< Il Marchese di Roccaverdina
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Capitolo XXV Capitolo XXVII

XXVI.


Dal canto suo, nelle prime settimane dopo il matrimonio, il marchese aveva avuto la dolcissima sensazione di un compiuto rinnovellamento della sua vita, vedendo animate da tre figure femminili quelle stanze dove egli, da più di un anno, non vedeva altra donna all’infuori della vecchia nutrice che andava attorno curva, mal pettinata, strascicando le ciabatte, larva di donna più che donna.

La signora Mugnos e Cristina avevano aiutato la marchesa nel dare ai mobili, agli oggetti, alle disposizioni del servizio quell’impronta che soltanto l’istinto, l’occhio e la mano della donna sanno imprimervi; e al marchese sembrava che ora tutta la sua tetra casa fosse illuminata da altra luce, sorridesse e quasi cantasse, tanto era insolito quel risonar di voci femminili da stanza a stanza, a cui lo scoppio argentino di certe risate di Cristina dava una gaiezza di freschi gorgheggi che ringiovaniva ogni cosa.

Quando però la signora Mugnos e Cristina erano andate via, il marchese aveva avuta la sgradita sorpresa di riconoscere che quella sensazione di rinnovellamento proveniva principalmente dalle impressioni puramente materiali della presenza di persone quasi estranee a lui, e che niente o poco assai era mutato dentro di lui.

Nell’intimità dei primi colloqui, Zòsima aveva commesso l’imprudenza di parlargli del passato, di quegli anni di tristezza trascorsi nella sua cameretta, senza il minimo luccicore d’una speranza lontana, delle trepidanze e degli scoraggiamenti che l’avevano fatta esitare ad accorrere al richiamo di felicità quando egli aveva chiesto la mano di lei.

— Saprò farvi dimenticare tutto?

— Ho già dimenticato, poichè voi siete qui.

— Vorrei darvi ogni felicità.... Mi sentivo più sicura, più coraggiosa allora, quando attendevo di giorno in giorno, di momento in momento, una parola che non vi usciva mai da le labbra, e che pure mi sembrava di leggervi chiaramente negli occhi.

— Non v’ingannate. Ero timido; e poi, allora vivevano mio padre e mia madre; mi sembrava che io non avessi il diritto di manifestare un desiderio, di prendere una risoluzione. Mi avevano educato a una sottomissione assoluta. Dopo, quando acquistai piena libertà.... di fare a piacer mio, tante e tante cose erano mutate. Non vi vedevo più da un pezzo. Le nostre famiglie avevano cessato ogni relazione.... La zia però dice bene: Matrimoni e vescovati dal cielo son destinati. È stato proprio così. Non siete contenta che sia stato così?

Oh, se era contenta!

Egli però non poteva far a meno di rammentare, di paragonare; e Zòsima gli appariva troppo riserbata, troppo fredda in confronto dell’altra a cui involontariamente correva il pensiero. Se ne adontava quasi commettesse in quel momento un sacrilegio, ma non poteva distrarsi, non poteva scacciar via il fantasma che gli si ripresentava con tanti particolari da cui a poco a poco gli venivano ridestati nell’animo altri ricordi che egli aveva creduto dovessero essere annientati dal solo fatto che Zòsima era sua legittima moglie.

E quando la marchesa gli ripeteva, affermativamente, con gentile carezza della voce: — Saprò farvi dimenticare tutto! — egli rimaneva male, si sentiva rimescolare, cercando di intendere che mai ella volesse significare con la parola tutto.

Pur troppo non riusciva a dimenticare! Tornava anzi a sentirsi pesare addosso quell’oscura fatalità, quella continua, vaga minaccia di parecchi mesi addietro; e provava rimorso d’aver messo anche lei nella circostanza di partecipare alle conseguenze di quella fatalità, agli effetti di quella minaccia, legandola inconsideratamente alla sua vita.

