< Il Mercante di Venezia
Questo testo è completo.
William Shakespeare - Il Mercante di Venezia (1598)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto primo
Interlocutori Atto secondo

IL

MERCANTE DI VENEZIA




ATTO PRIMO




SCENA I.

Venezia. — Una strada.

Entrano Antonio, Salarino e Salanio.

Ant. Di schietta fede, io non so perchè mi sia così malinconico. Ciò mi contrista, e voi pure contrista, mi dite; ma in qual guisa io mi sia pigliato questo dolore, come io l’abbia trovato, in che consista, da che sia originato, è quel che non so ancora comprendere. — Son tanto malconcio dalla mia imbelle tristezza, che stento a riconoscermi.

Salar. La vostr’anima segue le agitazioni dell’Oceano; ella va dietro ai vostri bei vascelli che, colla loro superba alberatura, vogando sopra i flutti, sembrano i sovrani, o i primi cittadini del mare, e signoreggiano sulla folla dei minuti navigli, che offrono loro un umile omaggio passando, sospinti dalle loro ali di lino.

Sal. Credetemi, signore, se avessi una tanta ricchezza esposta a così fatti rischi, la maggior parte dei miei pensieri e delle mie affezioni errerebbe dietro alle mie speranze. Io sarei allora veduto in atto di svellere sempre manciate di erbe, e di gettarle all’aria per conoscere da qual parte spirassero i venti; o mi starei profondato in cogitazioni sulle carte geografiche per notare i porti e le strade; ed ogni oggetto che potesse farmi temere una disavventura per il mio carico, non mancherebbe certo di attristarmi.

Salar. Il mio proprio alito, raffreddando il brodo, mi causerebbe la febbre alla sola idea del danno che un violento uragano potrebbe produrre. Io non saprei vedere un oriuolo a polvere versare le sue sabbie senza pensare ai banchi di sabbia, alle secche, e senza fantasticare i miei vascelli naufraganti sopra di esse. Potrei io andare alla chiesa, e mirar le pietre del sacro edifizio, nè imaginare le pericolose scogliere che, sfiorando soltanto i constati del mio caro naviglio, disperderebbero tutte le mie merci sui flutti, e vestirebbero delle mie sete le onde in furore; in breve, senza pensare che in un girar d’occhi potrei passare dalla ricchezza alla povertà? Dovrei io riflettere a tutti questi rischi e non sentire in pari tempo che una tale sventura, se mi accadesse, mi renderebbe assai tristo? Non ne diciamo altro: son sicuro che se Antonio è malinconico è perchè ei pensa alle sue merci.

Ant. Credetemi, no: grazie alla fortuna, tutte le mie speranze non son poste sopra un solo vascello, nè destinate per un luogo solo, e le mie ricchezze non si sobbarcano tutte alle venture di quest’anno. No, non sono le merci che mi fanno mesto.

Sal. Siete dunque innamorato?

Ant. Oh no, no.

Sal. Neppure innamorato? Dunque diremo che siete triste; perchè non siete gaio; e facile sarebbe a voi del pari il ridere, il danzare e il dire che siete gaio perchè non siete tristo. Per Giano dalla doppia testa! la natura informa talvolta strani personaggi nelle sue bisbetichezze. Gli uni che cogli occhi a metà chiusi riderebbero come papagalli alla vista di un suonatore di cornamusa; altri di sì acre aspetto che non mostrerebbero i loro denti per sorridere neppure se Nestore giurasse loro che un oggetto dovrebbe far ridere assai.

(Entrano Bassanio, Lorenzo e Graziano)

Sal. Viene Bassanio, vostro nobile parente, con Graziano e Lorenzo: addio; noi vi lasciamo ora in miglior consorzio.

Salar. Sarei volentieri rimasto fino a che vi avessi rallegrato, se amici più degni non mi avessero prevenuto.

