Questo testo è da formattare. |
Dialogo Primo | ► |
AL SIGNOR BERNARDO
DI FONTENELLE
Francesco Algarotti.
Corrispose il buon’esito della vostra Opera alla bellezza, e novità dell’impresa. Quella metà del nostro Mondo, che rapisce sempre seco i suffragj dell’altra, â dato i suoi al vostro Libro, e lo â consagrato nella più lusinghevol maniera alla Posterità.
Ardirei io lusingarmi, che la mia Luce dovesse aver la sorte de’ vostri Mondi? Se la brama di piacere a ciò, che piace tanto a noi, a far la sua fortuna bastasse, nulla mi resterebbe ad invidiarvi. Ma io conosco troppo le molte cose che mi mancano, ne potrei farmi lecito di non desiderarle; poichè senza parlare de’ vostri talenti, e dell’Arte di festevol rendere, & amabile tutto ciò, che voi trattate; egli pare, che il soggetto della Pluralità de’ Mondi da voi scelto, sia quello, che più d’ogn’altro somministra immagini vaghe e leggiadre, e che è perciò il più convenevole a’ vostri Interlocutori fra quanti potea fornirvene il vasto campo della Filosofia. Le cose ch’egli offre all’animo nulla men sono, che le Stelle, e i Pianeti, i più brillanti e i più vasti oggetti dell’Universo, poche sono le sottili ricerche di Scienza, in cui siete obbligato di entrare; e gli argomenti, co’ quali stabilite la vostra opinione non ânno una tal certezza, che la vivacità del Dialogo ne venga ad essere offesa.
Io ô intrapreso di far piacere la Verità accompagnata da tutto ciò, che necessario è per dimostrarla, e di farla piacere a quel sesso, che ama più tosto di sentire, che di sapere. Il soggetto de’ miei Dialoghi è la Luce, e i Colori; il quale per quanto bello, e ridente sia, non è però per se stesso nè così vago, come il sono i vostri Mondi, nè così esteso. Molte sono, e difficili le minuzie, e le particolarità di Scienza, a cui io sono stato obbligato di discendere; ed i miei argomenti sono per isventura sperienze incontastabili, e che vogliono essere esposte con tutta la precisione immaginabile. Giusto era bene, che le Dame, le quali s’accorsero anch’esse per opera vostra del gran cangiamento, che nel Mondo pensante introdotto aveva il Descartes, del novello pure s’accorgessero, e naturalmente omai l’ultimo, di cui il gran Newton è Autore; ma egli era malagevole di ammansar di nuovo questa Fiera, che sulle tracce de’ calcoli, e della più recondita Geometria all’antica sua selvatichezza più che mai ritornava. Voi avete abbellito il Cartesianismo: io ho procurato di domar, per così dire, il Newtonianismo, e di rendere aggradevole la sua medesima austerità.
Le cose astruse però, che m’è convenuto trattare, non sono che necessarie, e frammescolate sempre di qualche cosa, che possa di tratto in tratto sollevar lo spirito e l’attenzione ch’esigono. Per quanto delizioso un passeggio sia, si ama però di trovar di tratto in tratto qualche erboso sedile per riposarsi talora. Le linee e le figure sono affatto sbandite, come quelle, che darebbono a questi Discorsi un’aria troppo dotta, e che mettrebbon paura a coloro, a’ quali si vuol piacere per istruirli. Vi si sfuggono, quanto si può il più, i termini di Matematica; e se ve n’â alcuno, egli è spiegato per via di cose le più familiari nella vita. Delle difficoltà, che sono state mosse a qualche sperienza, la Storia delle invenzioni Ottiche, de’ dubbi metafisici, la diversità delle opinioni di varj Filosofi, levano alla materia ciò, ch’ella potrebbe per la troppa uniformità sua aver di nojoso. Non ô tralasciato di renderla, per quanto ella il permette, gioconda, e tale, che vi si prenda, se è possibile, quell’interesse, che in una composizion di Teatro prender si suole. V’â egli cosa, in cui il cuore (parlando massimamente alle Dame) debba essere lasciato da parte? Il maraviglioso cotanto amico di questo cuore, che vuol esser sempre ricercato & agitato, nasce per fortuna nella buona Filosofia da se medesimo, e senza aver bisogno di macchine. O’ posto una maniera di cangiamento o di catastrofe nelle opinioni e nella Filosofia della mia Marchesa, che Cartesiana in sul principio divien poi Mallebranchista, ed è ultimamente forzata di abbracciare il sistema di quell’Uomo, che dovrebbe essere alla testa del genere umano, se la forza dell’ingegno e del sapere dovesse tra gli uomini della superiorità e del rango decidere. Il sistema generale dell’Attrazione di questo Filosofo non v’è ommesso, come quello, che â una natural connessione col sistema dell’Attrazione particolare, che tra i corpi e la luce si osserva; talchè questi Dialoghi ponno esser riguardati come un corpo intero di Filosofia Newtoniana. Il Santuario del Tempio sarà sempre riserbato a’ Sacerdoti e a’ favoriti della Divinità: il vestibulo e le altre parti di esso saranno aperte ancora per li profani.
