< Il Newtonianismo per le dame
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Dedica Dialogo Secondo

DIALOGO PRIMO.




Introduzione, Idea Generale della Fisica,
ed esposizione delle più famose
Ipotesi intorno alla na-
tura della Luce
e de’ Colori.





Q
Uella stessa ragione che ad un Concerto di Musica, ad una allegra e dilicata cena, a una Galleria, o ad un Teatro tutto dì mi conduce, quella stessa a scriver m’ha condotto la Storia d’una Villeggiatura, che io feci colla Marchesa di E... questa State trascorsa, e mi â in cotal modo di uomo nella Società ozioso ed inutile eretto in Autore; E il natural desiderio, che ogni Autore à di farsi imprimere, che che ci dican tuttavia questi Signori nelle loro lunghe Prefazioni, fa che io ponga ora alla luce del Pubblico questa Storia, la quale per altro sarà tutta Filosofica, e composta di alcuni discorsi, che io ebbi con quella gentil Signora sopra la luce e i colori. Non mancherà forse taluno di rimproverarmi ciò, che per altro mi son rimproverato io medesimo, d’aver così male speso il mio tempo con una Dama. Ma se e’ conoscessero quali maniere questa abbia per obbligar le

persone a far ciò ch’ella vuole, son certo che mi perdonerebbono, quand’anche le avessi letto la Guerra di Pisa del Guicciardini, se ella l’avesse potuto desiderare. Questo mio errore però, per iscusabile ch’egli fosse, io cercava quanto più poteva di emendarlo, quando la luce e i colori mi davano un po’ di tregua. E certamente che e il gentile aspetto della Marchesa invitava a parlar di tutt’altro che di Filosofia, e la qualità del luogo altresì, che parea fatto a posta per nutrire ciò, che la Marchesa avria per altro fatto nascer per tutto. La Penisoletta di Sirmione Patria, del vezzoso Catullo, e i Monti che tante volte ripeterono i bei versi di Fracastoro, due punti dirò così tanto famosi nella Carta Poetica faceano di lontan prospetto all’elegante Palagio sù di gentil Collina piantato; cui lavavano il piede le chiare acque del Benaco, che per la sua ampiezza, e per lo fremito delle sue onde emula il Mare. L’odor degli aranci che le rive d’intorno, e l’aere gentilmente profuma, la frescura de’ Boschetti, il mormorio delle fontane, il veleggiar su pel cristallino Lago delle pronte barchette, ogn’una di queste cose m’avrebbe di mano in mano a se rapito, se la Dea di questo ameno luogo mi avesse lasciato sensi per esso loro.

Allo Spirito, e all’Immaginazione la più gentile ella accoppiava una non ordinaria sodezza d’ingegno, e a’ sentimenti i più delicati una dotta curiosità. Superiore alle altre senza curarsi di mostrarlo di nastri parlar sapeva e di cuffie se bisognava, e far quistioni per averne la risposta. Una naturale negligenza e una disaffettazione non istudiata condiva tutto ciò, ch’ella diceva. Del resto assai bella per acquistare a suo marito degli amici, ed insieme assai giudiziosa per non acquistargliene un solo alla volta. E queste cose non trovandosi per lo più insieme che in un libro, e nella immaginazione degli Autori, ciò è cagione, cred’io, che la dottrina nelle Dame non â quell’universale applauso appresso al Mondo, che â la bellezza.

Quando noi eravam soli, e che gl’importuni ci lasciavan respirar dal giuoco, ripiego e flagello insieme delle società, noi spendevamo qualche parte della giornata nella lettura di libri ora antichi, or moderni, facendo ella grazia contra l’opinione di quel Re, che voleva ogni cosa di vecchio a’ nuovi libri, così come a’ nuovi amici. La Poesia era il principale oggetto della nostra lettura, parendo ella confacevole più d’ogn’altra cosa alla campagna, in cui ella secondo tutti i Genealogisti delle bell’Arti prima ch’ogn’altra ebbe già l’origin sua. Questo però si faceva in modo che nè men quella Poesia, che è (per così dire) affatto cittadina, come la Commedia, l’Epica, e la Satira era esclusa; acciò in ogni cosa un certo spirito di libertà dominasse, che il fondamento era della nostra società. Questo spirito più che in altro ne’ nostri giudizj dominava, per cui un Italiano, un Francese, un Antico, un Moderno era da noi riguardato col medesimo occhio. La saggia elevazione e la sceltezza dell’Eneide, la varietà e l’evidenza dell’Orlando, la nobil finitezza della Gerusalemme, la verità, lo spirito Filosofico, e le bellezze particolari dell’Enriade, l’invenzione della Mandragora, i caratteri del Misantropo, la dolcezza de’ numeri del Sannazaro, la felice negligenza del Chapelle, tutte queste cose erano da noi comparate in modo, che nè la lontananza de’ tempi ci facea apparire più armonioso un verso, nè la diversità de’ paesi men sublime o men gentile un pensamento. Si mescolavano episodj a tutto ciò e distrazioni, delle quali la Marchesa non mi sapeva più mal grado, che se io le avessi detto ch’ella era bella.

Un episodio, in cui io le parlai della forza e de’ vantaggj della Poesia Inglese, le fece venir volontà di assaggiarne alcuna cosa, stimando ella per altro che quella Nazione, a cui Minerva â cotanto de’ suoi doni profuso, non dovesse poi essere stata scarsa di quelli di Apollo.

Increbbe senza fine a me, che null’altro che far piacere cercava a colei, che tanti a me ne faceva ognora, di non poterle dare che una manchevole ed imperfetta idea dell’armoniosa fecondità di Dryden, della soave mollezza di Waller, del vario e pieghevole stile di Prior, dell’arguto spirito e del brio de’ Rochester, e de’ Dorset, della corretta maestà dell’Addison, degli arditi e robusti tratti del Shakespear, e della gigantesca sublimità Miltoniana. Parlare del merito d’un Poeta è lo stesso che voler descriver la bellezza d’un volto, che bisogna co’ suoi propri occhi vedere, e il citarne anche nella sua lingua originale alcun particolar passaggio separato da ciò, che l’accompagna, saria lo stesso che mostrare un occhio, un labbro, una pozzetta d’un viso, che si vuol vedere non a parte a parte, ma tutto insieme, e in cui mille cose concorrono a comporne la simmetria e la bellezza. Mi consolai tuttavia alcun poco sovvenendomi di avere per ventura tra alcune carte, che io aveva recate meco alla campagna, l’Oda pel giorno di Santa Cecilia del Signor Pope, il cui nome a coloro solamente è ignoto, a’ quali è ignoto, che v’à Poesia Inglese. La seguente mattina la portai meco in un boschetto destinato alle nostre conferenze Poetiche, e ch’era divenuto il Parnasso di tutte le Nazioni. Dimandato ch’ebbi perdono alle Muse Inglesi gliela cominciai a leggere, traducendogliela il meglio che io potei. Ella l’ascoltava con un’attenzione, da cui generalmente le Belle sogliono dispensarsi; ed essendo io giunto a quel passo della prima Strofe:


Mentre con tarde ed allungate note
Il profondo, solenne, e maestoso
Organo soffia.


Ella m’interruppe, non saziandosi di lodare la sceltezza e proprietà di quegli aggiunti, i quali dipingono talmente quello strumento, che io l’odo, diss’ella, veramente suonare. Non so se voi l’udiate altresì, ma e’ mi pare di poterlo argomentare da un certo piacere, che avete dimostrato forse senza accorgervi, recitandomi questo passo. Voi intendete così bene, o Madama, rispos’io, tutt’i miei movimenti anche i più dilicati, che non vi potete ingannare; e voi rilevate certamente una cosa, che rende le immagini, onde la Poesia si nudrisce, vive al sommo e parlanti. Gli aggiunti di questa maniera son le pennellate, che dan l’anima al quadro. La mano bianca, la fronte serena, gli occhi soavi non ne sono al più che l’abbozzo.

E la luce settemplice, replicò la Marchesa, che io vidi alcuni mesi fa in una Canzonetta, fatta in onore della Bolognese Filosofessa, non sarebb’egli un geroglifico della Cina? Almeno egli lo è per me e per molti altri ancora, a’ quali ne ho dimandato indarno la spiegazione. Voi volete dire, ripigliai io:


O dell’aurata
Luce settemplice
I varioardenti, e misti almi color.


