le labbra; ma si spense sùbito.
La baronessa allora si rizzò da sedere con la scusa di mostrare all’altra sorella certi oggettini curiosi, conservati in una cassetta del cantonale davanti a cui quella si era fermata.
Rimasti soli, Zòsima e lui, il marchese esitò un istante. L’atto della zia baronessa gli aveva fatto smarrire il filo delle idee, ed egli cercava di rintracciarlo.
— Ricordate? — poi replicò.
— Non ho mai dimenticato!
— E nel cuore non avete niente, proprio niente, contro di me?
— Che mi avete fatto di male?
— Ho fatto molto male a voi e me; ora lo comprendo. E.... se fosse possibile....
— Ormai! — ella rispose con una leggera mossa delle spalle.
— La mia vita, finora, è stata un grande sbaglio, da cima a fondo — continuò il marchese. — Peggio che uno sbaglio, forse!... Ma non sono così vecchio da non poter rimediare.
— Tante cose sono cangiate; io, sopratutto. Mi avreste riconosciuta incontrandomi altrove? Sono parecchi, parecchi anni che non ci troviamo faccia a faccia. Siamo due fantasmi venuti fuori chi sa come!... Non vi pare?
— Voglio rinunciare al mio isolamento; voglio vivere come gli altri, in mezzo agli altri.
— Fate bene.
— La zia baronessa vi ha parlato qualche volta....
— La baronessa è buona, e s’illude riguardo a me!
— In che modo? Perchè s’illude?
— Non so che dire. In questo momento mi par di sognare di star qui, a discorrere insieme.
— E non vi dispiacerebbe di svegliarvi e di accorgervi che avete sognato?
— Da anni, non mi dispiace più nulla. Voi sapete quel che è avvenuto in casa nostra. Mi sembra ovvio, naturale che le disgrazie si seguano e si somiglino, anzi, che non si somiglino!
— Bel tempo e cattivo tempo non durano gran tempo! dice il proverbio.
— I proverbii dicono tante cose!
— Riflettete. Se noi ci fossimo incontrati di nuovo un anno fa, io non vi avrei parlato così; forse avrei evitato di rivolgervi la parola. Ero altro uomo un anno fa!... Ero un bruto! Lasciatemelo dire; lasciatemi arrossire davanti a voi! Oggi, tutto mi sembra congiurare perchè ogni cosa si muti per voi e per me. Non sapevo di trovarvi qui. Non credevo che avrei avuto il coraggio di dirvi, e con l’animo con cui ve l’ho detto: Ricordate?
— Mia sorella si volta spesso a guardarmi, meravigliata di vederci discorrere insieme. Quando mi domanderà: — Che cosa ti ha detto? — io non saprò....
— Rispondetele: — Mi ha detto se voglio fargli l’onore di essere la marchesa di Roccaverdina!
— No, marchese! Ormai!... E per tante ragioni. L’onore sarebbe mio; ma, ripensateci!... Ormai!
— E se insistessi? E se vi dicessi che voi commettereste una cattiva azione, rifiutando di cooperare alla rinnovazione della mia vita? Non chiedo una pronta risposta.... Se poi il cuore vi consigliasse di no; se il mio passato v’ispirasse repugnanza — può darsi — non sarebbe giusto che vi sacrificaste. Consultate vostra madre. Darete la risposta alla zia.
Egli si era chinato verso di lei per dirle sommessamente e rapidamente queste ultime parole, tanto era grande il suo stupore di aver potuto parlare a quella maniera, con delicatezza di voce e di forma che ignorava di possedere, e non meno grande il timore che non potesse andar oltre senza riprendere la sua abituale rozzezza.
La baronessa veniva a rioccupare il suo posto.
— Vi siete riconosciuti, finalmente!
— Un poco — rispose il marchese ridendo.
La signorina Mugnos lo supplicò, con gli occhi, di non tornare sul soggetto della loro conversazione. E, rassicurandola allo stesso modo, egli fu lieto di scorgere una notevole trasformazione in lei, quasi un’istantanea rifioritura di grazia e di giovinezza che le coloriva leggermente la bianca pelle della faccia, le ravvivava le labbra, le accendeva le pupille, e le metteva un dolce tremito nella voce, allorchè domandò alla sorella Cristina se non le paresse che la mamma poteva stare in pensiero, vedendole ritardare.
La giovine, accostatasi timidamente, rispose:
— La mamma sa che dopo la messa dovevamo venire qui.
— Tu non conosci mio nipote — le disse la baronessa.
— Era bambina allora — soggiunse il marchese.
— Di vista, sì — fece Cristina. — Me lo ha indicato Zòsima, dalla finestra che dà su lo stradone. Passa spesso, in carrozza.
— Com’è il mondo! — esclamò la baronessa. — Nello stesso paese, nello stesso quartiere — no, veramente voi siete del quartiere di San Paolo; non è in capo al mondo, infine! — e persone amiche non s’incontrano da anni, quasi vivessero separate da grandi distanze!
— Per noi — disse Cristina — il mondo è racchiuso tutto nelle quattro mura di casa nostra.
— Anche per me, figlia mia! Ma io sono vecchia e non me n’importa niente.
— Non ce n’importa niente neppure a noi, ronessa — rispose Zòsima. — Siamo abituate.... Ormai!
— Ah, tu con questo: Ormai!
— La zia mi ha tolto di bocca quel che stavo per dire. Perchè: — Ormai! Ormai! — Perchè?
— Perchè è così! — disse Zòsima tristamente.
Dai seggioloni dov’erano accovacciati, due canini ricominciarono a tossire con rauchi scoppi.
— Senti? — disse la baronessa al marchese. — Tossono da quattro giorni, poveretti! Non si muovono più dalla cuccia.
— Sono vecchi, zia.
— Gli altri due li tengo in camera mia; ho paura che si contaggino. Questi bevono appena un po’ di latte caldo. Se morissero, nepote mio, sarebbe malaugurio per me!
— Dicevate la stessa cosa anni fa, quando morirono prima Bella e poi Fifì.
— Senti? Senti? Mi strappano l’anima.
Zòsima lo guardò sorridendo benignamente del gesto della baronessa che aveva portato le mani alle orecchie per non sentire i rauchi scoppi di tosse.
Ed egli andò via con la soave impressione di quel sorriso che gli illuminò il cuore parecchi giorni.