< Il Marchese di Roccaverdina
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Capitolo XXIX Capitolo XXXI

XXX.


Infatti non gliene aveva riparlato più; ma tutti e due capivano che ognuno di essi pensava continuamente a quel silenzio impostosi e ne soffriva in diversa maniera. Egli, stizzito che la marchesa col rassegnato contegno, col muto dolore gli rammentasse che attendeva una risposta, una rivelazione, o un atto, quell’atto richiestogli con supplichevoli parole, come prova di amore; ella, offesa dell’inesplicabile rifiuto, e dei modi chiusi e bruschi con cui si vedeva trattata, e che la sua vivace fantasia contribuiva a ingrandire e a renderle penosissimi.

Durante quei tre ultimi mesi, la povera mamma Grazia se n’era andata all’altro mondo, senza neppure accorgersene, restando immobile con la calza in mano, su la seggiola dov’era seduta nel balcone per godersi il sole di febbraio; e la baronessa di Lagomorto l’aveva seguita venti giorni dopo, estinguendo tranquillamente sotto il baldacchino bianco del suo letto, coi canini là accucciati che più non valevano a tenerle ben riscaldati i piedi.

— Li raccomando a te — ella aveva detto alla marchesa. — Come figliuoli!

E aveva soggiunto:

— Muoio contenta.... Non mi avete dato la consolazione di sapere almeno che un marchesino è per via.... Non importa; verrà. Lo solleciterò io, di lassù, con le mie preghiere.

— Ma che cosa dite, zia!...

— Oh! Non credere che io non capisca che questa volta.... è finita! — continuò la baronessa. — Che ci faccio più in questo mondo?... Tu non mi dimenticherai... Ho contribuito un po’ alla tua felicità... Sei felice, è vero?

— Sì, zia!

— Come si può essere felici in questa valle di lagrime.... Valle di lagrime dice la Salveregina....

È la morte....

non ricordo più la canzonetta che comincia così e finisce:

Un rimedio a tutti i mali
Per quei miseri mortali
Che son stanchi di soffrir!

Me la facevano recitare quando ero bambina.... La ripeteva spesso la mamma...

Con straordinaria lucidità di mente, la baronessa aveva provveduto in quegli ultimi due giorni a modificare il suo testamento.

— Ero in collera con mio fratello e con mia nepote allora.... Non voglio che maledicano la mia memoria. Tu sei ricco a bastanza — disse al marchese. — Tindaro ha più bisogno di te.... E Cecilia ha due figli....

Ed era morta due giorni dopo balbettando la canzonetta del Metastasio, stringendo la mano di Zòsima, cercando con gli occhi i canini accucciati dappiè sul letto, e che poterono essere allontanati a stento. Minacciavano di avventarsi e mordere chi si accostava alla loro padrona, stesa rigida sotto le coltri, col capo abbandonato sui guanciali, e tra i capelli, sotto la cuffia, i diavolini voluti farsi fare la sera avanti perchè da anni ed anni ogni sera aveva praticato così.

La marchesa pensava ancora dopo un mese alle parole della baronessa: — Sei felice, è vero? — e alla sua risposta: — Sì, zia! Ora la baronessa doveva vedere di lassù che ella le aveva mentito per non turbarle quegli ultimi giorni di vita. Non si era mai sfogata con lei, come con la mamma e la sorella; la baronessa non avrebbe avuto la prudenza di confortarla e di tacere col nepote; e Zòsima non voleva che tra il marchese e lei vi fossero intermediari; preferiva soffrire.

Poi era stata distratta dalle cure di scartare, di mettere a posto i mobili, i quadri, gli oggetti diversi che il marchese aveva fatto trasportare in casa dal palazzotto della baronessa lasciato in eredità alla nepote maritata col cavalier Pergola, a cui premeva di uscir presto dal vicoletto dove ora gli pareva di sentirsi mancar l’aria e di non avere a bastanza luce.

La marchesa aveva riposto assieme con quelle di famiglia le gioie antiche, di molto valore, destinate a lei dalla zia. E un giorno che ella ammirava, tra gli altri oggetti ereditati, due vestiti di broccato laminati in oro, della prima metà del settecento, conservati perfettamente con tutti gli accessori e le scarpine - la baronessa li mostrava raramente tanto n’era gelosa - si era sentita fin prendere dalla curiosità di indossarne uno che, a occhio, sembrava tagliato e cucito proprio per lei.