Se voi sapeste la forza di questi aggiunti, voi vi vedreste un quadro Newtoniano un po’ troppo filosofico forsè per la Poesia, ma infine un quadro Newtoniano in luogo d’un geroglifico della Cina. Come? diss’ella interrompendomi e in atto di maravigliarsi, voi sapete questo passo così bene, come se e’ fosse d’un Inglese. Io credo, rispos’io, o Madama, che un passo d’un Italiano, e che â di voi una stima infinita, vaglia bene un passo d’uno sventurato Inglese nato mille miglia lontano dal vostro Cielo. Io v’intendo, soggiuns’ella, io non potrei desiderare un miglior comentatore di voi, s’egli è vero, che nessuno meglio intende la mente d’un autore dell’autor medesimo. Or via dunque Signor Autore liberatemi dalla pena, che mi dà quel settemplice, e tutto il resto del vostro quadro Newtoniano, che fa ben credere, che avendo voi lodato in questa Canzonetta una Donna, abbiate in ogni modo procurato di non essere inteso dalle Donne. Egli è stato, diss’io, quella stima infinita di voi, che senza dubbio â fatto l’agnizione. Indi riflettendo io ch’egli era impossibile di dichiararle in poche parole una cosa, di cui ella non avea la menoma idea, siccome era l’Ottica del Signor Newton, a cui quei versi fanno allusione; non sarebb’egli meglio, soggiuns’io, o Madama, di farla alla maniera del Teatro, in cui si suole per lo più finirla coll’agnizione? Senza che noi dobbiam pur terminar la Canzone del Signor Pope, che vi darà certamente più piacere di qualunque comento sulla mia. No no, soggiuns’ella, questa la termineremo poi, e questa volta noi la faremo al rovescio del Teatro; se non che noi non ci scorderemo della catastrofe: ed io mi ritrovo pure essere nella medesima ignoranza di prima.

Io volendo pur darle qualche idea del Sistema, a cui i versi alludono, e stimando per altro che la Marchesa volesse essere una volta come le altre, che si fan sovente un impegno di mostrar d’aver compreso ciò, cui non sono ne men tenute di aver immaginato, le dissi il più brevemente ch’io seppi, che qualunque raggio di luce secondo l’opinion del Signor Newton, o più tosto secondo ciò che è, è composto d’infiniti altri raggi, de’ quali alcuni sono rossi, alcuni aranci, altri gialli, altri verdi, altri azzurri, altri indachi, ed infine altri violetti; e da questi sette colori mescolati insieme, com’essi sono, in un raggio diretto del Sole, ne risulta il color bianco o più tosto aureo della luce. Che se questo raggio diretto di Sole è rifratto da un certo vetro, che si chiama Prisma, sendo che i raggi diversamente colorati, ond’esso è composto, sono altresì diversamente rifrangibili — . La Marchesa, ben lungi da quel ch’io credeva, io veggio, disse interrompendomi, che questo vostro Comento â più bisogno di comento egli, che non avea per avventura il Testo medesimo; e la colpa è pur mia, cui dan pena quella rifrazione, diversamente rifrangibili, e tali altre cose, che spargon d’oscurità le idee, che io m’avea cominciato a formare. Ma voi fate, vi prego, che io non debba più da ora innanzi accusar voi d’oscurità, nè me della colpa della oscurità vostra.

Voi non siete contenta, replicai io, se non avete per lo meno un comento così lungo, come è quello della Muffa nel Malmantile, che io vi diceva l’altro giorno parer dettato dal piacevol Matanasio, in cui trovaron già i Comentatori il lor Moliere. Almeno, diss’ella, il Newton entrerà più a proposito in questo, che non fa in quello il Micheli, le cui scoperte non doveano certamente servire ad illustrar la Muffa di quel Poema. E poi, soggiuns’ella, voi dicevate tutte quelle vostre cose con una certa serietà e franchezza, non dubitando di dire secondo l’opinione del Signor Newton, o più tosto secondo ciò che è, che mi avete fatto nascere un grandissimo desiderio di divenir Newtoniana. Ecco la maniera, soggiuns’io, di propagare ben presto e di metter alla moda il Newtonianismo. Il Pemberton, lo sGravesande, il Dunch, e tanti altri zelanti propagatori di questo Sistema potrebbono intorno a ciò rimettersi a voi. Ma che dirà egli il Signor Pope (mostrandole il libro che io teneva ancora in mano) d’esser così da voi lasciato sul bel principio di una Canzone per una voglia, che v’è venuta, non so perchè, di luce e di colori? Egli non si potrà dolere, rispos’ella, d’esser posposto ad un Filosofo e Filosofo qual è il Signor Newton, e che è finalmente di sua nazione. Non sapete voi, rispos’io sorridendo, che i Poeti si credon sacri, e quando l’estro monta loro al capo, e’ non badan nè a nazion, nè a famiglia, e si stiman più di qualunque Filosofo, avesse ben egli trovato in che cosa consiste l’unione tra l’anima e il corpo? Ringraziamo Iddio, diss’ella, che i Poeti ne’ libri son più discreti.

Io ebbi un bel dire, e un bel servirmi de’ luoghi della insufficienza e della incapacità, che non si sogliono ommettere in sì fatti casi, e che da se stessi in questo s’offrivano a me. La Marchesa volea pure ch’io le facessi vedere, com’ella diceva, il mio quadro Newtoniano. Io la pregai almeno d’aspettar fino alla sera, dicendole che la notte da un tempo in quà era consecrata alle materie scientifiche; che così pure avea adoperato il più gentil Filosofo della Francia in una congiuntura somigliante alla mia, e ormai non si facea più scrupolo di parlar di Filosofia a una bella Dama alle cinque ore di notte in un boschetto. Tanto meno, ella mi rispose, che se ne dovea far il giorno, il qual per altro par più acconcio che la notte a parlar di luce e di colori; e soggiunse con quel tuono di autorità, che rende la legge amabile, e dolce l’ubbidire:

    Queste selve oggi ragionar di Luce
    S’udranno in nova guisa.


Cosi fu d’uopo in ogni maniera cominciare: ma il maggior imbarazzo era d’onde, non avendo ella, si può dire, la menoma tintura di Fisica, di cui era pur bisogno darle una idea generale prima di parlarle della luce e del sistema Newtoniano. In fine dopo averle un’altra volta ma in darno ricordato il Signor Pope, e qualche altra cosa anche di minor’ applicazione e di maggior piacere, entrati che fummo in casa per l’ardor del Sole, che già presso al meriggio ascendeva, io incominciai in questa maniera.

Egli è naturale, che dachè la Società fu assai bene stabilita tra gli uomini perchè vi fossero tra di loro degli oziosi; il che io riguardo come l’Epoca della sua perfezione, questi tra per la curiosità, che naturalmente abbiamo anche delle cose, che ci appartengono meno, e forse per la paura d’esser chiamati dagli altri oziosi, si mettessero a considerare la varietà delle cose, che compongono questo Universo, le loro differenze e i lor effetti. Egli è naturale altresì che una delle prime considerazioni di questi oziosi, che si fecero chiamar dopoi Filofosi, forse intorno alla Luce, che è certamente la più bella e la cospicua cosa che veggiamo, anzi quella per cui veggiamo tutte le altre cose, e per conseguente intorno a’ colori da essa luce sugli oggetti dipinti, e che spargono di tanta varietà e di tanto diletto questo nostro Mondo. Così io credo, che l’Ottica, che è quella parte di Fisica, che appartiene alla luce e ai colori, e generalmente tutta la Fisica sia nata tra gli uomini insieme coll’ozio, posteriore in vero a qualche sorta di Morale e di Geometria, necessarie di buon’ora agli uomini per li più stringenti bisogni loro, contemporanea, se volete, alla Poesia, e anteriore alla Metafisica, per cui vi voleva ancora maggior ozio.

Piacemi, disse la Marchesa, che la Poesia e la Fisica abbiano un’Epoca comune, che in tal modo questo passaggio, che noi abbiam fatto per cagion mia dall’una all’altra, non parrà per avventura nè meno a voi così strano. Fu ben più strano, soggiuns’io, il passaggio, che fecero sul bel principio i nostri Filosofi da una leggiera cognizion delle cose al volerne spiegar la natura ed indovinar gli effetti; il che si chiama far de’ sistemi in Filosofia. Egli è comi se alcuno, dopo aver parlato una volta o due del buono, o mal tempo con un profondo Ministro di stato, volesse farne il carattere, e pretendesse averne penetrato i più cupi misterj. Bisognava cominciare da un attento esame delle cose per via di replicate osservazioni e di diligenti sperienze prima di avventurare il menomo sistema; fare, s’era possibile, come quegli antichi Filosofi, de’ quali l’uno per iscrivere della natura delle Api si ritirò ne’ boschi per meglio considerarle, l’altro le osservò per lo spazio di sessanta anni. Ma il male si è, che le osservazioni e le sperienze vogliono, come vedete, pazienza e tempo, e molte volte le più utili tra loro e le più belle, egli è il caso, che le fa nascere: e d’altra parte gli uomini an fretta di sapere, o di mostrare almeno di sapere.