Lo stile, che io ô procurato di seguitare, è quale io ho creduto convenire al Dialogo, netto, chiaro, preciso, interrotto, e sparso d’immagini e di sali. O’ schivato più che ô potuto quegl’intralciati e lunghi periodi col verbo in fine nemici de’ polmoni e del buon senso, che sono, assai meno, che non si pensa, del genio della nostra Lingua, e che non devono essere guari del genio di quelli, che vogliono essere intesi. Gli ô lasciati affatto a coloro, che ânno abbandonato il Saggiatore per la Fiammetta, insieme colle parole antiche e rancide, che fanno una gran parte del lor sapere e delle loro delizie. Il Conte di Castiglione dugento anni fa osò scrivere per esser’ inteso da’ suoi contemporanei, e abbandonando nel suo Cortegiano i Gotici rancidumi seguì nello scrivere l’uso del parlare delle persone pulite e colte del suo tempo, l’uso quel supremo Giudice in tutte le altre lingue, fuorché per isventura nella nostra, e ci arricchì quanto allo stile del più bel libro, di cui l’Italia possa vantarsi. Per qual ragione dovrei io credere, che la Predica, che un Fraticello balbettò quattrocento anni fa in S. Maria Novella servirmi dovesse di modello in un’Opera di Filosofia e di gentilezza. E perchè amerei io più tosto che favellar colle Dame del nostro secolo: i miei parlamenti parlare alle Monne del mille e trecento?
Questo minuto ragguaglio, in cui io sono entrato, vi era in certa maniera dovuto, acciocchè vedeste quanto poco un genere di Opera io abbia negletto, che come vostro si può riguardare. Io lo doveva a’ miei Compatriotti ancora, nella cui lingua originale, qual’ ella siasi, si può dir quest’Opera. I giovani Geometri nel dar la soluzione d’un Problema sogliono indicar i mezzi, de’ quali si sono serviti per arrivarvi. Egli non è lecito, che a’ gran Geometri di una riputazion già fatta di darne semplicemente la soluzione, e di lasciare cercar agli altri in qual maniera vi sien giunti.
Non vorrei però che si credesse, che io apprezzar volessi quest’Opera più ch’ella per avventura non sarà stimata; o che io pensassi di aver pienamente risoluto questo difficil Problema. Io conosco assai e me medesimo, e la difficoltà dell’impresa. Io ô veduto forse ciò, che far si dovea, e forse non l’ô fatto. Rafaello e il Guercino vedevano appresso a poco egualmente ciò, che s’avea a fare per ben disegnare una figura; e ben diseguale tuttavia in questi due Pittori ne fu l’esecuzione.
Come che sia però, le nostre Dame, per cui quest’Opera è principalmente fatta, dovranno sapermi buon grado se avrò loro almeno procurato un nuovo genere di piacere, che sia poi da altri molto meglio, che da me condito, e se avrò recato in Italia la moda di coltivarsi lo spirito più tosto che la presente momentanea foggia dell’arricciarsi i capelli. I Viaggiatori dovrebbono essere i Trafficanti dello spirito, e degli scambievoli vantaggi, che ânno anche in questo genere le Nazioni, le une sopra le altre. Felice quella Società, in cui l’immaginazione Italiana, al buon senso Inglese, ed alla Francese dilicatezza innestar si potesse!
Noi dovremo aver l’obbligo alla vostra Nazione, ed a voi in particolare d’averci dato l’esempio di render comune ciò, che altra volta era misterioso, e di scriver nella sua lingua ciò, che per una certa superstiziosa riverenza era riserbato al Latino, non senza imbarazzarlo di Greco, la più terribil’ arme del Pedantesimo. Si potrebbe fare agl’Italiani appresso a poco in questo genere il rimprovero, che si fa agl’lnglesi per lo Teatro nel bel Prologo al Catone: Egli è vergognoso, vi si dice, che la nostra Scena non sussista, che di ariette Italiane, o di qualche traduzion Francese. Finiamo una volta di più prendere i nostri sentimenti a prestanza. La gloria del nostro Teatro risorga, ed i nostri petti non sieno, che del proprio nativo fuoco riscaldati. Se si eccettua la traduzione di qualche libro Francese, non si vedon da noi, che Canzonieri e raccolte di Rime, incomodi del Secolo, che inondan tutto giorno. Tra i libri moderni in Italiana favella scritti, le Dame non ânno da leggere, che Sonetti pieni d’un amor Metafisico e Platonico, il quale io penso debba far loro quell’effetto, che l’espressioni fanno de’ vecchi Cicisbei. Il Secolo delle cose venga una volta anco per noi, e il sapere non ad irruvidir l’animo, o a piatire sopra una vecchia e disusata frase, ma a pulir serva, se è possibile, e ad abbellir la Società. Io avrò almeno fatto la strada a qualche cosa, che non sarà nè Gramatica, nè Sonetto, e mi lusingherò di aver fatto molto più, se voi approverete ciò, che le Dame m’ânno inspirato.
Parigi il dì 24. Gennajo 1736.