Ant. Sono sensibile all’affetto che mi addimostrate; sospetto che i vostri negozi vi chiamino, e che prendiate quest’occasione per lasciarmi.

Salar. Buon giorno, miei buoni signori.

Bas. Buoni signori, quando rideremo? Dite, quando? Voi diventate molto strani: dev’ella durare così?

Salar. Disporremo de’ nostri ozii in guisa da profittare dei mostri.     (esce con Sal.)

Lor. Messer Bassanio, poichè siete con Antonio, vi lascìeremo seco. Ma all’ora del pranzo ricordatevi del luogo in cui dobbiamo trovarci.

Bas. Non mancherò.

Gra. Voi non avete buon aspetto, messer Antonio: troppo gran prezzo voi date agli affari di questo mondo, e ne perdete i piaceri, volendoli comprare con soverchie cure. Oh siete assai cangiato, credetemene.

Ant. So estimare il mondo per quel che vale, Graziano: esso è un teatro in cui ognuno deve compiere la sua parte, e la mia è di esser tristo.

Gra. Allora la mia sia di esser pazzo. Le rughe della vecchiaia mi vengano in mezzo alla gioia e alle risa, e il mio fegato sia piuttosto infiammato dal vino, che il mio cuore fatto gelido da dolorosi sospiri. Per qual ragione un uomo che ha il sangue caldo dovrebbe essere immobile ed insensibile, come la statua del suo avolo in marmo, dormendo svegliato, e incorrendo nell’itterizia per cattivo umore? Ascolta, Antonio; io ti amo ed è la mia amicizia che parla; v’è una specie di persone i di cui volti si cuoprono d’un velo, come l’acqua d’uno stagno, e che mostrano una calma simulata per apparir gravi e saggi, parendo dire: signore, io sono un oracolo: allorchè parlo i cani si astengano dal latrare. Oh! mio caro Antonio, ben ne conosco di tal tempra, uomini che non debbono che al loro silenzio la loro riputazione di saviezza, e che se parlassero, ne son certo, non mancherebbero d’imprecare a coloro che ascoltandoli non si togliessero dall’averli in conto di pazzi. Te ne dirò di più un’altra volta. Ma tu non pescare con tal amo della malinconia, per venire in quella vana fama, delizia degli stolti. — Animo, venite con me, caro Lorenzo. — Addio, signore, dopo pranzo terminerò le mie esortazioni.

Lor. (ad Ant.) Sì, vi lascieremo fino all’ora del desinare, e converrà ch’io divenga uno di quei savi mutoli, poichè Graziano non mi lascia mai il tempo di discorrere.

Gra. Bene sta; abbimi a compagno anche un paio d’anni, e non saprai più quale sia il suono della tua voce.

Ant. Addio; ei mi farebbe divenire cicalone.

Gra. Sarebbe meglio in fede! perocchè il silenzio non si addice che ad una lingua di bue, e ad una fanciulla che non ha per anche capitolato.     (esce con Lor.)

Ant. Vi è in ciò qualche senso?

Bas. Graziano parla, senza dir nulla, meglio d’ogni altro uomo in Venezia. Le sue idee son come due grani di frumento nascosti in un gran cumulo di paglia. Si possono cercare tutto un dì senza trovarle, e trovate che siano non valevano il pregio della ricerca.

Ant. Sta bene; dimmi ora qual è la signora a cui giurasti di andare in segreto pellegrinaggio? Tu mi promettesti di dirmelo oggi.

Bas. A voi è noto, Antonio, in qual misero stato siano ridotta le cose mie, e ciò per aver voluto vivere con maggior splendidezza che le mie fortune non comportassero. Io non mi lagno di vedermi ridotto a gravi privazioni, ma voglio togliermi con onore dagli alti debiti che ho contratti con troppa prodigalità. Io vi debba molto, Antonio, così in danaro come in amicizia; ed è sull’amicizia vostra che mi affido per aver modo di sdebitarmi.