Le rivoluzioni poi degli stati, la ferocia de’ popoli, il carattere delle nazioni, e la profession di coloro, presso a’ quali fiorì ne’ passati tempi la Filosofia, ne ritardarono non poco i progressi. Dalla Tradizione Indiana, che fra i loro Sacerdoti con egual gelosia, che la purità della lor razza conservavasi, e da’ Tempi degli Egizi, dove fra misteri e geroglifici lunga pezza era stata nascosa, a’ Portici & a’ Giardini passò della Grecia, dove da allegorie e da favole, e da tutti i fiori dell’Eloquenza fu ben presto adornata e guasta. Poco profonde radici adunque le lasciò porre in questo suolo l’immaginazione, carattere dominante del Clima; e queste ancora tentò estirparle la gravità da certo tepore, anima della persuasione, condita in un’uomo riputato dall'Oracolo il più saggio di tutti i mortali, che ciò, che è sopra di noi, a noi non appartenere predicava, che dalle naturali cose, alle umane richiamar voleva la curiosità, e lo studio, dalle grandi combinazioni dell’Universo, al picciol Caos delle stravaganze di questo Globo, dal rapimento con cui ci trasporta la considerazione de’ vasti, e remoti oggetti, al tristo rifletter sopra il voto di noi medesimi. E quest’uomo, che più funesto di Pandora rivolse il genere umano a considerare senza speranza di guarigione i mali, che dal suo fatal vaso erano in folla usciti, fu venerato come Padre d’una nuova Filosofia, chiamata Morale, la più trattata di tutte, e la meno intesa.

Colle delizie poi, colle frutta, e colla corruzion dell’Asia tragittata di mano in mano la Filosofia in Roma, poco felicemente potè allignare in mezzo ad un popolo, le cui arti erano di perdonare a’ soggetti, e debellare i superbi. Ne’ primi secoli della Cristianità ella porse l'armi per combattere il Paganesimo, e distrutto questo, tante guerre civili e tante dissensioni suscitò fra coloro, che con essa avean trionfato di Giove e dell’Olimpo, che videsi quasi all’uscir del porto vicina a perire la Navicella. A questa fatal guerra di parole si aggiunse quella, che all’Impero Romano e alle Lettere mossero i Barbari, e che l’uno distrusse, e oppresse l’altre, finchè nella profonda notte che seguì da poi riaccesesi tra gli Arabi alcune scintiile dell’antico sapere, la dottrina d’Aristotele risorse, che per l’Oriente sparsa fu poi da’ Monaci volontieri abbracciata, come quella che al genere della loro vita era di tutte la più confacente. Quanta fatica e quanto studio nella buona Filosofia, alla cui formazione non men che a quella d’una di queste vostre stoffe migliaja di viventi e di mani concorrer debbono! Laddove quella loro, in cui il nome di Aristotele di ragion serviva, non disturbava gran fatto la Monastica quiete. Questo Filosofo cacciato già da Atene dagli antichi Sacerdoti, fu di buona voglia adunque, con qualche varietà però di fortuna, accolto da’ nostri, che se talora come pernicioso Autore il condannarono, giunsero però altre volte per fino a crederlo non ignaro di cose, a cui non è lecito all’umana ragion di poggiare. S’innestò allora più che mai colla Religion la Filosofia; la qual cosa (poichè la loro indole, e il loro fine differentissimi sono) non potè produrre che somma confusion nell’una, ed ignoranza nell’altra.

Un Caos di vane quistioni, ed inutili, una filza di inintelligibili definizioni, un cieco ardor per la contesa, ed una più cieca divozione verso Aristotele, che assolutamente il Filosofo, o una seconda Natura chiamavano, e sopra tutto un certo linguaggio di termini vaghi, oscuri, e difficili a proferirsi, o voti d’idee, o pieni di confusione, inondò a guisa di sterminatore diluvio la faccia della Terra, ed usurpò per molti secoli il fastoso nome di Scienza; così che siccome tra i Cinesi è stimato più dotto colui, che sa leggere, e scrivere più parole, o cifere degli altri: così tra noi era stimato più dotto chi sendo vestito d’un certo abito, sapea proferire in certi luoghi, e con certi gesti, e mostrava d’intendere un maggior numero di termini di quel loro vano e pedantesco gergo. Chi avesse scartabellato un poco i loro repertorj potea preveder le lor diatinzioni e le lor risposte; come si preveggono i passaggj de’ musici dozzinali, e le rime de’ cattivi poeti. Tali erano i veli, co’ quali nascondevano alla faccia del Mondo quell’ignoranza, che non doveano ben sovente poter nascondere a se stessi. L’orgoglio delle Scuole si sosteneva collo strepito di vane parole, e colla tirannia de’ nomi. Si credeva che realmente combattessero, ma vecchi fanciulli non combattevano in fatti che con bolle d’aria.

Questa ostinata venerazione adunque verso gli Antichi, che per lungo tempo passò tra Filosofi, come un eredità di generazione in generazione, fece, che fino al passato secolo poco o nulla si avanzò nella cognizion della Fisica. Finalmente, oltre ad alcuni altri pochi, che dovevano essere come i martiri della ragione, si trovò in Toscana un uomo assai ardito, nomato Galileo, il qual prese non che a dire, ma quel che è peggio, a dimostrare con evidenza ad uomini, che contar potean per avventura sessanta anni di dottorato, o di cattedra in Filosofia, che aveano imparato con infinito studio per tutta la vita loro a non saper nulla: e questo suo ardire gli costò per altro ben caro, allorchè far’ uso della sua ragione lo stesso era, che rinfacciare agli uomini il generale abuso che ne faceano, e il promover le scienze egualmente era pericoloso, che il voler cangiare i Termini del Pomerio dell’antica Roma, alla conservazione de’ quali religiosamente dagli Auguri si vegliava. Egli mostrò loro dopo tanti secoli ciò, che far doveasi da principio, e cominciò a ricercar la Natura colle osservazioni e colle sperienze, riducendosi a quella ignoranza, che è utile per alcuna cosa in fine sapere.

Io chiamerei volentieri quest’Uomo il Czar Pietro il Grande della Fisica. Tutti e due ebbero che fare con gente appresso a poco del medesimo carattere. Nessun popolo fece mai tanti sforzi per sapere, quanti per non saper mai nulla ne fecero i Moscoviti. Eglino proibivano a’ forestieri di entrare nel loro paese, e a’ sudditi di uscirne, temendo non vi s’introducesse qualche cosa di nuovo. Così a un di presso faceano questi Filosofi, i quali gelosi de’ loro testi, rinunziavan più tosto a qualunque sperienza, e più certa dimostrazion de’ Moderni, che introdurre qualche novità o riforma ne’ loro sistemi. Ma perchè la forza suol sempre più valere appresso gli uomini della ragione, il Czar Pietro venne più presto a capo delle sue intraprese, che non fece il Galileo, il quale fu nel medesimo tempo attraversato da un’altra specie di Filosofi tanto più formidabili, quanto ch’erano anch’essi disprezzatori degli Antichi, il che cominciava già a venire alla moda, che all’opposto di questi dicean cose, delle quali ognuno se ne facea un’idea chiara e distinta, che precisione, & ordine introdussero nello scrivere, tanto meno allora comuni, quanto più son naturali e necessarj, e che con certi moti e con certe figure solamente, ch’essi sapean dare a tempo e secondo le occorrenze a’ corpi, vi promettean di spiegare ciò, che parea più inesplicabile nella Natura. Voi vedete bene, che il lusingar che facean costoro colle magnifiche lor promesse l’ambizione umana, laddove quell’altro colle sue osservazioni l’umiliava più tosto, e una certa simplicità, che dà tanto mirabile a’ loro sistemi, quanto ne dia al più ben tessuto Romanzo, dovea sedur molta gente, e far setta. E così appunto non lasciò d’avvenire, tal che questi Moderni cominciarono essi pure ad avere Espositori, e seguaci così intestati e zelanti, come lo erano stati altra volta quelli degli antichi; i quali maggiore argomento di risa davano di se, mentre dello stesso vizio si beffavano in altrui. Ma era poi miserabile di vedere, che si presentava talvolta una sperienza, di cui non si aveva notizia, o a cui non si era pensato: e i più belli e i più artificiosi sistemi, che avean forse costato de’ mesi di travaglio e di meditazione, cadevano vergognosamente a terra.

      Chi, benchè dell’Inglese, o Greca Scuola
          Di tai vicende ragionando, il pianto
          Frenar potria?