Così tra la marchesa e lui, sin dalle prime settimane della loro vita in comune, si era interposto qualche cosa, che a lei pareva freddezza e a lui istintiva repulsione; a lei naturale rifiorire di sensazioni e di sentimenti che lo inducevano a confronti nei quali ella immaginava di doversi trovare inferiore a quell’altra; a lui, se non rancore, dolente rimprovero di scoprirsi immeritatamente ingannata.

Nessuno dei due osava affrontare una spiegazione; temevano di far peggio, di apprendere cose che avrebbero voluto ignorare e delle quali sarebbe stata peggiore la certezza che il sospetto.

Ella cercava di prevenirne ogni desiderio, fargli scorgere che se nella di lui vita era avvenuto un gran mutamento, era stato in meglio e non in peggio. Egli tentava di mostrarle in ogni occasione un’assoluta fiducia nella bontà e nell’affetto di lei; e metteva in ciò una specie di ostentazione, di cui la marchesa si accorgeva e che non le sembrava buon segno.

Timidamente un giorno ella gli aveva detto:

— La povera mamma Grazia si stanca sùbito; non può badare a tutto. Io non vorrei darle il dolore di veder in casa nostra un’altra persona di servizio; l’aiuto dove e come posso. Ma non solamente le mancano le forze, perde ogni giorno più la memoria.

— Siete voi la padrona, marchesa. Fate come vi pare, non avete bisogno di consultarmi; tutto quel che voi disponete e ordinate, io lo approvo anticipatamente. Mostratemi col fatto di sentirvi qui marchesa di Roccaverdina per davvero.

— No — ella rispose. — Dovreste prima parlargliene voi. Merita questo riguardo. Non vorrei che ella vedesse in me una nemica. Le donne come lei sono sospettose. Vi ha chiamato sempre con l’affettuoso nome di figlio. Vive qui da tanti anni, quasi da parente. Ed è così buona, così affezionata!

In quel punto mamma Grazia si era affacciata all’uscio. Da qualche tempo in qua commetteva stranezze. Accorreva immaginandosi di essere stata chiamata, e spesso, pochi minuti dopo, tornava a presentarsi per lo stesso motivo.

— Hai sentito, mamma Grazia, quel che dice la marchesa?

— No, figlio mio.

— Vuol mettere una serva a tua disposizione, per aiutarti nelle faccende di casa. Ti strapazzi troppo, le sembra.

— Non sono una signora io.

— Sei grandetta; le ossa ti pesano. Eh?

— Finchè mi reggo in piedi, figli miei....

— Ti tocca il ben servito. Mi farai tante e tante calze; te ne starai seduta nella tua cameretta, o al sole in un balcone, quando è bel tempo.

— Vi dispiace, mamma Grazia? — soggiunse la marchesa.

— Una serva? Per me?... Vuol dire che non sono più buona a niente, figli miei!... Avete ragione. Non son più buona a niente. La testa non mi regge....

— C’è bisogno di piangere? — la rimproverò il marchese.

— Avrei voluto servirvi sempre io....

— E ci servirai sempre tu; l’altra ti aiuterà. La marchesa anzi vorrà essere servita soltanto da te. Intanto quella farà le faccende più grossolane.

Mamma Grazia si asciugava le lagrime col grembiale, ripetendo:

— Lo so; non sono più buona a niente!

— Chi vi dice questo, mamma Grazia? Se vi dispiace, lasciamo andare; non ne parliamo più....

— Hai ragione, figlia mia! Non sono più buona a niente.

— Zitta! Così mi farai tante belle paia di calze! — le aveva ripetuto il marchese per consolarla.

Non aveva egli detto: — Tutto quel che voi disponete e ordinate io lo approvo anticipatamente? — E la marchesa avea creduto di potersi servire di quest’ampia autorizzazione compiendo un’opera di carità.

Una settimana dopo, era tornata da lei la povera vedova di Neli Casaccio a implorare di nuovo che prendessero il maggiore dei suoi figliuoli a servizio.