Ant. Ve ne supplico, mio caro Bassanio, apritemi l’anima vostra. Se è cosa (e qui non potrebbe essere altrimenti con voi) che vi comandi l’onore, siate certo che la mia borsa è aperta, che la mia persona e le mie sostanze son consacrate ai vostri servigi.

Bas. Allorchè ero scolaro, perduta che avessi una freccia, ne scoccavo un’altra nella medesima direzione, mettendo maggior attenzione a seguirne il volo, onde ritrovarla prima, rischiando di perderle tutte e due, e spesso ritrovandole entrambe. Vi richiamo quest’esempio della mia fanciullezza, perchè intendo parlarvi un linguaggio franco. Molto io vi debbo; ma, come spesso incontra a’ giovani storditi, quello ch’io vi debbo è perduto. Nondimeno se voleste avventurare un’altra quadrella dal medesimo lato in cui avete vibrata la prima, non dubito che, colla mia attenzione ad osservarne la caduta, non le ritrovassi tutte e due, o almeno non vi recassi quella che aveste per ultima rischiata, restando per l’altra vostro debitore riconoscente.

Ant. Il mio cuore vi è noto, e sperdete il tempo con tante parole. Voi mi fate maggior offesa dubitando de’ miei sentimenti, che non fareste dissipando quant’io possiedo. Ditemi quindi quello ch’io debbo fare per voi, o quello che voi credete possibile ch’io faccia, e son pronto: parlate.

Bas. Vi è a Belmont una ricca erede; bella, più bella di questa parola, e dotata di qualità egregie. Ho talvolta ricevuto muti messaggi da’ suoi occhi. Il suo nome è Porzia. Essa non la cede in nulla alla figlia di Catone, la Porzia di Bruto. L’universo conosce il suo merito; avvegnachè i quattro venti le conducono da tutte le contrade adoratori illustri. Le ciocche de’ suoi capelli, lucide come il sole, cadono sulle sue tempie, come un vello d’oro; ciò che fa di Belmont un’altra Colco, a cui gran quantità di Giasoni accorre per amore del conquisto. — Oh! mio caro Antonio, se avessi soltanto i mezzi d’entrare in concorrenza con essi, ho nell’anima un presagio che mi dice ch’io perverrei certamente al mio scopo.

Ant. Tu sai che tutta la mia ricchezza è in mare, ch’io non ho pecunia, nè potrei cumulare una gran somma. Ma abbi coraggio, fa prova di quello che vale il mio credito in Venezia. Userò d’ogni mio espediente per porti a tale di comparire con onore a Belmont presso alla vaga Porzia. Va a richiedere dove è danaro: io pure ciò farò, e credo bene che saprò ritrovarne, sia col mio credito o coll’amore in cui sono tenuto.     (escono)

SCENA II.

Belmont. — Una stanza nella casa di Porzia.

Entrano Porzia e Nerissa

Por. Affè, Nerissa, il mio piccolo corpo è ben stanco di questo gran mondo.

Ner. Voi lo sareste assai di più, dolce signora, se le vostre miserie fossero in proporzione delle vostre fortune: e nondimeno da quel che veggo coloro che nuotano nell’abbondanza infermano al par di quelli che mancano del bisognevole. La felicità vera dunque è posta nella mediocrità.

Por. Ottimi dettati, e profferiti con molta grazia!

Ner. Migliori diverrebbero se se ne traesse insegnamento.