Per non dar più luogo a riflessioni così patetiche bisognerà dunque, disse la Marchesa, prima di concertare un sistema in qualsisia cosa, avere esattamente osservato tutto ciò, che in quella tal cosa è osservabile, per non esporlo in tal modo alla mercè, ed agl’insulti delle sperienze. Ecco appunto, rispos’io, ciò che dicono i Newtoniani; e bisogna certamente che voi abbiate, o Madama, qualche secreta intelligenza con esso loro, per essere così ben informata, come voi siete, di ciò che e’ pensano. Egli saria ridicolo, che un Macchinista si volesse metter in capo d’indovinare come è fatto il di dentro del famoso Orologio di Argentina, quando non s’informasse prima esattamente di tutto ciò, che e’ mostra, della maniera ond’egli suona, e di quelle tante cose ch’egli fa oltre il sonar l’ora. Cosi s’egli è mai sperabile, dicon essi, di far sistemi, che abbian qualche apparenza di dover esser durevoli, egli sarà solo allora che noi per via di osservazioni e di sperienze sapremo tutto ciò, che ne’ termini dell’arte si chiama Fenomeno, e che vuol dire apparenza delle cose, e le leggi, che da essi Fenomeni si ricavano, e secondo le quali la Natura opera costantemente. Per la qual cosa come potea egli mai, a cagion d’esempio, il Descartes Autore principalmente di questa intraprendente Setta di Filosofi fare un sistema ragionevole intorno alla Luce e a’ colori, ignorando affatto tante belle loro proprietà discoperte poscia dal Newton per via di osservazione? Come potea egli lavorar la statua non avendo per così dire il marmo? Eccovi adunque ciò che fanno i migliori Filosofi del nostro tempo, e quelle dotte Compagnie fondate e mantenute dalla munificenza de’ Sovrani, o dal genio delle Nazioni, di osservare cioè, ed in tal modo preparare alla posterità con che forse fabbricar sistemi, che sieno più fortunati, se non altro nella durata, di que’, che abbiam veduto nascere fino a’ nostri dì. E questa professione non è molto fastosa, se vi piace, com’è quella di coloro, che in un batter d’occhio, si può dire, vi fabbricano il Mondo; ma in contraccambio mantiene ciò, ch’ella promette. Del che si dee tener obbligo a un Filosofo nè più nè meno che alla sua Dama.

Io vi confesso però, riprese a dir la Marchesa, che io, che son Donna, amo coloro, che intraprendono cose grandi e difficili. Non è egli appunto per questo, che noi prendiamo tanta parte nelle avventure degli Eroi? L’ardire di questi Eroi della Filosofia â qualche cosa di aublime e di superiore. Se non attengono in tutto ciò che promettono, non debbon’eglino anch’essi risentirsi dell’umanità? D’altra parte quando mai gli avremo noi questi buoni sistemi, se si dee aspettar prima a saper tutti i fenomeni, come voi dite? Eglino saranno almeno così rari tra noi, come i giuochi Secolari altra volta fra i Romani; Ed io non posso lusingarmi di viver tanto da vederne uno a’ giorni miei. Farà dunque mestieri, che io mi contenti di quelli che abbiamo, quali essisi sieno. Io credo, rispos’io, o Madama, che nessuno abbia avuto mai più speciose ragioni di voi per sentir follìe. Bisognerà pur dunque che queste vostre ragioni vi vagliano. Ma perchè io voglio esser più discreto con voi di quello che voi siate per avventura con me, volendo voi che noi perdiamo a ragionare quel tempo, che meglio a godere spenderebbesi; io non mi servirò del diritto, che mi darebbon’esse verso di voi per proporvi così a sangue freddo, se la Luce sia sostanza o accidente, o l’atto del pellucido in quanto egli è pellucido; se i colori sieno la prima figurazione della materia, o una certa fiammella, che sorge da’ corpi, le cui parti sono proporzionate alla vista. Potrei ancora gravemente proporvi, acciocche veggiate quante cose io voglio risparmiarvi a un tratto, se la Luce o il suo spirito sia l’Anima, che mette Platone a collegare il Mondo sensibile coll’intelligibile tra le Idee e la Natura; e se perciò dia esso all’elemento del fuoco, seggio della Luce, la figura di piramide, che in certo modo conviene con quel sublime triangolo tanto misterioso, che è il simbolo di quell’Anima. Vani enigmi della dotta ignoranza di molti secoli. E chi sa, se con altri che meco ve la potreste passare senza qualche Gotico pezzo di Dante, che in mezzo alla nostra ammirazione ci faria sbadigliare, e senza essere con quella Luce condotta a poco a poco in Teologia, o almeno senza la spiegazione del senso mistico della favola di Prometeo, che rubò la luce al Sole per animar la sua statua.

Secondo che io vedo, disse la Marchesa, e’ bisogna andar cauto co’ Filosofi, che sanno coglier vantaggio d’ogni cosa. Voi fate come i Tiranni, che contano fare altrui un gran benefizio, quando non gli an fatto male. Ma io vi son ben tenuta, che mi vogliate risparmiar tutte queste belle cose, nelle quali io confesso di nulla intendere.

Vediamo un poco, ripigliai io, se voi meglio intenderete ciò, che dissero alcuni più screti e più umani degli altri tra gli Antichi, i quali si forzarono di spiegar ogni cosa col voto e col movimento e colla figura di certi minimi corpicciuoli che chiamaron Atomi, ond’essi diedero alla loro Scuola il nome d’Atomisti, la più antica forse di tutte, e che tentò di novellamente al lume dell’eloquenza risorgere sulle rovine dell’Aristotelica, e in opposizione alla Cartesiana. Costoro dissero la luce, a cagion d’esempio, del Sole altro non essere che una perenne, e copiosa corrente di picciolissime particelle o atomi, che da esso Sole scaturiscono, e con una incredibile velocità si spargono per ogni verso, riempiendo tutti i vasti ed immensi tratti del Cielo; cosicchè il lume sia sempre seguito da un nuovo lume, e un raggio sia come spinto da un nuovo raggio. Ciò potrete agevolmente intendere colla similitudine di un fonte — Questo intendo io benissimo, rispose la Marchesa interrompendomi, senza il fonte: ma io temo forte, non questi vostri Atomisti, col far continuamente uscir tante particelle dal Sole, ci facciano alla fine un bel mezzodì restare al bujo. Certamente, ripigliai io, questa sarebbe una brutta burla, che e’ ci farebbono, nella quale non vi saria che alcune belle, che per avventura guadagnassero, le quali sarebbon sempre viste a lume di candela. Ma non dubitate. I cangiamenti di questa importanza vogliono più tempo assai che il cangiamento di una Monarchia: e poi questi Atomisti ci assicurano in modo, che e’ saria quasi vergogna il temere. Primieramente, dicon’essi, la tenuità e picciolezza incredibile delle particelle, ch’escon dal Sole, il qual Sole ve lo faranno d’una materia così densa e stretta insieme come vorrete più, non dee produrre in esso anche in lunghissimo tempo che una picciolissima diminuzione. E questo si potria confermare, per assicurarvi maggiormente, coll’esempio di un picciol granello di colore, il qual bastante è a tingere una grandissima quantità di acqua, acciocchè vedeste a qual sottigliezza si possan ridurre le parti della materia, coll’esempio de’ corpi odorosi, come d’un grano di muschio, da cui benchè continuamente esca una quantità prodigiosa di particelle, che ne fan sentir quel forte & acuto odore valevole a privar di moto in certa distanza, e addormentar serpenti d’una mostruosa grandezza; egli però non perde anco in un tempo considerabile che pochissimo del suo peso. E una pastiglia ambrata, uno de’ piaceri di quelle Dame, cui la Natura diè il naso per odorare, non perde in processo di tempo quasi nulla del suo delizioso odore. Dal passar poi che fa il lume attraverso i corpi più densi, come sono il diamante, e l’oro, quando egli è ridotto in sottili lame, non si può dedurre che una grandissima ed incredibil sottigliezza nelle particelle della luce. Tutto va bene, replicò la Marchesa, ma quell’uscir continuamente dal Sole tanta luce, quanta ne bisogna per riempire ed illuminar tutto questo Mondo, mi fa, vi confesso, malgrado il vostro muschio, il vostro diamante, e le vostre pastiglie ancor paura.

