< Il Marchese di Roccaverdina
Questo testo è stato riletto e controllato.
Capitolo XXIV Capitolo XXVI

XXV.


Due mesi dopo, Zòsima Mugnos, diventata marchesa di Roccaverdina, era ancora quasi incredula della felicità raggiunta non tanto col trovarsi in mezzo alle ricchezze dalla pudica miseria della sua famiglia decaduta, quanto col vedere finalmente avverato quel che era stato per lei il lungo sogno della sua giovinezza. Segreto sogno, lusinga, ricordo piuttosto che lusinga, dopo che il marchese, giovanissimo — fàttole nascere in cuore un affetto con atti e parole che l’avevano tratta in inganno lasciandole supporre che egli non osasse di dirle apertamente quel che le pareva di indovinare — si era allontanato da lei, proprio quando avveniva la improvvisa rovina della sua famiglia, e più tardi aveva accettato in casa una donna che tutti credevano destinata ad occupare, un giorno o l’altro, il posto ch’ella s’era immaginato potesse essere suo.

Aveva pianto nella sua cameretta, si era chiusa nell’ombra discreta con nel cuore sempre vivissima l’immagine di colui che l’aveva fatto palpitare la prima volta; e si era votata a quel ricordo nell’isolamento, senza nessuna speranza, non osando neppure lamentarsi della sua cattiva sorte, sopportando con mirabile rassegnazione tutte le umiliazioni della miseria; consolata unicamente dal ricordo di quei lontani giorni, di quei mesi, di quei due anni in cui tanti piccoli fatti, tanti lievi indizi le avevano popolato di gentili chimere la mente, e rallegrato di un continuo sorriso la bella bocca e gli occhi azzurri.

Così era quasi sfiorita, pregando ogni sera per lui; grata di dovergli una consolazione ch’egli certamente ignorava; grata di potere, di quando in quando, pensare e fantasticare quel che sarebbe potuto avvenire e non era avvenuto e che ella credeva non sarebbe più avvenuto. Orgogliosa che mai un suo atto o una sua parola non avessero rivelato a qualcuno la sopravvivenza di un’illusione della sua giovinezza, ella era rimasta turbata il giorno in cui la baronessa di Lagomorto le aveva fatto capire fuggevolmente, con rimpianto, che anche lei si era illusa di vederla entrare in casa Roccaverdina per continuare la tradizione delle sante donne massaie e caritatevoli, delle quali il ricordo durava ancora.

Una santa la nonna, vecchietta grassa e piccola, che negli ultimi anni di sua vita andava a messa col bastone, quasi strascinando le gambe, e intonava il rosario dal banco di famiglia posto sotto il pulpito; banco nel quale non doveva mai sedere nessuno estraneo, e per ciò fatto col piano che si rilevava e veniva chiuso a chiave terminata la messa. Ogni venerdì mattina la buona vecchietta attendeva nel portone i suoi poveri, seduta su un seggiolone coperto di cuoio, con ai lati due cofani ricolmi di grosse fette di pane infornato a posta, che distribuiva ella stessa, facendo sfilare i poveri a uno a uno, dicendo una buona parola a questo, dando doppia razione a quelli che sapeva carichi di famiglia, domandando notizie di qualcuno che non si presentava, se mai fosse malato.

Santa la mamma, nonna del marchese Antonio. Ne aveva visto di tutti i colori con le scapataggini del marito. Era padre della baronessa, ma elle soleva dire: — La verità innanzi tutto! — E poi, chi non sapeva che la povera sua mamma era stata una martire? Tra bracchi, levrieri, segugi, cani di ogni razza e campai armati fino ai denti e con certe facce da metter paura — arrivavano, sparivano, ricercati dai gendarmi, e riapparivano poco dopo, senza barba, con altri nomi, sotto altre spoglie, e dovevano accompagnare il padrone dovunque, come guardie del corpo — la santa donna tremava davanti al marito; e doveva fare la carità di nascosto perchè al marchese non piaceva di vedere la casa assediata dalla poveraglia, come avveniva quando la nonna era ancora in vita e non le si poteva impedire di fare a modo suo.

