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XIV.
La baronessa di Lagomorto, che da dieci anni usciva di casa soltanto per andare ad ascoltar una messa, le domeniche, nella vicina chiesetta delle Orfanelle, era venuta dal nipote per portargli senza indugio la risposta della signorina Mugnos, e anche per vedere i mutamenti da lui fatti nel vecchio palazzo dei Roccaverdina dov’ella era nata.
— Dovresti accendermi un bel torcetto!
— Anche venti, zia!
— Ma che hai operato qui? Non mi raccapezzo.
— Vita nuova, pelle nuova! — esclamò il marchese, dandole braccio per condurla attorno.
Mamma Grazia, che si era messa sùbito a piangere dalla consolazione di rivedere colà la baronessa, dopo tanti e tanti anni che non ci veniva più, si affacciava timidamente a questo o a quell’uscio, facendo strani gesti, cacciandosi indietro i cernecchi che gli cascavano davanti agli occhi.
— Siete contenta, mamma Grazia, ora che il marchese prende moglie?
— Ah, se fosse vero, eccellenza!
— Se non fosse vero non ve lo direi. Bisogna ripulirsi, mamma Grazia, per far piacere alla bella padrona che verrà qui.
— Mi ripulirò, per l’altro mondo! Oh, morrei contenta, se fosse vero!
Non osava di credere alla notizia. Come mai suo figlio non glien’aveva fatto neppure un accenno finora? Era l’ultima a saperlo! Tempo fa — rammentava — fin quella le aveva detto: — So che sposa! — E per ciò, a ogni risposta, mamma Grazia aggiungeva: — Se fosse vero! — quasi per rimproverare il marchese.
— È vero! È vero! — egli le confermò accorgendosi che la povera vecchia si era imbronciata. — Ma la certezza l’ho avuta or ora, dalla zia baronessa. Ecco perchè non te n’ho detto niente. Se poi non fosse accaduto....
— Hai ragione, figlio mio!
E si ritrasse dietro un uscio per nascondere la commozione.
— E il salone? — domandò la baronessa.
— È rimasto intatto.
— Con la sconcia donna nuda dipinta nel soffitto?
— L’Aurora, opera pregevole, zia, dello stesso pittore che ha fatto gli affreschi nella chiesa di Sant’Isidoro.
— Poteva coprire certe parti però!... No, non voglio rivederla — soggiunse la baronessa, mentre il marchese stendeva la mano al pomo dell’uscio.
Vita nuova, pelle nuova! Una riunione delle principali persone a cui era stato invitato personalmente dal Sindaco per provvedere alla gran miseria della bassa gente, aveva fornito il pretesto al marchese di andare in Casino, d’intrattenervisi a lungo, di tornarvi altre volte con lo stesso pretesto.
— C’è voluta la mal’annata per rivedervi qui!
— Tutto sta nel prender l’aire!
Non era però divertente la conversazione nel Casino. Non si sentiva ragionar d’altro che di fame, di miseria, d’intere famiglie di contadini emigrate nei paesi fortunati dove la terra aveva fruttato e c’era da trovar lavoro e pane; di gente che moriva di tifo per aver disseppellito e mangiato carne di animali morti dell’infezione maligna che distruggeva gli armenti, quasi la carestia non fosse stato sufficiente castigo di Dio!
Oh, questa volta era ben diverso dalle terribili cattive annate di cui parecchi avevano memoria! Nel ’46, mancava il grano; non se ne trovava neppure a pagarlo a peso d’oro! Il nuovo governo, sì, aveva fatto venire grano da ogni parte; ma i quattrini dov'erano? Dissanguati dalle tasse e dalla mal’annata dell’anno avanti, i proprietari non sapevano più a qual santo votarsi. Ogni lavoro era arrestato. Lo stesso marchese non osava di avventurarsi a intraprendere niente nelle campagne, con quella persistente siccità! Non era nato un fil di erba da tutta la semenza prodigata sperando che finalmente, dopo quasi un anno, il cielo si sarebbe sciolto in pioggia feconda!
Dietro la gran vetrata del Casino, larve di vecchi, di donne, di fanciulli si affacciavano, mute, senza gesti, con lo stupore dello sfinimento negli occhi, attendendo che il cameriere apportasse loro qualche soldo, o che venisse a cacciarle via perchè nessuno là dentro aveva più niente da dare.
E, poco dopo, ecco altre larve, mute, senza gesti, con lo stesso stupore di sfinimento negli occhi, che attendevano, che non mormoravano vedendosi scacciate, e riprendevano a trascinare di porta in porta i corpi ischeletriti, reggendosi a mala pena su le gambe, senza un fil di voce per invocare la carità.
Si vedevano oggi, domani, e poi certi visi non comparivano più. — È morto il tale, di fame! È morto il tal altro, di fame!