Non inclinereste già voi, replicai io, alla dotta maninconia degli abitatori dell’Isola volante del Dottor Swift, il quale nelle più poetiche allegorie del Mondo ci â dato la più filosofica satira della Natura umana? Questa sua Isola, detta nel linguaggio del Paese Laputa, siccome differente ella è da quante sono state fin ora da’ nostri Viaggiatori scoperte, così pure da una specie singolare d’uomini ella è abitata. Raccolti mai sempre in se stessi, e immersi nelle più cupe meditazioni non respirano che tristezza e Matematica, ed an bisogno d’aver sempre allato un destatore, che con una vescica percuotendoli, a questa vita di tratto in tratto li richiami. La scienza loro li riempie di spasimi e di paure, dalle quali è libero il volgo mercè la sua felice ignoranza. Temono che una Cometa, che si avvicini un po’ troppo alla Terra, non ci riduca in un pugno di cenere: che il Sole un giorno o l’altro non c’inghiottisca, o che esaurendosi alla fine quella immensa miniera di luce e di calore, non restiamo inviluppati ed immersi in una profonda, ed eterna notte. Non si direbbe egli, o Madama, sentir voi un poco ne’ vostri timori della Scuola Lapuziana? Per lo Destatore, rispos’ella, sopra tutto allora che farò con voi; io non ne sentirò nè poco, nè molto. Ma la terribil minaccia d’una notte eterna non vi par egli forse che meriti un po’ di timore? E non dovreste voi anzi sapermi buon grado, che io prenda tanta parte nella Luce, che è pure il vostro Eroe? Egli saria vergognoso, che io m’impegnassi più per essa, e l’amassi meglio che non fate per avventura voi stesso. Vedete, o Madama, soggiuns’io, se cotesti Atomisti an pensato a’ vostri amori, ed alla vostra quiete. Vi troveranno così su due piedi di che reclutare il Sole con quella facilità, che dee avere un Filosofo, che fa servir la Natura a’ suoi bisogni. Vi faranno scorrer continuamente dentro, per riparar le perdite sue, i semi del calore e della luce, che sono sparsi per l’Universo. Vi metteranno intorno qualche cosa, con cui egli si vada nutrendo, e ristorando nella guisa, che l’oglio, od altra materia nudrisce una lucerna. Chiameremo in soccorso qualche sistema, che ci presterà delle Comete, che vi caderan dentro di tempo in tempo per rannimarlo; e se questo non bastasse, ci raccomanderemo a qualche Filosofo, che trovi il modo di farvi cadere ancora qualche Stella. E se non vi confidaste ne’ Mondani Sistemi, ricorreremo al Celeste rivelato nel Milton da un Angelo ad Adamo, il quale ci assicura, che il Sole trae il suo alimento dalle umide esalazioni, e che ogni sera regolarmente cena coll’Oceano. Ne volete voi di più? No no, diss’ella, la metà di queste cose basterebbe a rassicurare un Lapuziano stesso: ed io spero, che non bisognerà per questa volta incomodar Filosofo alcuno, non che qualche Essere superiore.

Io desidero, replicai io, che le vostre paure non oltrepassin mai la Filosofia, e che la vostra bellezza ed il Sole, siccome anno molte altre cose comuni, così pure comune abbiano la durata. Ma grazie a Dio, che se io v’ho proposto un’opinione, che a tutta prima desta alcun timore, ella poi altresì lo fa svanire. Io non so in verità come la fosse stata, vedendovi così disposta a temere per ogni bagatella, se io vi avessi detto ciò, che disse per altro un famoso Antico, il Sole essere uno specchio di una materia al più terso cristallo somigliante, che manda e ribatte a noi la luce, che da tutte le parti dell’Universo va ad unirsi in lui; perchè quale speranza di trovare lassù acquavite, o altra simil cosa per ripulir questo specchio, se e’ mai venisse ad appannarsi? Che colui, rispose la Marchesa, che â fatto del Sole uno specchio, pensi a ripulirselo, quando ne avrà mestieri. Io amo meglio figurarmelo come l’anima del Mondo, e la sorgente lui stesso della Luce. Aggiungete ancora, soggiuns’io, de’ colori, poichè senza la luce eglino svanicono affatto, e non son più. Dite più tosto, replicò la Marchesa, che non son più veduti. Mi vorreste voi persuadere, che un’ora dopo il tramontar del Sole i colori di questo quadro non son più? Io vorrei ben vedere che mi diceste, che il quadro egli stesso non è più per la ragione, che non è più veduto. Il quadro, rispos’io, e la tela resta, e sopra di essa alcune disposizioni nella figura, e tessitura degli atomi, onde son composte le terre, che servono alla pittura: e queste disposizioni all’arrivo della luce vi faranno apparire sopra la tela de’ colori, delle mezzetinte, de’ chiariscuri, comandar, o pregar due begli occhi, fuggire un colonnato, verdeggiare un prato, o rosseggiare un’Aurora. Nelle tenebre, tutte queste cose non son più come quelle, che sono il risultato di queste disposizioni e della Luce combinate insieme. Oltre che potrei citarvi l’autorità di Virgilio che dice, che la nera Notte spoglia gli oggetti de’ lor colori; il Poeta Lucrezio, che ci â dato in gentilissimi versi un corpo di questa Filosofia degli atomi, questo Poeta Filosofo ci fa temere una terribile conseguenza, se ci avvisassimo mai di suppore i corpi, e i loro principj colorati:


     — — — — — — Attribuir non devi,


ci dice egli,

     Colori a’ semi, acciò per se non torni
     Il tutto in tutto finalmente al nulla.


Voi mi date, disse la Marchesa, conseguenze e versi, ed io ho bisogno di avere in vece rischiaramenti e spiegazioni. Il Descartes, rispos’io, ve le darà abbondantemente; egli che è entrato su questo soggetto in molto più ampia discussione, che non â fatto Lucrezio. I suoi principj ne son differenti: ma in questo punto egli si accorda cogli Atomisti. Del resto voi volete de’ sistemi, e bisogna contentarvi. Voi vedrete ciò, che l’immaginazione â prodotto di più ardito, e che â sedotto per alcun tempo coloro, che si fregian del bel nome d’Indagatori della Verità. L’illusione alla fine è svanita, i Filosofi son divenuti più cauti, e più difficili; e si fanno l'uno all’altro il processo con assai più rigore, che non facevano gli Egizj a’ loro morti per l’onor della Tomba. Or via, disse la Marchesa, ditemi che cos’è questo Sistema del Descartes, che io non sarò poi tanto difficile, quando e’ sia per piacermi così, come voi mi fate sperare. Egli sarà gran peccato, rispos’io, se non si potrà da quì innanzi proporvi ogni cosa sotto la forma di un Sistema di Filosofia.

Immaginatevi tutta la materia, della quale tutto questo Mondo è composto, divisa da principio in particelle della figura appresso a poco d’un dado picciolissime, ed eguali tra loro. Di queste particelle immaginatevi che altre girino intorno ad un punto, ed altre intorno ad un altro, e nello stesso tempo girino tutte intorno a se medesime, come una ruota, che nell’avanzarsi ch’ella fa verso una qualche parte, fa molte rivoluzioni intorno a se medesima. Questi punti, intorno a’ quali queste particelle girano, sono le Stelle; punti, come vedete, i più luminosi, e più splendidi dell’Universo, e i quali vi agevoleranno a figurarvelo tutto ripieno di Vortici, che questo è il nome, che si dà ad una massa di materia, che giri intorno ad un punto o centro comune; siccome più volte avrete veduto far l’acqua ne’ fiumi, o la polvere che si alza da terra, quando ella è agitata dal vento. Io credo, che voi vorrete esser assai discreta per accordar sulla mia parola il suo Vortice anco al Sole, che non la cede in conto niuno a qualsivoglia Stella. Anzi, disse la Marchesa, io gli accorderò, se volete, il più grande e il più bel vortice del Mondo: che parmi bene, ch’egli sel meriti, egli a cui noi abbiam tante obbligazioni. La Filosofia, rispos’io, è più indifferente. Ella non â niente più di parzialità pel Sole, che per la più picciola Stella della via Lattea. Basta bene che voi accordiate al Sole un vortice, qualunque e’ siasi; e voi ne vedrete ben presto nascere esso Sole, il quale così come le Stelle non vi ho fin ora supposto che per agevolarvi l’immaginazione, la luce, i colori, e che so io. In somma egli sarà come un Palazzo incantato, dove voi non avrete che a domandare, e subito vi comparirà ciò, che avrete domandato.

Egli è così poca cosa ciò che io v’accordo, replicò la Marchesa, che parmi di non poter lusingarmi di tanta felicità, quanta voi mi promettete. E' stato detto, rispos’io, i Matematici esser come gli Amanti, i quali per poco che voi loro accordiate da principio, se ne sanno così bene approffittare, che insensibilmente là vi conducono, dove non avreste mai pensato. Ora bisogna che crediate che questo Filosofo, a cui voi concedete così poca cosa, come vi pare, era un grandissimo Matematico. Io m’intendo così poco d’Amore, rispose la Marchesa, come di Matematica, e di Filosofia: Ma non so qual cosa si possa sperar, che producan di ragionevole questi Vortici; che in fine altro non sono che masse di picciolissime particelle, che van girando intorno ad un punto, mentre ciascuna di esse gira intorno a se medesima. Eglino andran girando, e girando, e poc’altro faranno mai, cred’io, di migliore. Chi avrebbe mai creduto, rispos’io, che l’incontrarsi che fa casualmente un Eroe di Romanzo in una Eroina un certo non so che, ch’egli vi vede, dovesse produrre perfino a venti volumi? Una Nazione però delle nostre vicine ne â più riprove forse che non bisogna. E senza incomodar per questo gli Eroi, quel non so che, che tutto il Mondo vede in voi, quali cose non produce egli? — Vediamo per ora, ripigliò la Marchesa, ciò, che produrranno i Vortici del Descartes; che ormai dopo i venti volumi ogni cosa mi comincia a parer possibile.