Por. Se fosse così facile il fare come il dire, le cappelle sarebbero chiese e le capanne palagi. Il miglior predicatore è quello che si conforma alle proprie discipline. Insegnerei piuttosto a venti persone ciò che è necessario a fare, che essere una di quelle venti persone per seguire le mie istruzioni. Il cervello può imaginare leggi per il sangue, ma un temperamento ardente varca d’un salto ogni statuto più gelido. La folle giovinezza si avventa come il lepre al disopra delle reti dell’impotente ragione. Tutti questi bei discorsi sono intempestivi, allorchè v’è a scegliere uno sposo. Scegliere? Oimè! Quale parola! Non possono elegger ciò che vorrei, ne mutare quello che mi spiacesse. È così che i voleri di una figlia debbono per forza uniformarsi a quelli di un padre estinto. Non è tristo per me, Nerissa, il non potere nè scegliere, nè rifiutare alcuno?

Ner. Vostro padre fu sempre virtuoso, e gli uomini santi hanno buone ispirazioni alla loro morte; perciò la ventura ch’egli ha fermata nei tre scrigni d’oro, d’argento e di piombo, e per la quale voi apparterrete all’amante che saprà eleggere, opererà in guisa che voi non diverrete che d’un uomo degno del vostro amore. Ma fra gli adoratori qui giunti da poco, ve n’ha alcuno verso cui vi sentiate più particolarmente spinta?

Por. Te ne prego, dimmene i nomi; e mentre li rassegnerai te ne farò il ritratto, e da ciò potrai scrutare i miei sentimenti.

Ner. Prima vi è il principe napoletano.

Por. Sì, quell’imbecille che non parla mai che del suo cavallo, e reputa una delle sue più cospicue doti la scienza che possiede di saperlo egli stesso ferrare. Temo molto che la madre sua non abbia dimenticato il suo decoro con un maniscalco.

Ner. Vi è quel conte palatino.

Por. Ei non sa che aggrottare il ciglio, come se dir volesse: se non vi piaccio lasciatemi andare. Ode racconti dilettevoli senza ridere; e temo che nella sua vecchiaia non divenga il filosofo lagrimoso, avvegnaché quantunque così giovine, è già di un pessimo umore. Più mi piacerebbe sposare una testa di morto, con un osso in bocca, che uno di costoro. Il Signore me ne preservi!

Ner. Che dite di quel francese, monsieur Le Bon?

Por. Dio lo fece, ed è perciò che acconsento a credere che sia uomo. In verità! so che è peccato il farsi beffe degli altri; ma trattandosi di questo parmi che noi sia. Egli ha un cavallo migliore del napoletano; corruga la fronte meglio del conte palatino: ha tutte le parti dell’uomo senz’esser uomo; se un merlo canta, ei saltella; schermisce colla sua ombra: s’io lo sposassi sposerei venti mariti: s’ei mi spregiasse io gli perdonerei, perchè, mi amasse egli alla follia, non potrei mai ricambiarlo.

Ner. E che pensate di Faulconbridge, quel giovane barone d’Inghilterra?

Por. Sapete ch’io non gli dico nulla, perchè ei non mi intende, né io lo intendo. Ei non sa né il latino, né il francese, nè l’italiano, e potreste ben giurare ch’io non capisco sillaba d’inglese. È il ritratto d’un bell’uomo colui; ma oimé! chi può conversare con un’ombra? Veste maravigliosamente, per cui credo che compri i suoi giubboncelli in Italia, i calzoni in Francia, i cappelli in Germania, e i suoi modi da per tutto.

Ner. E qual vi sembra quel signore scozzese suo vicino?

Por. Egli è pieno di carità per l’amico suo: perocché prese in prestito varii oggetti, giurando di restituirglieli quando potesse. Credo che il francese si sia fatto sua cauzione e si sia vincolato per i profitti futuri. Ner. Che dite di quel giovine tedesco, nipote del duca di Sassonia?

Por. Sta molto male il mattino allorchè è digiuno, e peggio la sera quand’è ebbro. Allorchè è in sè è sempre al disotto d’ogni uomo: quand’è fuor di sè, è peggio d’una bestia. Qualunque sia la sventura che m’accade saprò sottrarmi a lui.

Ner. S’ei si presentasse per scegliere, ed eleggesse il migliore scrigno, voi vi opporreste ai voleri di vostro padre, rifiutandolo.