Santa e martire pure essa la cognata, col marito che pensava soltanto ai levrieri da far correre, vestito come un burattino, all’inglese, e che sciupava quattrini per questa sua smania e per le donne di teatro a Palermo, lasciando rodersi di gelosia e di umiliazione la bella e buona creatura che Dio poi aveva inchiodata paralitica nel letto dove era morta di sfinimento.

Oh! Quando la baronessa cominciava a parlare delle persone di casa sua, non la finiva più; ed era così schietta e sincera da far sospettare che sentisse una specie di compiacimento nel mostrare che, infine, i Roccaverdina appartenevano quasi a una razza diversa dall’ordinaria, non importava se nelle cose buone o nelle cattive. Le donne però vi erano state tutte sante; e forse ella attribuiva un po’ di santità anche a sè stessa, pensando ai guai che le aveva fatto patire il barone suo marito.

Zòsima stava ad ascoltarla con vivissimo piacere ogni volta che la baronessa ragionava della gente di casa Roccaverdina. E quella sera che nell’accomiatarsi si sentì mormorare nell’orecchio: — Ah, figlia mia, forse Dio esaudirà le mie preghiere! — e l’accento e l’espressione degli occhi le fecero intendere di che cosa si trattasse, ebbe una vampa alla faccia e non potè neppure rispondere come voleva: — Perchè mi dite così? — vergognandosi di mostrare che aveva sùbito capito.

Dopo che il marchese aveva fatto chiedere la sua mano, e durante i lunghi mesi scorsi tra la richiesta e il compimento del matrimonio, quanta ansietà, quanti silenziosi pianti nella sua cameretta, pensando a quell’altra che forse aveva lasciato qualche profonda impronta nel cuore del marchese, e dubitando di poter riuscire a scancellarne ogni traccia!

Aveva manifestato i suoi timori prima alla mamma per consultarla intorno alla risposta da dare; poi alla baronessa, per scusare il ritardo di quella risposta, che le riusciva strano e inesplicabile.

La signora Mugnos l’aveva sgridata:

— Come? Ti metti a pari di una donnaccia? Ti credi così poca cosa, da non poter fargliela dimenticare? Ma quelle disgraziate, figlia mia, non lasciano segno alcuno. Infatti, egli le ha dato marito anche prima di chiedere te, e forse pensando a te. Che temi dunque?

E la baronessa:

— Hai avuto torto, figliuola mia! Posso assicurarti che colei gli è andata via tutta intera dal cuore. Mio nepote non vuol sentirne nemmeno ragionare; se qualcuno gliela nomina, gli tronca le parole su le labbra

Eppure, che farci? la marchesa di Roccaverdina, dopo due mesi, quando ormai non poteva ragionevolmente più dubitare di appartenere per sempre a colui che era stato il sogno della sua giovinezza, e se lo vedeva attorno premuroso, affettuoso, con evidenti prove di spontanea sottomissione, sentiva rinascere dentro di sè i sordi assalti di gelosia che le avevano tormentata segretamente tanti anni; quasi appunto quelle affettuose premure, quelle prove di sottomissione fossero da parte del marchese, più che altro, sforzi di volontà coi quali egli cercasse di ascondergli il vero stato d’animo di lui.

Mamma Grazia, vedendola arrivare dal Municipio, per ricevere la benedizione nuziale nella cappella di casa, dove dopo la morte della marchesa madre non era più stata celebrata nessuna funzione religiosa, si era buttata ginocchioni, piangendo di contentezza, e aveva baciato il pavimento per ringraziare Iddio della consolazione concèssale prima di chiudere gli occhi, esclamando:

— Ora questa casa è ribenedetta! Ora v’è entrata la grazia del Signore!