Quelle particelle adunque, continuai io, della figura d’un dado, che voi cominciate a stimare un poco più, girando, come dicevamo, intorno a se medesime, dovettero urtarsi terribilmente tra loro, e per conseguente rompere vicendevolmente i lor’ angoli o punte, che impedivan loro il poter girar liberamente intorno a se medesime. Voi vedete che levando a un dado gli angoli o le punte, egli si accosta alla figura di una palla; e quanto più si andran levando gli angoli a ciò, che resta del dado successivamente, tanto più egli diverrà a poco a poco una palla. Così appunto dovete credere che succedesse a quelle picciolissime particelle, che della figura d’un dado, ch’ell’erano, col continuo urtarsi tra loro divennero al fine tante picciole palle o globetti. Quella materia poi, che nacque dalla rottura degli angoli di questi dadi, e che si dovette ridurre dagli urti continui ch’ella avea in particelle oltre ogni credere minutissime ed agitatissime, non restò già ella oziosa. Ella dichiarò fin dall’ora la guerra al Voto degli Atomisti, proponendosi di distruggerlo e sterminarlo dall’Universo per tutto ovunque il trovasse. La sua prima impresa fu di riempire que’ piccioli voti, che senza ciò tra i globetti restati sarebbono; i quali benchè si toccasser tutti, non potean però fare a meno di lasciar tra loro a cagion della lor figura. Ma ne sarebbe senza di essa restato un altro molto più considerabile nel centro del Vortice. I globetti si erano ridotti a minor picciolezza di prima, e si erano allontanati egualmente dal centro per una legge, che si trova comunemente esservata da tutti i corpi, che si muovono in giro, di allontanarsi, quanto essi possono il più, da quel punto, intorno a cui girano. Ella dunque corse colà nel mezzo del Vortice a riempirne il centro, e cominciò anch’ella a girare insieme co’ globetti, e ad animare, per così dire, il restante dei Vortice. Questa materia sottilissima, ed agitatissima, e che si chiama la Materia del primo Elemento, o Sottile, non fa niente meno là nel centro de’ Vortici, che le Stelle, e il Sole: così come i globetti, che intorno ad essi girano, e che si chiamano la Materia del secondo Elemento, fanno la materia de’ Cieli, la quale se da una parte in questo sistema â perduto quella trasparenza, e quella solidità adamantina, che la rendea altre volte sì ragguardevole appresso gli Antichi, â però in questo guadagnato, che ella è ciò, in cui la luce consiste, ed io credo che il guadagno sia maggior della perdita.

Come, esclamò la Marchesa, noi siamo di già alla Luce? I vostri eroi da’ venti volumi perdon bene il lor tempo rispetto a noi. Eglino parrebbono, rispos’io, perderlo ben ancor di vantaggio, se voi voleste. Eccovi dunque una Scena, di cui non credo avrete mai all’Opera nè la più bella, nè la più magnifica veduto. Tutto questo Universo, quanto egli è, seminato e pieno di milioni di vortici, che si toccan l’un l’altro, che si equilibran vicendevolmente per via della loro scambievole pressione, di differente grandezza, e di differente figura, benchè si accostin tutti a quella di una palla. Nel mezzo di ciaschedun d’essi è una Stella, ovvero un Sole, cioè a dire, un gran pallone di materia sottile, che fa forza di dilatarsi, e che preme il vortice d’ogni intorno. Questa pressione della materia sottile comunicata alla materia globulosa o del secondo elemento è, giusta l’opinione del Filofofo Francese, la Luce. La differente grandezza della Stella, e molto più la distanza, in cui noi siamo da essa, ci fa parer la sua luce più, o men viva; e quindi è che lo splendor del Sole, nel cui vortice noi siamo,

      — — al suo apparir turba, e scolora
     Le tante Stelle, ond’è l’Olimpo adorno.


Si crede che Sirio benchè in distanza da noi secondo il computo d’un celebre Matematico di più di due milioni di milioni di miglia Inglesi, sia la più vicina Stella, che abbiamo; poichè ella più grande delle altre apparisce, e la sua vivace e brillante luce più che ogn’altra resiste all’abbagliante splendor del Sole.

Voi eccettuate, cred’io, soggiunse la Marchesa, in grazia del vostro Sirio la Stella, che i paesani chiaman la Diana, e i Poeti la Nuncia del nuovo giorno, e a cui essi, nel comparar che fanno le cose terrestri alle celesti, fan quasi il medesimo onore, che all’Aurora. Vedete, rispos’io, voi stessa di non confondere insieme due cose ben differenti, com’è un corpo luminoso per se stesso, e un corpo, che per esserlo â bisogno della luce altrui, un Sole in fine, ed un Pianeta. Egli è vero, che ogni Pianeta come Venere, che nel linguaggio degli Astronomi è la vostra Diana, Mercurio, Marte, Giove, Saturno, e la nostra Terra medesima sono stati in altro tempo tanti Soli, e potrebbon forse (chi sa l’oscuro avvenire?) divenirlo ancora un’altra volta. Io non v’ho per anco parlato d’una certa materia, che si chiama la Materia del terzo Elemento, e che â cagionato le più grandi, e le più strepitose vicende, che sien registrate negli annali di questa Filosofia. Nelle particelle della materia sottile, che compone il Sole, ve n’â talvolta alcune, che per la figura loro ramosa ed irregolare si uniscono, e si avviticchiano insieme, e compongono in tal maniera delle moli assai più vaste talvolta della nostra Terra. Queste moli sono scacciate dal Sole, e rispinte persino alla sua superficie. La pressione che dalla materia sottile si comunica alla globulosa, cioè a dire la luce è interrotta in quella parte della superficie del Sole, dove esse son postate, e quindi elleno ci appajono come macchie nere, che con esso girando ecclissan parte del suo splendore e della sua gloria. L’adulazione forse le fece già malamente prendere ad alcuni Astronomi cortegiani per piccioli Pianeti, che si frappongono tra il Sole e noi, e si servì di costoro per trasportare in Cielo i casati di que’ Principi, da’ quali aspettavan quì in Terra una picciola pensione in contraccambio dell’investitura di migliaja di Pianeti: e la gentilezza Filosofica le trasformò ne’ nei del Sole; se vi piacesse più l’idea, sotto a cui le rappresentò alla Regina di Prussia il famoso Leibnitz, egli che credeva di dovere ammollir la Filosofia per le Regine. La cosa è troppo seria, disse la Marchesa, per rappresentarsele sotto un’idea così piacevole. De’ nei grandi come la Terra ponno fracassare, e mandare in pezzi un viso.

Fin’ora il nostro Sole, continuai io, è stato assai felice per liberarsene. Il moto e l’agitazione, che è nella materia sottile, le tritura, e le dissipa a misura ch’elle si formano. Se ne vide già una, che oscurava la quinta parte del disco Solare; enorme grandezza e spaventosa, che dovette far tremar gli Astronomi, e rattristar tutto il Mondo. Il Sole alla fine se ne disfece, e la vinse: nè v’â nè men per questo da temer per ora d’alcun sinistro accidente. Ma non tutti gli altri Soli ebbero al nascer loro così favorevole la sorte. V’â delle Stelle, che sono considerabilmente sminuite; cosicchè alcuna, ch’era stata dagli Astronomi altre volte posta nel secondo rango, â poi appena meritato d’essere annoverata nel sesto. Bisogna dire che le macchie sien cresciute in processo di tempo, che abbian formato una specie di crosta intorno a quasi tutta la Stella, e conseguentemente ne abbiano infievolito il lume.