Por. Perciò, per tema di tal disavventura, tu metterai sull’altro apparecchio un bicchiere di Reno; avvegnachè se anche il diavolo vi fosse dentro, con tale allettativa ei lo sceglierà. Farò di tutto, Nerissa, prima che accoppiarmi ad una spugna.

Ner. Non avete a temere di esser data ad alcuno di costoro: essi m’han fatta parte della loro risoluzione di tornarsene a casa e di non più infestarvi, a meno che non vi si possa ottenere con mezzo diverso dalla scelta degli scrigni, impostavi da vostro padre.

Por. S’io vivo tanto quanto la Sibilla, morirò casta come Diana, se pur vinta non sono nel modo prescritto dal padre mio. Godo che codesti amanti siano tanto sennati; non ve n’è alcuno fra essi, per la lontananza del quale io non faccia voti, e a cui non preghi un buon viaggio.

Ner. Non rammentate che fin da quando viveva vostro padre, venne qui un veneziano in compagnia del marchese di Monferrato?

Por. Sì, sì, Bassanio; così parmi si chiamasse.

Ner. È vero; e fra tutti gli uomini che i miei pazzi occhi hanno veduto egli era il più degno di ottenere una vaga donzella.

Por. Ben me ne ricordo, e so che è degno delle tue lodi. — Ebbene! Quali novelle?     (entra un domestico)

Dom. I quattro stranieri vi cercano, signora, per prendere congedo; ed è arrivato un messo, per parte di un quinto, il principe di Marocco, che arreca che il suo signore sarà qui prima che annotti.

Por. Se potessi dare al quinto il benvenuto con tanto cuore con quanto darò agli altri quattro il mio addio, lieta sarei del suo arrivo. Se colle qualità di un santo egli ha il colore di un diavolo, mi piacerebbe più che mi confessasse, di quello che mi sposasse. — Vieni, Nerissa. — Voi andate innanzi — Mentre chiudiam la porta dietro a un amante, un altro si presenta per battere.     (escono)

SCENA III.

Venezia. — Una piazza.

Entrano Bassanio e Shylock.

Shy. Tremila ducati,... bene.

Bas. Sì, signore, per tre mesi.

Shy. Per tre mesi,... bene.

Bas. E per essi, come vi dissi, Antonio starà cauzione.

Shy. Antonio starà cauzione... bene.

Bas. Potete farmi questo servigio? Mi darete una risposta?

Shy. Tremila ducati, per tre mesi, e Antonio cauzione...

Bas. Qual è la risposta vostra?

Shy. Antonio è un buon uomo.

Bas. Avreste voi udito dargli qualche imputazione?

Shy. No, no, no, no, no... volevo dire che è buon nomo, intendendomi che ha qualche cosa. Nondimeno le sue ricchezze ondeggiano: egli ha un vascello in via per Tripoli, un altro per le Indie; e appresi sul Rialto che ne aveva un terzo al Messico, un quarto in Inghilterra, ed altri qua e là. Ma i vascelli non son che tavole e i marinai altro non sono che uomini: sonvi topi di terra, e topi d’acqua, ladri di terra, e ladri d’acqua, voglio dire pirati; quindi vi è il pericolo delle acque, dei venti e degli scogli. Antonio nondimeno ha qualcosa... tremila ducati... credo di poter accettare la sua cauzione.

Bas. Siate sicuro che lo potete.

Shy. Voglio pensarci; e per acquetarmi pensarci da me: posso intanto parlare con Antonio?

Bas. Se voleste pranzare con noi...

Shy. Sì, per assaggiare il maiale; per cibarmi nella casa in cui il vostro profeta Nazareno ha fatto entrare il diavolo? Voglio bene comprare e vendere con voi, parlar con voi, passeggiar con voi, ecc.; ma non vuo’ mangiar con voi, nè ber con voi, nè pregar con voi. Che vi è di nuovo sul Rialto? — Ma chi viene?