— Eccolo: ho voluto condurlo con me perchè voscenza e il marchese si persuadano che è forte e svelto, quantunque abbia appena dieci anni. Ne facciano quel che vogliono; in città, in campagna, purchè io sappia che non gli manca un boccone di pane. Non so più dove dare la testa. Non mi resta che andare attorno a chiedere l’elemosina per me e pei miei poveri figliuolini!... Ma il Signore dovrà farmi morire avanti che io arrivi a quest’estremo, e portarseli tutti in paradiso prima di me.

La marchesa non avea potuto risponderle in modo evasivo come l’altra volta; e alla vista del bambino scalzo, coperto di stracci, pallido e macilento, ma che dimostrava nella faccia e specialmente negli occhi intelligenza precoce, si era sentita commuovere.

— Vuoi restare qua? — gli domandò.

— Eccellenza, sì!

— O vuoi andare in campagna?

— Eccellenza, sì!

La marchesa sorrise. La povera mamma ravviava con le dita i capelli arruffati del bambino, sorridendo anch’essa, e le ciglia le palpitavano lasciandole cascare qualche lagrima su le gote scarnite. Da qualche tempo in qua il marchese non si era più ricordato di lei; mamma Grazia non era più ricomparsa a portarle quel piccolo soccorso che aveva tenuto in vita mamma e figliuoli durante i terribili giorni della mal’annata. Ella, povera donna, non se ne lagnava. Si era ingegnata, come tanti altri, andando a raccogliere cicoria, amarella, tutte le erbe mangiabili che la pioggia aveva fatto ripullulare per le campagne, nutrendo sè e i bambini con esse appena condite con un po’ di sale e con qualche stilla di olio, spesso senza neppur questo; benedicendo la divina Provvidenza che con tal mezzo aveva impedito che tanta misera gente perisse di fame.

— Ora m’industrio alla meglio — soggiungeva la vedova. — Cucio, filo. Andrò anche a raccogliere ulive, raccomandando i bambini alla carità di una vicina. Ma siamo cinque bocche, eccellenza!

— Prendo il ragazzo — risolse la marchesa tutto a un tratto. — Bisogna rivestirlo, provvederlo di scarpe. Pel vestito, comprate la roba e portatela da mastro Biagio, il sarto... Lo conoscete? Le scarpe bisognerà ordinarle a posta, credo. Vi do il denaro occorrente per tutto. Quel che rimarrà lo terrete per voi.

E le lagrime della povera donna le avevano bagnato la mano, voluta baciarle per forza.

Quella sera, il marchese, tornato tardi da Margitello, si era messo a tavola di buon umore.

La marchesa, seduta di faccia a lui, attendeva che egli finisse di parlare delle meraviglie delle pigiatrici e degli strettoi delle uve, che agivano con la precisione di un orologio.

— Se penso — egli continuava — che in questo vino qui hanno sguazzato i piedacci di un pestatore, mi vien nausea di berlo! Ai tempi di Noè non si faceva altrimenti! Un mascalzone grosso e tarchiato va su e giù pel palmento affondando nell’uva ammonticchiata le pelose gambacce fino alla caviglia, reggendosi a un bastone per non scivolare, spiaccicando i chicchi coi piedi mal ripuliti.... E questa incredibile porcheria dovrebbe continuare ancora tra noi!...

— Non mi sgriderete — lo interruppe finalmente la marchesa — se vi dirò che sono contenta anch’io della mia giornata. Ho fatto un’opera di carità.... Ho preso un servitorino....

— Come mai?

— Mi sono lasciata intenerire.... Un bambino di dieci anni.... Povera creatura!... Quell’orfanello.... ricordate? di cui vi parlai tempo fa.... figlio del disgraziato Neli Casaccio.... Ho fatto male?

Ella si era arrestata un istante, meravigliata di vederlo rannuvolare in viso e di vedergli abbassare gli occhi quasi volesse evitare di guardarla o sfuggire di essere osservato; poi aveva ripetuto la domanda:

— Ho fatto male?

— No. Certamente — proseguì il marchese con voce turbata — non potrà riuscirmi piacevole l’avere sempre dinanzi chi mi ricorderà avvenimenti che mi hanno contristato assai....

— Posso riparare, se ho sbagliato.

— La marchesa di Roccaverdina, quando ha dato la sua parola, deve mantenerla a ogni costo.