All’incontro alcune Stelle, replicò la Marchesa, non potrebbono elleno crescer di rango, se l’agitazione della materia sottile fosse abbastanza forte per dissipare una parte della loro crosta? Voi avete, rispos’io, o Madama tutto lo spirito del Cartesianismo. Questa Setta si fa gloria d’indovinare, e voi avete indovinato bene. Ma qual desolazione per la povera Stella, se la crosta viene a ricoprirla tutta; come pur troppo succede alcuna volta, e che questa crosta tanto vaglia da poter resistere alla forza della materia sottile, che tenta di romperla, e dissiparla? Addio allora il Sole: addio la Stella; ella è decaduta dal bel rango, che tenea nell’Universo. La sua luce è soffocata dalla crosta: e di risplendente e luminosa ch’ella era, ella divien bisognosa di luce e di calore. La forza del suo vortice è notabilmente indebolita, come quella ch’era accresciuta dalla materia sottile, che non â più ora comunicazione alcuna colla globulosa. L’equilibrio è rotto, e per conseguente distrutto il suo vortice. Alcuno de’ vicini seco via la rapisce, e divenuta ora Pianeta, è costretta a girare alla mercè del più potente; Metamorfosi in vero delle più illustri e memorabili, che possano avvenire, e alle quali i nostri metaforici Soli quì in Terra non sono men soggetti, che non avendo più nella loro decadenza di che nutrir quella passione, che lusinga tanto l’orgoglio del bel sesso, e che dovrebbe esser la vostra Filosofia, son rapiti, e divengon schiavi d’un’altra, che per loro consolazione chiaman poi Virtù. I nostri decaduti Soli, rispos’ella, sono almeno più felici in questo, che trovano un bel nome, all’ombra del quale disapprovano altamente ciò, che non ponno più fare, e riacquistano in certa maniera il perduto dominio. Ma qual’è la consolazione d’un povero Sole in Cielo ricoperto di crosta, e divenuto Pianeta? Quella, soggiuns’io, di non aver un dominio odioso e immaginario, dopo di averne perduto un’amabile e reale: quella di non rassomigliare a una vecchia Suocera, dopo di aver rassomigliato a voi.

Questa miserabile metamorfosi di Sole in Pianeta, accompagnata però da qualche consolazione, come vedete, è probabilmente ciò, che è avvenuto a una bella Stella, che abbiamo affatto perduto nella costellazion di Cassiopea, e che sicuramente in questo sistema avvenne alla Terra, la quale Signora altre volte anch’ella d’un ampio vortice, di luce coronata, ed uno de’ risplendenti occhi del Cielo, miseramente perdette, ricoprendosi di sozza crosta, il suo dominio e la sua gloria, e fu dall’immenso vortice del Sole rapita così come da un gorgo di acqua lo è una pagliuzza in un fiume. Nella medesima maniera egli conquistò gli altri Pianeti, che girano intorno a lui, Giove, Saturno, Mercurio, Venere, e Marte, e le Comete ancora, benchè questi sien Pianeti di un genere singolare, che vanno scappando di un vortice in un altro, e che cangiano, come certi popoli quì da noi di tempo in tempo di Paese e di Sovrano. E questi vortici sono la gran macchina inventata principalmente dal Descartes per guidar la danza de’ Pianeti intorno al Sole.

La Terra adunque, riprese a dire dopo un po’ di pausa la Marchesa, è costretta come gli altri Pianeti a danzare anch’essa intorno al Sole? E’ egli questo ciò, che voi mi preparavate colla vostra materia del terzo elemento? Che forse, rispos’io, compiangerete voi nella sua disgrazia la Terra, ella che diventando Pianeta era destinata a produr voi, che vale a dire, la più amabil cosa, che potesser mai produrre tutti i vortici dell’Universo insieme? Non vi par’ella abbastanza ricompensata? Se la Galanteria potesse ricompensarla, rispose la Marchesa, cotesta vostra il farebbe. Ma qual cosa può mai rilevarla dall’onta del dover girar nella folla degli altri Pianeti intorno al Sole, come una pagliuzza rapita da un gorgo d’acqua? Io so bene che voi altri Filosofi riguardate questa Terra con una grande indifferenza, e che non vi costa nulla il farla girare: ma io — — Lasciatela girar per ora, rispos’io interrompendola, sulla parola del Descartes. Noi leggeremo poi, se vorrete convincerne con piacere, i Trattenimenti sulla Pluralità de’ Mondi del Signor di Fontenelle, ne’ quali voi vedrete una Marchesa affatto simile per ogni qualità dello spirito a voi, a cui non avrete che a invidiare il Filosofo. Voi non dovete per ora riguardar la Terra, che come un composto della materia del terzo elemento, che la rende opaca, e che non risplende più per se stessa, e penso che in tal maniera avrete assai d’indifferenza verso lei. Una lucciola, un di que’ vermi che rilucono la sera nella campagna merita ora molto più la vostra attenzione. Tutto ciò, che non è luminoso, è nulla per noi.

Voi avete veduto, continuai io, che cosa è la Luce: voi vedete altresì come il Sole possa continuamente senza dispendio suo supplire a tanta luce, come egli fa; il che vi dava tanta apprensione nel sistema degli Atomisti. Egli non â che a premere la materia globulofa; e il premere non gli costa niente del suo: e poichè egli preme per ogni verso, egli è luminoso d’ogn’intorno. La luce arriva dal Sole a noi, secondo il Descartes, in un istante di tempo malgrado milioni di miglia di distanza. I globetti del secondo elemento sono continuati come in tante filze dal Sole sino alla Terra, e si toccano l’un l’altro. In quell’istante, che il primo della filza si muove, o fa forza di muoversi, dee anche far forza di muoversi l’ultimo non altrimenti che in una verga per lunga ch’ella sia, in quell’istante, in cui si muove una delle sue estremità, si muove anche l'altra.

Che vuol dire, ripigliò la Marchesa, con questi vortici si fa, e si rende ragione d’ogni cosa. Noi abbiam fatto in un batter d’occhio il Sole, le Stelle, i Pianeti, le Comete, la Terra, e la Luce: io m’immagino che faremo anco i colori colla medesima facilità. Niente di più facile, soggiuns’io, al Descartes. Siccome il moto, o la tendenza al moto della materia celeste eccita in noi il sentimento della luce, così la diversità de’ moti di questa materia eccita in noi il sentimento de’ diversi colori; i quali altro non sono, che certe maniere, onde i corpi ricevono la luce e la mandan poscia all’occhio nostro. Queste maniere consistono nell’accrescer, o sminuire ne’ globetti della luce il moto di girare intorno a se stessi, che naturalmente ânno, e che si chiama moto di rotazione. Così quei corpi, le superficie de’ quali son disposte in modo da accrescer notabilmente questo moto di rotazione ne’ globetti di luce, che cadono sopra di essi, e che d’indi son ribalzati all’occhio nostro, ci appajon rossi; quelli, che lo accrescono un po’ meno, ci appajon gialli; quelli poi, che lo sminuiscono notabilmente, ci appajon azzurri, e quelli, che lo sminuiscono in modo, che questi globetti girino poco più lentamente di quel che sogliono, ci appajon verdi. Que’ corpi poi, che ribalzano gran copia di globetti di luce senza alterarne i loro moti, ci appajon bianchi; e neri quelli, che gli estinguono, e come gli assorbiscono dentro di se medesimi. Eccovi i colori. Volete voi qualche altra cosa? Voi sapete bene che non avete che ad aprir bocca. I vortici sono pel Descartes, come l’albero del Coco per gl’Indiani, con cui fanno ogni cosa.

Nò nò, disse la Marchesa, fermiamci per ora su i colori. Io non ho adunque che ad accrescere, o sminuire i moti di rotazione de’ globetti della luce per averli tutti, per variar di leggiadre tinte una francese stoffa, o una vaga indiana tela, per intesser di giacinti, di anemoni e di violette il parterre di un giardino, per diversificare in fine a piacer mio la faccia della Natura? Anzi, soggiuns’io, se quest’accrescere, o sminuire vi dasse qualche pena, non avete che a supporre i globetti della luce privi affitto di qualsisia moto di rotazione, che daremo solamente loro nell’atto del variar la vostra tela o il vostro giardino: in somma nell’esser ribalzati da’ corpi, su cui cadono. Voi non avete che a scegliere ciò, che vi torna più comodo. L’uno e l’altro vi servirà egualmente. Egli pare che il Descartes abbia anche questo di comune co’ Medici, che una sola maniera di far succedere una cosa, non gli par molte volte bastante, ed è sempre indegna della sua feconda immaginazione. Io gli fo buon grado, disse la Marchesa, non ostante la malignità del vostro anche di questa sua abbondanza. Ella non gli mancherà certamente, cred’io, nello spiegar donde viene, che un corpo dia a’ globetti della luce un certo moto di rotazione, e un altro corpo ne dia un altro. V’â, soggiuns’io, di che scegliere anche in questo, o la diversità della figura delle particelle, onde le superficie de’ corpi son composte, o la loro diversa disposizione, l’esser diversamente inclinate le une verso le altre, l’esser più o meno liscie, e mille altre cose, che voi medesima potrete immaginare. In tal maniera non che stoffe o giardini, ma tutta la vaghezza di Paolo, o la morbidezza di Tiziano il facil vostro Filosofo vi compone; e cosi pure quel vostro incarnato v’impasta, cui forse non avria bastato l’animo nè a Tiziano, nè a Paolo d’imitare. Io non credeva, soggiuns’ella, che il colorito delle mie carni dovesse egli pure entrare in questo sistema. Egli entra bene, rispos’io, in altri sistemi, che son più comunemente intesi, e che importano un po’ più de’ sistemi di Filosofia. Ma a questi la spiegazione d’un sì bel fenomeno non può fare che grandissimo onore.