E nei giorni appresso la povera vecchia un po’ istolidita aveva ripetuto tante volte quelle esclamazioni, da spingere la marchesa a domandarle:

— Perchè? Che intendere di dire?

Mamma Grazia si era sfogata, raccontando tutto quel che aveva dovuto soffrire in silenzio per non dar dispiacere al figlio marchese, allorchè era stata costretta a servire quell’intrusa venuta a far da padrona là dove non era degna neppure di spazzare le stanze!

— Non posso però dirne male — aveva soggiunto; — mi ha sempre rispettata. E Dio mi castigherebbe, se affermassi che era cattiva, interessata, vanitosa; no, no!... Ma il suo posto non era qui. E glielo dicevo: — Come hai fatto? Lo hai stregato? — Ed ora ho qui la mia bella padroncina! Ho la mia bella figlia, che mi permette di chiamarla così perchè è sposa di colui che è quasi figlio per me.... Ora questa casa è ribenedetta. Il peccato mortale è andato via! Ora vi è entrata davvero la grazia del Signore!

La signora Mugnos, venuta ad abitare dalla marchesa nelle prime settimane, aveva voluto tornare assieme con la figlia minore nella casa dov’era nata, dove era stata parecchi anni moglie e madre felice, e dove poi aveva assistito, col cuore straziato e con gli occhi in pianto, alla rovina venuta sùbito dietro alla improvvisa morte del marito. Due, tre volte la settimana, ella e Cristina pranzavano in casa Roccaverdina e vi restavano l’intera giornata le domeniche; ma questo non impediva che la testa della marchesa non fosse invasa lentamente dall’ossessione dell’altra che si era aggirata, dieci anni, per quelle stanze, e che sembrava vi avesse lasciato l’acuto odore di donna peccaminosa, così repugnante per lei casta di corpo e di pensieri.

Il marchese aveva già ripreso la sua vita di affaccendamento che lo faceva partire quasi ogni giorno per Margitello dove la vendemmia ferveva; e il raccolto delle ulive era vicino. Due volte egli aveva condotto la marchesa laggiù, altiero di mostrarle quelle macchine che luccicavano quasi fossero state di argento, e che tra poco avrebbero avuto un bel da fare; altiero di mostrarle la trebbiatrice tolta in prestito dal Comizio Agrario provinciale, che ingoiava i covoni con la larga bocca, immettendo dagli sbocchi posteriori il grano crivellato nei sacchi pronti a riceverlo. Ella aveva fatto sembiante d’interessarsi della trebbiatrice che una lunga correggia metteva in comunicazione col motore fumigante là accanto; di interessarsi delle macchine che da lì a non molto sarebbero state rosseggianti di mosto, unte di olio, sudice di morga, e più belle che non sembrassero ora con quell’aria di ordigni di lusso posti là, apparentemente, per delizia degli occhi.

Ma intanto che il marchese le faceva visitare ogni cosa, dando minuziose spiegazioni, esaltando la sua iniziativa, la sua aspirazione e descrivendo l’avvenire della Società Agricola, quasi non si potesse menomamente dubitare che esso dovesse essere quale appariva alla sua immaginazione o quale egli lo desiderava, Zòsima si sentiva sopraffare da un senso di delusione, da un’inattesa tristezza, cominciando ad avvedersi che ella era entrata nella vita di lui con la stessa importanza delle màcine, della pigiatrice, degli strettoi e di tutti gli altri arnesi che lo tenevano occupato, senza che gli facesse vibrare nel cuore qualche cosa di più intimo, di più dolce di cui ella stessa non aveva chiara e precisa idea, ma di cui le era doloroso notare la evidente mancanza.

Temeva però di ingannarsi; temeva specialmente di sembrare o di essere incontentabile e quasi ingrata, chiedendo alla sua sorte un compenso più largo di quel che era stato ora concesso alle sue lunghe sofferenze, alla sua costanza, a quella segreta dedizione con cui ella si era votata a lui quando egli ne aveva perduto ogni ricordo, tutto preso dall’altra, più giovane, più fresca di lei, e che certamente doveva essergli parsa anche molto più bella.