— Ma, infine, che tristi cose può rammentarvi quel ragazzetto? Se suo padre è morto in carcere, non ci ha colpa lui. Il male, se mai, l’ha fatto quello; dico così perchè ha ammazzato, per gelosia. Non era un cattivo soggetto, non rubava; campava facendo il cacciatore. Tutti lo proclamano anzi un brav’uomo. Voleva troppo bene a sua moglie; la gelosia lo ha perduto. In certi momenti, quando la passione ci offusca il cervello, noi non sappiamo più quel che facciamo.... Io lo avrei assolto....

— E.... l’ucciso? — disse il marchese....

Ma sùbito, quasi questa domanda gli fosse sfuggita suo malgrado, si affrettò a soggiungere:

— Che bei discorsi a tavola!...

— Io non credevo di vedervi accigliare per un mio atto di carità.... — rispose Zòsima dolcemente. — Eppure la povera vedova non si stanca di benedirvi, gratissima di tutto quel che voi avete fatto per essa e pei suoi bambini, durante la mal’annata. Volevate essere solo nel beneficarla? Ah, da ora in poi le buone opere dobbiamo farle insieme!

Sorrideva, tentando di scancellare la cattiva impressione da lei involontariamente prodotta; e si meravigliava che restasse silenzioso, e non riprendesse a mangiare.

— Non avrei mai creduto di farvi tanto dispiacere! — esclamò.

— È una mia ubbia, scusate — egli rispose. — Forse m’inganno.... E poi.... Mi abituerò a vedere il ragazzo.... Parliamo d’altro.

Prese dalla fruttiera un bel grappolo di uva e lo porse in un piatto alla marchesa, dicendole:

— È cosa vostra, di Poggiogrande.

Vedendo che ella, assaggiatone soltanto pochi chicchi, riprendeva a picchiare distrattamente su la tavola con la punta della forchetta, il marchese, un po’ impacciato, le domandò:

— Non vi piace?

— È eccellente.... L’ucciso avete detto?...

Il marchese la guardò negli occhi, stupito di sentirle riprendere il discorso di prima.

— L’ucciso, capisco, era persona di casa vostra — ella continuò. — Lo chiamavano Rocco del marchese! Gli volevate bene perchè abile, fedele; non avete ancora trovato chi possa sostituirlo.... Ma.... giacchè, per caso, siamo venuti a parlarne, voglio dirvi schiettamente la mia impressione.

— Dite.

— Se fosse vivo, quell’uomo mi farebbe ribrezzo.

— Ribrezzo?

— Sì. Uno che può sposare l’amante del padrone.... per interesse, non per altro.... Oh! La sua condotta lo prova. Se l’avesse sposata per passione, io ora lo compatirei.... Ma non l’amava, non si curava nemmeno di salvare le apparenze.... Insidiava le mogli degli altri. Voialtri uomini però giudicate a modo vostro.... La stessa sua moglie doveva forse disprezzarlo.... Vedete? In questo momento vi ricordo persone e fatti che vorrei dimenticati da voi; che voi mi avete detto più volte di ricordare appena, come fantasmi di un sogno lontano....

— Non mi avete creduto?

— Se non vi avessi creduto, non ve ne parlerei; quantunque di tanto in tanto.... Ecco; ve ne parlo per questo. Avrei dovuto avere la franchezza, il coraggio di domandarvi.... E, invece, faccio come coloro che intraprendono un gran giro per arrivare a un punto dove temono di trovare una trista notizia, quasi il ritardare per via fosse un sollievo anticipato....

— Che avete, Zòsima? — disse il marchese, levandosi da sedere, e avvicinandosi a lei premurosamente. — Che vi hanno detto?... Che sospettate? Quella stupida di mamma Grazia, forse....

— No, poveretta!... Ho il cuore gonfio. Sappiatelo, Antonio. Non mi sento.... amata da voi!

E alcuni singhiozzi soffocarono queste ultime parole.

— Perchè? Perchè? — balbettò il marchese.

— Dovreste dirmelo voi perchè!

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