(entra Antonio)

Bas. Questi è il signor Antonio.

Shy. (a parte) Come ha l’aspetto di un ipocrita pubblicano! Lo abborro perchè è cristiano, e io abborro anche più perchè ha la stolta semplicità di prestar il denaro gratis, e fa così scemare i frutti che si potrebbero ottenere. Se posso pigliarlo una volta appagherò l’antico odio che gli porto. Egli detesta la nostra santa nazione, e nei luoghi medesimi dove la maggior parte dei mercatanti si riuniscono, si fa beffe di me, vitupera i miei contratti, e impreca ad un giusto guadagno ch’ei chiama usura. Sia maledetta la mia tribù s’io gli perdono!

Bas. Shylock, udite?

Shy. Pensavo ai denari che mi rimangono, e veggo che non potrei darvi tosto la somma dei tre mila ducati. Ma non vale; Tubal, un ricco ebreo della mia tribù, vi supplirà. Però, per quanti mesi li volete? Restate, signor Antonio; era di vostra signoria che favellavamo.

Ant. Shylock, sebbene io non presti nè prenda a prestito pagando frutto, nondimeno per soccorrere ai bisogni pressanti del mio amico derogherò al mio uso. — È egli istrutto della somma che vi occorre?     (a Bas.)

Shy. Sì, sì, tremila ducati.

Ant. E per tre mesi.

Shy. L’avevo obbliato,... per tre mesi, così mi avevate detto. Sta bene. Fate la vostra cambiale, poi vedrò... Ma, udite; mi parve diceste che voi non prestate mai nè prendete a prestito con frutto.

Ant. No, mai.

Shy. Allorchè Giacobbe faceva pascere gli armenti del suo zio Labano... cotesto Giacobbe dopo il nostro santo Abramo ne fu il terzo possessore... il terzo...

Ant. Ebbene, che volete dire? Egli era pure un usuraio?

Shy. No, non era usuraio; ma badate a quello ch’ei faceva. Allorchè Labano strinse con lui un patto, e si accordò che tutti gli agnelli lattanti che fossero screziati o macchiati gli si apporterebbero per suo salario al fluire dell’autunno, le pecore incalorite andarono in traccia dei becchi, e quando l’atto della natura seguiva fra quelle coppie vellute, l’astuto pastore toglieva la scorza da certi rami e li presentava alle lascive bestiuole che concepivano. Quando poscia il tempo era venuto, esse si sgravavano di agnelli screziati, i quali erano per Giacobbe. In questa guisa egli otteneva un frutto ed era benedetto dal Cielo, perocchè il guadagno è una benedizione, a meno che non lo si rubi.

Ant. Giacobbe prestava i suoi servigi per una mercede incertissima, per una cosa che non era da lui di far succedere, ma in cui la sola mano del Cielo aveva parte. Vorreste trar da ciò qualche deduzione in favore dell’usura? Il vostro oro e il vostro argento è egli simile alle pecore e alle capre?

Shy. Non saprei dirvi: almeno lo fo prolificare con eguale facilità. Ma badate, signore...

Ant. (a Bas.) Vedete, Bassanio? Il diavolo può citare la Sacra Scrittura per autorizzare i vizi. Un’anima cattiva che adduce una testimonianza sacra somiglia ad uno scellerato che ha il sorriso sulle labbra, o ad un bel pomo marcio nel midollo. Oh di quali pompose sembianze si fregia la ribalderia!

Shy. Tremila ducati! è una somma cospicua! Tre per dodici... vediamo il frutto.

Ant. Ebbene, Shylock, volete farci questo favore?