E davanti la porta del convento di Sant’Antonio, dove il Municipio distribuiva, a mezzogiorno, minestre di riso bollito nell’acqua, condite con un po’ di lardo, e grosse fette di pane nero, i carabinieri, la guardia forestale e gl'inservienti del municipio stentavano molto a trattenere la ressa! Nessuno aveva vergogna di accorrere là. — Anche il tale! — Anche il tal altro! — Li nominavano con triste maraviglia. Persone che mai si sarebbe sospettato potessero arrivare al punto di dover stendere la mano, e che senza quella misera minestra e quella fetta di pane nero, sarebbero morte forse anch’esse di fame!
La sera, non più rosario del Sagramento per invocare la pioggia. Don Silvio La Ciura aveva visto assottigliarsi a poco a poco la folla che soleva seguirlo. In che modo aggirarsi in processione per le vie e cantare il rosario a stomaco vuoto?
E il sant’omo, che aveva gran fede ed era ingenuo quanto un bambino, dicendo messa, ogni mattina picchiava con le nocche delle dita alla porticina dorata del tabernacolo, e con commovente semplicità, invocava:
— Gesù Salvatore!... Gesù Salvatore!... Ti sei dunque dimenticato di noi?
E, dopo messa, via, di casa in casa, a chiedere l’elemosina per gli affamati, riempiendosi le tasche coi tozzi di pane che gli davano, portandone in un fazzoletto, fin nella falda del mantello; e, due tozzi qua, tre tozzi là, uscio per uscio in quelle sudice catapecchie dove i malati di tifo guarivano per miracolo, senza assistenza di medici, senza medicine.... E avrebbero preferito di morire!
Sembrava una larva anche lui; e intanto saliva e scendeva scale, correva da un quartiere all’altro, con quei suoi brevi passi da perniciotto, rasentando il muro nei vicoli, quasi non volesse farsi scorgere; portando dappertutto, oltre il soccorso materiale, il conforto di una buona parola, di un sorriso, d’una benedizione.... E pane e pane e pane, che non si capiva d’onde potesse cavarlo; talchè la gente credeva che gli si moltiplicasse tra le mani, come una volta a Gesù Cristo.
La baronessa di Lagomorto gli aveva detto:
— Faccio fare, ogni tre giorni, una fornata di pagnotte da due soldi; pensate a distribuirle voi.
— Dio la rimeriti, buona signora!
— O perchè non andate pure da mio nipote?
— So che ha dato molto grano e molti quattrini al Municipio.
— Darà dei soldi anche a voi, non dubitate.
E si era risoluto a seguire il consiglio, quantunque si fosse già accorto che il marchese di Roccaverdina, da qualche tempo in qua, lo salutasse a denti stretti ogni volta che lo incontrava. Egli si sentiva trafiggere l’anima pensando a quel peccatore che non era più tornato a confessarsi! E ogni sera, nella nuda cameretta dove lo aveva visto inginocchiato ai suoi piedi, pregava intensamente perchè il Signore gli spietrasse il cuore e lo inducesse ad aver compassione dell’innocente che scontava la pena del delitto altrui.
Ma appunto quella mattina, nell’aiutarlo a indossare i paramenti sacri per la messa, don Giuseppe il sagrestano gli domandava:
— Avete sentito, don Silvio? Il marchese di Roccaverdina ha regalato un Crocifisso al convento di Sant’Antonio. I frati fanno una gran processione. Non lo sapevate?
Don Silvio, che non voleva distrarsi dal recitare i versetti rituali, indossato il camice, lo ammonì:
— Zitto!... Porgetemi il cingolo
E intanto ch’egli se lo legava ai fianchi, il sagrestano, giràtogli attorno per aggiustargli le pieghe, e dàtogli in mano la stola, riprendeva:
— Grand’offesa per la nostra parrocchia! Il canonico Cipolla è furibondo; e anche gli altri canonici. Non andremo, s’intende, alla processione del trasporto.... Il padre guardiano ha mandato l’invito. Aspetta, che vengo!
Don Silvio adattàtosi il manipolo al braccio destro, abbassava la testa perchè il sagrestano gli infilasse la pianeta:
— Non ve n’importa niente, a voi, di questa offesa alla parrocchia?
Preso di sul pancone il calice col corporale e il sovraccalice, don Silvio si era avviato per l’altare. Su la soglia della sacrestia il canonico Cipolla lo fermava.
— Siete avvertito: noi non interverremo. Ve l’ha detto don Giuseppe?
Ospite incomodo quel Crocifisso che, di tanto in tanto, pareva si svegliasse per turbare con la sua importuna visione la coscienza del marchese!
Egli non avrebbe dovuto badargli più, dopo che il cugino Pergola gli aveva sbarazzato il cervello di tutte le superstizioni dei preti. Intanto, che cosa poteva farci? la figura di quel Cristo agonizzante su la croce, abbandonato laggiù nello stanzone del mezzanino, con la testa, le mani e le ginocchia fuori dai brandelli del lenzuolo rôso dalle tignuole, come egli lo aveva inattesamente visto quel giorno.... che cosa poteva farci?... quella figura gli dava un senso di inquietudine, di malessere ogni volta che gli invadeva l’immaginazione.