Il marchese, tornato inattesamente da Margitello, l’aveva sorpresa mezza vestita, e l’aveva, con insolita compiacenza, aiutata nel travestimento.

Quel cantusciu si adattava perfettamente alla sua persona. Ma ella, appena terminata di abbigliarsi, e guardatasi nello specchio, si era vergognata della sua curiosità, quasi si fosse mascherata fuori stagione.

— Vi sta benissimo; sembrate un’altra persona — le disse il marchese. — Il marchese grande raccontava che, ogni volta che la marchesa bisnonna indossava questo vestito, egli soleva ripeterle: “Marchesa, approfittate della circostanza; in questo momento non saprei negarvi niente!„ Ma la marchesa — egli soggiungeva — non ne approfittò mai.

— Da donna prudente — rispose Zòsima.

Il marchese fece una mossa interrogativa.

— Perchè una signora — ella spiegò — non deve chiedere, ma attendere che il suo desiderio sia indovinato.

Per un istante si era illusa intorno alla intenzione del marchese. E vedendolo pensieroso, un po’ accigliato, aveva aspettato che le dicesse: — Indovino il vostro desiderio. Sarà fatto come voi volete. — Invece egli cambiò discorso.

— Verrete domani a Margitello? Faremo l’assaggio dei vini... È la prima festa della Società Agricola.

— Grazie — ella rispose freddamente.

E la mattina dopo finse di dormire per evitare che il marchese ripetesse la proposta sul punto di andar via.

Egli si era aggirato un po’ per la camera, esitante se dovesse svegliarla o no; si era fermato a guardarla, e la marchesa che teneva gli occhi socchiusi fu maravigliata di vedergli fare un gesto, quasi volesse scacciare con le mani qualche tristo pensiero che lo tormentava, tanto dolorosa era stata l’espressione del suo viso in quell’atto.

Soffriva dunque anche lui? Di che cosa? Per quale motivo? Aveva dunque ragione la sua mamma dicendo che tra marito e moglie c’era di mezzo un malinteso, un equivoco, e che il non tentare da una parte o dall’altra di chiarirli o dissiparli, serviva unicamente a prolungare quel penoso stato d’animo e a renderlo peggiore?

— Come? La cugina non viene? — domandò il cavalier Pergola che era già montato nella carrozza fermata davanti al portone.

— È un po’ indisposta — rispose il marchese.

— Gli altri ci attendono alla Cappelletta — disse il cavaliere dopo di aver acceso un sigaro. — Ecco don Aquilante!

Don Aquilante arrivava di corsa scusandosi di essere in ritardo.

Titta fece schioccare la frusta e le mule partirono di buon trotto.

Il cavalier Pergola non poteva trovarsi insieme con l’avvocato senza cavarsi il gusto di provocarlo a qualche discussione. Quando la carrozza raggiunse le altre due coi soci dell’Agricola alla Cappelletta e passò avanti per la discesa, il cavaliere gli disse:

— Oggi voglio vedervi prendere una sbornia. In vino veritas; così ci direte la vera verità intorno ai vostri Spiriti.... Ma ci credete, proprio?

— Non ho mai preso sbornie in vita mia; nè ho bisogno di essere ubbriaco per dire la verità — rispose severamente don Aquilante.

— Bevono vino anche gli Spiriti?

— Potrei dirvi sì; e vi parrebbe una sciocchezza.

Il cavaliere scoppiò in una risata:

— Meno male. Se nel mondo di là non si dovesse più bere vino, mi dispiacerebbe assai. Avete udito, cugino? Bisogna turar bene le botti a Margitello; c’è il caso di trovarne qualcuna già vuotata.

E rideva, pestando i piedi, strofinandosi le mani, come soleva quando era di buon umore.

— Quel che gli Spiriti non possono vuotare, sono certi cervelli dove non c’è niente — replicò don Aquilante, socchiudendo gli occhi e scrollando compassionevolmente la testa.

Il marchese non aveva risposto sùbito. Da qualche tempo in qua andava soggetto a certe intermittenze di pensiero dalle quali si riscoteva tutt’a un tratto quasi rinvenisse da uno sbalordimento. Doveva fare uno sforzo per rammentare l’idea, o il fatto dietro a cui si era sperduto, e qualche volta non riusciva a rintracciarlo. Gli sembrava di aver camminato, camminato in mezzo a densa nebbia senza distinguere niente attorno a lui, in uno spazio deserto, silenzioso, o su l’orlo di un abisso dove poteva porre il piede in fallo, e di cui risentiva l’orrore rientrando in sè.