Shy. Messer Antonio, molte e molte volte voi mi avete rimproverato sul Rialto pei miei negozi. Io non ho mai risposto se non che alzando pazientemente le spalle, perocchè la pazienza è il carattere distintivo della nostra nazione; voi mi avete chiamato miscredente, tagliaborse, cane, e avete sputato sul mio mantello da ebreo, perch’io dispongo a mio senno dei miei averi. Ora che sembrate aver bisogno ch’io vi soccorra, venite a dirmi; Shylock, vorremmo danaro. Voi mi tenete tal linguaggio, voi che ingiuriato mi avete, che dato mi avete calci, come dati ne avreste a un cane forestiere che fosse venuto sulla soglia della vostra porta! Danaro chiedete! Che potrei io rispondervi? Non dovrei io dirvi: un cane ha egli danaro? è possibile che un cane presti tremila ducati? ovvero dovrei io salutarvi profondamente, e coll’attitudine d’uno schiavo dirvi con bassa e timida voce: mio bel signore, voi sputaste su di me il mercoledì scorso, voi mi deste alcuni calci, e mi chiamaste cane; in riconoscenza di tal favore vi presterò denaro?

Ant. Sarei tentato di ripetere quelle ingiurie, e di darti nuovi calci. Se mi presti denaro non me lo presti come ad un amico (perocchè quando mai l’amicizia richiese essa che uno sterile metallo si moltiplicasse per lei fra le mani di un amico?), ma come ad un nemico. S’ei manca al suo impegno tu avrai il piacere di infliggergli il tuo castigo.

Shy. Perchè vi sdegnate tanto? Vorrei esser vostro amico, ottenere la vostra affezione, dimenticare le durezze che mi avete usate, sovvenire ai vostri bisogni, non esigendo un soldo di frutta pel mio prestito, e voi non volete ascoltarmi? L’offerta è nondimeno cortese.

Ant. Sarebbevi infatti cortesia in ciò.

Shy. E vuo’ mostrarvi tale cortesia; venite con me dal notaro a sottoscrivere la vostra cedola. Soltanto per celia vorrò che sia stipulato che, in caso non soddisfacciate alla vostra promessa nel giorno prescritto, siate esonerato dal vostro debito lasciandovi tagliare una libbra della vostra bella carne, su quella parte del corpo che mi piacerà di scegliere.

Ant. Acconsento di buon cuore. Sottoscriverò volentieri una tale obbligazione, e dirò che gli Ebrei son pieni di gentilezza.

Bas. Non sottoscriverete per obbligarmi; meglio mi piace restare fra i miei impacci.

Ant. Non temete nulla, amico; non verrò meno all’adempimento. Fra due mesi, un mese prima di questa scadenza, avrò mezzi nove volte maggiori di quelli per cui m’impegno.

Shy. Oh padre Abramo, che cosa sono questi Cristiani! La loro malvagità insegna ad essi a sospettare di tutti. Ditemi, se ei non pagasse al termine fermato, che ci guadagnerei io esigendo ch’egli adempiesse la condizione pattovita? Una libbra di carne d’un uomo non vale una libbra di carne di montone, di bue, o di capra. Quel che io fo, lo fo per acquistarmi la sua benevolenza. S’ei vuole accettare questa offerta amichevole, bene: se nol vuole, addio, e per amor mio astenetevi dal vilipendermi.

Ant. Sì, Shylock, suggellerò il patto.

Shy. Dunque andate ad aspettarmi dal notaio, dategli le vostre istruzioni sul nostro piacevole contratto, ch’io vado a prendere i ducati, e a dar un’occhiata alla casa che lasciai sotto la custodia poco sicura di un servo indolente. Fra breve vi raggiungerò.

Ant. Affrettati, gentil giudeo. (Shy. esce) Quell’ebreo si farà cristiano: egli diventa pio.

Bas. Non mi piacciono le belle parole con un’anima scellerata!

Ant. Venite, non abbiam nulla a temere; i miei vascelli giungeranno un mese prima di questa scadenza.     (escono)



Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.