E meno male se, col fantasma di essa, altri ed ugualmente tetri, non gli si fossero ripresentati davanti, altri che egli già credeva scacciati lontano e da parecchio tempo!
E così, ora ecco Rocco Criscione, a cavallo della mula, nell’oscurità, tra le siepi di fichi d’India di Margitello, che veniva avanti, canticchiando sotto voce — gli era rimasto nell’orecchio! — Quannu passu di ccà, passu cantannu — e non aveva avuto tempo di dire: Gesù! Maria!... con quella palla ben assestata che gli avea fracassato la testa! E il tonfo del corpo!... E lo scàlpito della mula che fuggiva spaventata!... E il gran silenzio nell’oscurità, terribile, seguito allo scoppio della fucilata!...
E così, ora ecco Neli Casaccio che dal gabbione delle Assise, alzando la mano destra e piangendo, gridava: — Sono innocente! Sono innocente! — E tanto forte, che il suo giuramento sembrava si trasformasse in urlo, in quegli urli del vento, la nottata della confessione, e ch’egli assumesse le sembianze di don Silvio, pallido, con la stola, e inesorabile: — Bisogna riparare il mal fatto! Ah, marchese! —
Nervi! Immaginazione esaltata!... Se lo ripeteva cento volte, n’era persuasissimo. Ma che cosa poteva farci?
Era andato a sorvegliare, con altri della Commissione municipale, la distribuzione delle minestre e del pane alla povera gente; e Padre Anastasio, guardiano del convento di Sant’Antonio, parlava di una gran processione di penitenza, a piedi scalzi, con corone di spine e disciplina per placare lo sdeguo divino. Dovevano intervenirvi persone di ogni ceto, sacerdoti, signori, maestranze, contadini, senza distinzione alcuna, come egli si era sognato che gli ordinasse Sant’Antonio, due notti di sèguito.
Il marchese tentennava il capo. Quel padre Anastasio, alto, nerboruto, col naso a tromba e gli occhi che gli scoppiavano fuor dell’orbita, non era tenuto per stinco di santo nei dintorni del convento. Caso mai, Sant’Antonio sarebbe andato proprio da lui per ordinargli la processione?
Ma gli altri della Commissione approvavano.
— E col simulacro della Regina degli Angioli — proponeva uno. — È miracoloso!
— Con la statua del Cristo alla colonna — suggeriva un altro. — È più miracolosa ancora! Si dice: — Ora per la pioggia, ora pel vento. Non si fa la festa del giovedì santo! — Ed è quella del Cristo alla Colonna.
— Ho un gran Crocifisso. Ve lo regalo per la vostra chiesa, padre Anastasio. E farete la processione trasportandolo da casa mia.
L’idea gli era balenata in mente tutt’a un tratto. Il marchese si stupiva di non averci pensato prima.
— Quando il Crocifisso non sarà più laggiù nel mezzanino, col lenzuolo roso dalle tignuole — egli rifletteva — i miei nervi rimarranno certamente tranquilli, e tutto il resto si cheterà anch’esso. Che diamine!
E sorrideva in faccia a padre Anastasio profondentesi in ringraziamenti con quel naso che pareva volesse squillare proprio come una tromba, con quegli occhi che, dalla gioia, si sgangheravano più dell’ordinario....
— Che fortuna pel convento! Un Crocifisso grande?
— Al naturale.
— Di carta pesta?
— Scolpito in legno duro e con una croce immensa. Non lo reggeranno due uomini. Figuratevi che un giorno....
Suo malgrado, senza poter ritenersi, il marchese si sentì spinto a raccontare quel che gli era accaduto quel giorno.
— Ha avuto paura?
— Un pochetto.
— Ah! Lo credo.... Una notte, anni fa, nel convento di Nissorìa...
E padre Anastasio rideva anticipatamente di quel che stava per dire: Che paura anche la sua! Nell’andare dalla cella in fondo al corridoio.... in un certo posto.... miseria umana!... si doveva passare davanti a un gran San Francesco, dipinto nella parete, con le braccia aperte e rapito in estasi dal suono del violino di un angelo a cavalcioni delle nuvole. Lo vedeva almeno venti volte al giorno, da sei mesi che si trovava in quel convento, passando e ripassando pel corridoio. Ma quella notte, al lume della lampadina recata in mano.... Come se quel San Francesco, - che alla dubbia luce sembrava vivo e parlante, con gli occhi travolti in su, - come se quel San Francesco gl’imponesse: — " Padre Anastasio, di qui non si passa!" — E non era passato, con tutta l’urgenza! Che cosa fosse allora accaduto, miseria umana!... Ora rideva, ma in quel momento!...
E la pancia di padre Anastasio sobbalzava sotto la tonaca; e gli occhi gli erano diventati lustri dal convulso provocato dalle grosse risate.