Aveva fatto un lieve balzo all’interrogazione del cavaliere, e atteggiava le labbra a un sorriso stentato indovinando a chi andasse la risposta di don Aquilante.

— Mio cugino è incorreggibile — egli disse mentre il cavaliere rideva.

— Ha però in serbo le solite reliquie per quando si vede in pericolo! — rispose don Aquilante senza scomporsi.

— Se credete di chiudermi la bocca col rinfacciarmi una debolezza di moribondo! — esclamò il cavaliere. — Ecco, ora son qua in perfetta salute e posso tener testa a voi e a tutti i preti della terra. E a Margitello farò un bel brindisi al Diavolo davanti a la botte grande col migliore vino della Società....

Evviva Satana!
Ribellione,
O forza vindice
Della ragione!...

Li ho letti ieri in un giornale; versi di un gran poeta, diceva il giornale.

— Ai poeti è permesso affermare e negare nello stesso tempo.

— Affermare e negare?...

— Se non m’intendete, è colpa mia forse? Voi vi figurate di fare chi sa che cosa con un brindisi al Diavolo. Credete in lui dunque; e vi proclamate libero pensatore!

— Siete più irragionevole voi che credete negli Spiriti. Almeno il Diavolo è una potenza, che tenta, induce al male e porta, lui solo, più anime all’inferno che non tutti gli angioli e i santi in paradiso. E a questo suggerisce: “Ruba!„ A quegli insinua: “Ammazza!„ A uno: “Fòrnica!„ A un altro: “Tradisci!...„ E tutti ubbidiscono, e tutti gli vanno dietro.... se è vero che esiste!...

— Volgarità vecchia, stantìa, caro cavaliere! Voi siete addietro di un secolo, a dir poco!

— E voi all’infanzia dell’umanità!

— Intanto con questi discorsi facciamo addormentare il marchese — disse don Aquilante.

Il marchese era ricaduto in quello stato di intermittenza di pensiero da cui si era destato un istante poco prima; solamente gli risuonavano negli orecchi fioche, quasi indistinte, le parole del cugino: “A quegli insinua: Ammazza! A questi insinua: Ammazza!„ Sì! Sì! Il diavolo gliel’aveva soffiata, ohimè! un’intera settimana la terribile parola.... Ed egli aveva ammazzato!... Così, dopo, il diavolo aveva suggerito a compare Santi Dimauro: — Impìccati! Impìccati! — E quegli si era impiccato!...

Non si sarebbe dunque mai sbarazzato di questi incubi? Non dormiva, come diceva in quel punto don Aquilante. E dormiva poco da parecchie settimane, nel letto, a fianco della marchesa; giacchè non poteva dirsi sonno quel chiudere gli occhi per qualche quarto d’ora e destarsi di soprassalto col terrore che ella, accorgendosene, gli domandasse: Che cosa avete? C’era già una incessante interrogazione negli occhi di lei, in quella chiusa rassegnazione, in quelle brevi risposte, che sembravano insignificanti e che significavano tanto, quantunque egli fingesse di non prestarvi attenzione.

Aveva un tristo significato anche il rifiuto di andare quel giorno a Margitello. E il notaio Mazza glielo rammentava scendendo dalla carrozza nella corte:

— Peccato che manchi la nostra cara marchesa!

Intanto doveva mostrarsi allegro con gli ospiti, dare una cert’aria solenne a quell’assaggio, battesimo dell’impresa per la quale aveva speso tanti quattrini, tante cure e tanto entusiasmo, e suscitato tante avidità e tante speranze.

Fortunatamente erano allegri i soci. Il notaio Mazza si era quasi prostrato in ginocchio davanti a la botte grande, levando in alto le braccia ed esclamando in latino:

— Adoramus et benedicimus te!

Il cavalier Pergola, tra una bestemmia e l’altra, parlava di tipi di vini.

— Se non si arriva a creare un tipo, tutto è inutile!

E così, da lì a poco, anche il marchese era già eccitato allorchè i dieci soci si trovarono coi bicchieri in mano, ascoltando, con qualche impazienza, le spiegazioni ch’egli dava intorno ai tagli operati e alle manipolazioni dovute fare appunto per creare il tipo, che doveva chiamarsi Ràbbato, bello e strano nome da portare buona fortuna.