E perciò la gelosia di quel passato tornava a rigermogliarle nel cuore come una volta. Allora si era rassegnata; oggi ella sentiva che non avrebbe potuto rassegnarsi più. Che confronti faceva dunque il marchese? Che cosa occorreva per impedirgli che li facesse?

La signora Mugnos, la baronessa, Cristina, tutti coloro che per una ragione o per un’altra l’avvicinavano, le facevano capire chiaramente che la credevano felice. E quando, accorgendosi della lieve ombra di tristezza che le velava gli occhi o traspariva da un caratteristico atteggiarsi delle labbra, o da una cert’aria stanca della persona, le domandavano se per caso non si sentisse leggermente indisposta, sorridevano credendo che si trattasse di indizi da cui potevano trarsi lieti auspicii.

Ella negava:

— No, no; sto bene, molto bene anzi. Che mi manca?

— Che può mancarti, figlia mia? — le diceva la baronessa. — Ma non c’è da arrossire, se hai già la fortuna....

— No, zia!... Ve l’assicuro!

— Che ti senti dunque? Sei palliduccia....

— Niente mi sento, zia. Sono sempre stata un po’ pallida.

— Un mese fa eri diventata rosea; sembravi un’altra. Ora tua madre n’è un po’ impensierita. Dovresti smettere questi abiti troppo scuri. Ricòrdati che sei sposa, che sei la marchesa di Roccaverdina....

Zòsima aveva voluto conservare le modeste apparenze di quand’era semplicemente la signorina Mugnos, anche per un riguardo alla madre e alla sorella. Il marchese, nel contratto matrimoniale, le aveva costituito in dote la vasta tenuta di Poggiogrande, autorizzandola a voce, anzi volendo che ella disponesse della rendita in favore della madre e della sorella in maniera da non offendere il loro legittimo orgoglio.

La signora Mugnos aveva risposto alla figlia:

— Siamo due mosche; quel che ci rimane ci basta.

Ed era occorsa una grande insistenza da parte della marchesa per farle accettare tanto grano e vino e legna da impedire che essa e Cristina dovessero continuare a lavorare, come due misere donne, mentre ella viveva nella ricchezza. Parecchi oggetti superflui di casa Roccaverdina erano andati a rendere meno squallide le stanze della famiglia Mugnos.

— Oh mamma! Potrei sentirmi felice pensando al vostro stato e a quello di Cristina? Fatelo per me, giacchè non vi è piaciuto di venir a convivere in casa nostra, come il marchese ed io avevamo desiderato.

Ma quando il suo cuore avea cominciato a turbarsi con l’ossessione dell’immagine di quell’altra che aveva desinato faccia a faccia col marchese, nella stessa sala da pranzo e forse seduta nello stesso posto dove ora sedeva lei; che aveva dormito, se non nello stesso letto e nella stessa camera, certamente sotto lo stesso tetto, e aveva toccato con le sue mani la stessa biancheria, e parecchi oggetti che le stavano sotto gli occhi e che non potevano non ridestare il fantasma di colei nella immaginazione del marchese, la gioia di far partecipare la mamma e la sorella alla mutata condizione della sua esistenza non era più bastata a compensarla dell’angoscia prodotta dal perfido pensiero che le si insinuava a ogni istante nel cervello, appena rimaneva sola, e specialmente ogni volta che mamma Grazia le faceva sentire il suo ritornello di vecchia un po’ istupidita:

— Ora questa casa è ribenedetta! Ora v’è entrata davvero la grazia del Signore!

E fu una gran trafittura per lei il giorno che il marchese, udìtole ripetere quel ritornello, sgridò aspramente mamma Grazia:

— Non hai altro da dire? Sta’ zitta! Mi hai già rotto le tasche con la tua ribenedizione!

— Poveretta! — s’interpose la marchesa.

E avrebbe voluto anche domandargli:

— Perchè vi dispiace?

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.