Io vi giuro, ripres’ella a dire, che questa abbondanza di cause, e sopra tutto la gran simplicità, che domina in tutto questo sistema mi rapisce, per tacere delle difficoltà, che sono negli altri, e che questo toglie via. Vorrei io ben vedere un’altra in luogo mio com’ella se ne difendesse. Io intendo troppo bene, rispos’io, il linguaggio delle Donne per non credervi già resa. Voi non avete chiuso abbastanza gli orecchj al canto di questa Filosofica Sirena, ne avete indurato voi stessa a’ vezzi del piacere nel voluttuoso Giardino di questa Cartesiana Armida. Ma voi non vi ricordate di quella fretta, che â prodotto tanti sistemi, che non reggon poi alla flemma degli osservatori, e che voi stessa pur condannavate da principio. Le Ipotesi, o immaginarj Sistemi non ponno alla lunga sostenersi a fronte delle sperienze chiamate con ragione da un grand’Uomo che le esaltò forse più di quel che poi le seguisse, Naturali Rivelazioni. Un mentitore, fosse pur’egli quel cotanto ingegnoso della Commedia di Corneille, è alla fin discoperto. Oh, soggiuns’ella, io non avea idea, che con sì poco, come son particelle che girano, si potesser far tante cose, e mi par bene che in grazia di tutto questo si possa perdonare un po’ di fretta, e lasciar da parte il moralizzare. Io amo infinitamente i Cinesi, perchè mi dicono, ch’essi fanno con pochissimi strumenti ciò, che noi facciamo con molti; e la Musica Francese mi pare tanto più apprezzabile dell’ordinaria nostra, quanto che con alcune semplici e piane note ella giunge, per quel ch’ho udito, ad agitare il cuore e commuover dell’animo gli affetti; laddove la nostra con tutte le sue spezzature, colle sue volate, e co’ suoi trilli ci lascia per lo più nella tranquillità e noja di prima. Coloro, che per ogni picciola cosa mettono in opera gran macchine, mi pajon simili a quei Dittatori, ch’erano talvolta eletti in Roma con ogni solennità, e non lasciavano di eleggere un Maestro dì Cavalleria a solo fine di conficcare un chiodo in Campidoglio. Si potrebbono a questi aggiungere, replicai io, se cercate illustri ridicoli, con che scusarvi, quei Re di Persia, i quali non mangiano, non passeggiano, e non entrano nel Serraglio, se prima un Astrologo dopo molte osservazioni e molti calcoli non gli â assicurati esser quella un’ora felice per intraprendere o l’una, o l’altra di queste imprese. Che se noi fossimo stati in Persia, quanti Astrologhi, quante osservazioni, e quanti calcoli prima di farvi divenir Filosofessa! Il che può essere di qualche maggior conseguenza di una passeggiata del Re. Io temo, rispos’ella, non aspettando l’Astrologo avesse fatti i suoi calcoli, me ne fosse passato la voglia. Ma grazie alla mia buona fortuna, che io son nata in un Paese, in cui se si vuol passeggiare, o discorrer di Filosofia, si passeggia, e si discorre senza incomodar perciò le Stelle, nè il Cielo. Ringraziate più tosto la vostra buona fortuna, rispos’io, d’esser nata in un Paese, in cui al rovescio dell’Oriente le Donne ânno i Serragli di Cicisbei.

Voi mi vorreste, diss’ella, con coteste vostre riflessioni far perder di vista i nostri colori, la varietà de’ quali ora assai più mi diletta per la poca fatica, ch’io duro a produrli. Ma que’ tanti colori, che appariscono quando si guarda attraverso un certo vetro, che io vidi l’anno scorso in una Villa appeso dirimpetto ad una finestra, come li produrremo noi? Vi sarà forse qualche altro moto per produrre que’ colori, che appariscono solamente negli oggetti, allorché si guardano attraverso un di que’ vetri. Voi li produrrete, rispos’io, nella medesima maniera appunto de’ primi. Non avete che a far girare que’ globetti di luce, che passano per quel vetro triangolare, che dicevate, e che si chiama Prisma, secondo le regole che già sapete, e secondo ch’esige la varietà de’ colori, ch’egli fa nascere. E quanto a quella vostra distinzione, che pare abbiate voluto accennare tra i colori, che sono ne’ corpi, e que’ che vi appariscon solamente, ella non vi sarà menata buona dal vostro Descartes, che vuole così come gli Atomisti, se ben vi ricorda, i colori tutti non esser in nessuna maniera ne’ corpi, ma apparirvi solamente. Così tra il rosso per esempio delle vostre guancie e il rosso dell’Iride, o del prisma, non v’â differenza alcuna, se non che per avventura si vorrebbe più volentieri far delle osservazioni su quello, che su questi. Ma in fine e’ sono egualmente apparenti e d’una natura medesima. Che forse credete voi, io le soggiunsi ridendo, che tanti Poeti avrebbon paragonato le Belle all’Iride, se non vi fosse questa somiglianza ne’ loro colori; come fece per esempio uno de’ primi dell’età nostra in questi maestosi versi, parlando d’alcuna, che dovea forse somigliare a voi.

     Tale in somma ne gìa, qual di rubini,
     E d’or ricca, e di gemme, e d’ostro adorna
     Sorger veggiam la mattutina Aurora,
     O qual sul variato, e lucid’arco
     Apparir suol dopo nembosa pioggia
     Di Taumante la Figlia; allorchè i Venti
     Si stan sospesi a vagheggiarla: e intanto
     L’insano Mar depon l’ira, e s’acheta.


Voi vedete bene, che una delle più splendide e pompose comparazioni, che essi abbiano in capitale, peccherebbe troppo essenzialmente.

Seriamente, disse la Marchesa, io ho sempre creduto che quel colore, che io ho nelle guancie, qual’egli siasi, fosse veramente nelle mie guancie, e che i colori nel prisma, e nell’Iride non vi fossero che apparentemente. Spiegatemi di grazia questo paradosso, che per dir il vero m’imbarazza, e fate che il rassomigliarmi all’Iride, per bella ch’ella sia, non mi debba più dar pena. Cotesto si è pur, rispos’io, un ridur le cose al semplice, levando via quella distinzione, che aveavi tra i colori veri, e gli apparenti. Ma il vostro interesse e l’amor proprio, che vi fa temere di non perdere i vostri gigli e le vostre rose, per parlarvi nel nobile stile pastorale, â prevaluto questa volta al vostro amore per la simplicità. Io scommetterei che non in ogni Paese le Dame avrebbono in ciò tanti scrupoli. Ma come che sia, il fatto si è, che voi non potete, salvo l’onor vostro, accettar un sistema, e non volerne poi ammetter le conseguenze. Ne’ corpi altro non v’â, come abbiam detto, che una certa disposizione e tessitura di parti, e ne’ globetti della luce un certo moto di rotazione, che queste parti dan loro; e questi poi solleticando e scuotendo in certa maniera i nervetti della retina, che è una sottilissima membrana o pellicella nel fondo dell’occhio, ci fanno concepire un certo colore, che noi coll’animo al corpo, da cui ci vengono i globetti di luce, riferiamo. Ma mi pare che vengan già avvertire esser tempo, che andiamo a sentire qual sapore noi questa mattina riferiremo coll’animo alla zuppa. Riferiremo coll’animo? ripigliò ella. Io non so se colui, che dopo tre ore si studia a realmente darglielo, si accomoderà cosi facilmente con voi altri Filosofi, che volete ridurre ogni cosa all’apparenza. Io vi prego, rispos’io, a non fargliene far parola, ch’egli non è persona da disgustarsi per così poco, come è un’opinione di Filosofia. Ma bisognerebbe pur alla fine ch’egli stesso avesse pazienza; poichè siccome i colori non son ne’ corpi, così non v’â nè pur il sapore, l’odore, il suono, il calore, il freddo, e ne men la luce medesima in que’, che son luminosi.

Ella volea pure che io le spiegassi distesamente questo paradosso. Ma io l’assicurai che tutte le più belle e le più semplici spiegazioni del Mondo, non avrebbon fatto che ad una zuppa riscaldata si potesse coll’animo riferire un buon sapore. Della qual verità ella in fine restò persuasa: e noi finimmo alla maniera degli antichi Egloghisti, o di Omero, che non si scorda l’ambrosia dopo il concilio degli Dei.

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