Poi il vino sgorgò dalla cannella della botte Zòsima limpido, di un vivo color di rubino, coronando con lieve cerchio di spuma rosseggiante i bicchieri; ma il notaio Mazza, assaggiàtolo, nel punto di fare un brindisi, si era arrestato, assaporando, facendo scoppiettare le labbra, tornando ad assaggiare, guardando negli occhi tutti gli altri che assaggiavano come lui, senza che nessuno si decidesse a dire il suo parere, quasi ognuno avesse paura di essersi ingannato.

— Ebbene? — fece il marchese.

— Cavaliere, dica lei....

— Oh!... Voi, caro notaio, siete assai più fino conoscitore di me.

— Allora, don Fiorenzo Mariani.... — riprese il notaio.

— Io? — lo interruppe questi, atterrito di dover pronunziare un parere in faccia al marchese.

— Parli l’avvocato, e questa volta da giudice....

— Dichiaro la mia incompetenza — s’affrettò a rispondere don Aquilante che aveva già riposto nel vassoio il bicchiere ancora colmo.

— Tipo Chianti, ma più forte — disse il marchese, dopo aver assaggiato.

— Troppo forte, forse! — soggiunse maliziosamente il notaio.

— E poi, i vini si gustano a tavola.

— Dice benissimo il cavaliere!

Erano usciti d’imbarazzo così. E a tavola, con la scusa che i vini nuovi sono traditori, tutti avevano bevuto il vino vecchio; e il cavalier Pergola che voleva far prendere una sbornia a don Aquilante, l’aveva presa invece lui, leggerina, sì, come quella di don Fiorenzo Mariani che gli sedeva dirimpetto, ma chiassona e con la fissazione: — Don Aquilante, evocate gli Spiriti, o li invoco io! — mentre don Fiorenzo, levato in piedi col bicchiere in mano, per dimostrar che la sua testa era serena, ripeteva sfidando il cavaliere:

— Pietro ama la virtù! Qual'è il soggetto della proposizione?

Soltanto il notaio mangiava e beveva zitto zitto.

— Tipo Chianti — rifletteva — un po’ più forte!... Aceto addirittura!...

— Mi sono ingannato io, o pure?... — lo interrogava sottovoce il socio che gli sedeva accanto.

— Da condire l’insalata, volete dire?

— Questo è il Ràbbato bianco.

Il marchese andava attorno egli stesso per riempirne i bicchieri dei commensali, e giunto dietro al cavaliere, che continuava a gridare: — Don Aquilante, evocate gli Spiriti, o li èvoco io! — gli disse in tono severo:

— Cugino, via, finitela con questo stupido scherzo!...

— Scherzo? — rispose il cavaliere rosso in viso, con gli occhi accesi e la lingua un po’ incerta. — Ma io parlo seriamente.... Carte in tavola!... Dove sono cotesti suoi Spiriti? Vengano, vengano qui. Io vi èvoco in nome.... del Diavolo: — Spiriti erranti, che non potete abbandonare il posto dove siete morti.... In nome del Diavolo! — Ah! Ah! Ah! Si fa così?... O ci vuole per forza il tavolino? C’è la tavola qui pronta e c’è il vino.... e anche l’aceto che il cugino ha manipolato.... Cugino mio, questa volta, aceto da peperoni!... Aceto Ràbbato!...

Il notaio Mazza e gli altri volevano turargli la bocca, condurlo di là.

— Buona persona il cavaliere, ma un dito di vino di più lo mette subito in allegria....

Il notaio tentava di attenuare la brutta impressione di quella scena, vedendo il viso scuro del marchese che scrollava le spalle e voleva far le viste di non dare importanza alle parole del cugino.

Il quale, mentre don Aquilante, appoggiati i gomiti su la tavola, con la testa fra le mani e gli occhi socchiusi non gli dava ascolto, seguitava a ripetere:

— Si fa così? Si fa così, gran mago? Evocate compare Santi Dimauro!... Evocate Rocco Criscione!... Devono essere in queste vicinanze.... Spiriti erranti...! O voi siete un mago impostore!

Il marchese, impallidito, gridò forte:

— Cugino!

E quel grido di rimprovero parve che tutt’a un tratto gli snebbiasse il cervello; il cavaliere tacque, sorridendo stupidamente.

Don Fiorenzo, dall’altra punta della tavola, urlava intanto:

— Chi non è ubbriaco risponda: Pietro ama la virtù! Qual è il soggetto della proposizione?

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