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Alberto Cavalletto.
deputato.
Nacque in Padova nel 1815 da famiglia commerciante. Studiò matematiche, e laureato entrò nel corpo degl’ingegneri idraulici e delle pubbliche costruzioni. Ricevette incarichi di pubblici lavori, ed in occasione di minacciose fiumane mostrò scienza, coraggio ed attività tali che valsero a liberare dall’imminente inondazione grosse borgate ed estese campagne; n’ebbe a compenso il plauso e la riconoscenza dei cittadini, elogi ed avanzamenti dal governo.
Attendeva da circa dodici anni assiduamente a tali incarichi e agli studî idraulici, quando scoppiò la rivoluzione del 1848; e i sentimenti di caldissimo amor patrio nudriti dal Cavalletto poterono liberamente erompere ed espandersi. Arringò più volte i suoi concittadini, animandoli a levarsi in armi, e formatisi poi alcuni battaglioni di volontari, si recò con essi contro gli Austriaci a Montebello vicentino, a Vicenza, e finalmente in Venezia, ove il corpo Brenta e Bacchiglione, di cui fu nominato maggiore, prestò valido servizio nella lunga difesa di quella infelice ed eroica città. Fu pure eletto deputato e siedette nel Parlamento veneto.
Caduta Venezia ritornava il Cavalletto in Padova ove si pose ad esercire quale ingegnere civile, rifiutando le offerte di quel Delegato che gli prometteva il posto altra volta occupato nell’ufficio idraulico.
Così viveva nello studio, fidando in tempi migliori per la causa italiana, quando un incaricato del comitato insurrezionale creatosi in Venezia venne a chiedergli l’opera sua nella sognata impresa. Ammirò il Cavalletto l’ardimento e lo scopo, ma non poteva approvare i mezzi, nè aver fiducia nell’esito; e fatte al messo giudiziose considerazioni sull’ordinario fallire delle congiure, lo accomiatò, consigliando la continuazione dell’aperta e generale resistenza, e promettendogli che si sarebbero riveduti.
Molti funesti accidenti ed alcune imprudenze fecero sì che la polizia austriaca venisse in sospetto di qualche trama, e infine avesse una noia dei più compromessi.
Accadevano giornalmente casi di arresto; gli amici di Cavalletto lo scongiuravano ad andarsene; ma egli rispondeva che il fuggire gli repugnava come cosa bassa, e che alla fin fine il suo arresto non poteva recar danno che a lui senza compromettere nessun altro.
In una sera del luglio 1852 (poche ore dopo essere stato chiamato dall’autorità delegatizia a ricevere ringraziamento per la sua coraggiosa ed intelligente direzione, spontaneamente assunta ed usata, ad estinzione d’un vasto incendio) alcuni poliziotti, venuti da Venezia espressamente, invasero la casa del nostro protagonista, e dopo minuziosa perquisizione, il tradussero in carcere. Da Padova a Venezia, da questa fu quindi trasferito in Mantova.
Sono abbastanza noti i processi atroci ed illegali che s’istruivano e si perpetravano sotto orribili forme in quella troppo tristemente celebre fortezza, non che le inique sentenze onde quasi sempre venivano coronati quelli infami giudizî, che di giudizio non aveano che il nome, mentre barbare vendette avrebber piuttosto da appellarsi. Il Cavalletto, dopo essersi veduto tolto da fianco l’amico e compagno di prigionia Speri, che fu condotto al patibolo, fu esso pure condannato a morte; ma tale condanna venne quindi mutata in quella di sedici anni di carcere in fortezza, con ferri.
La sentenza dichiarava — falsità ben nota a chi la emetteva — ch’egli era convinto e confesso d’aver accettato l’incarico di formare in Padova un comitato rivoluzionario.
Trasferito a Josephstadt in Boemia, ad ucciderlo, più che le catene e la dura prigionia, sarebbe bastata la lontananza dalla terra natale, dai parenti, dagli amici, se non l’avesse sostenuto la fede nel migliore avvenire d’Italia, di cui il Piemonte si mostrava zelante ed attivo propugnatore.
Colla parziale amnistia del 1856, concessa a cagion della nascita di prole imperiale, la condanna del Cavalletto venne diminuita di sei anni. L’amnistia generale del 2 dicembre del medesimo anno schiuse le porte della fortezza ai prigionieri politici, e il Cavalletto rientrò in Padova, ove gli amici suoi dovettero interporsi per impedire una popolare ovazione al di lui arrivo — fatto che, non potendo certo aumentare la pubblica stima a suo riguardo, avrebbe avute tristi conseguenze per molti.
Nel gennajo del 1859, essendo ricominciati per parte della polizia austriaca gli arbitrarî arresti politici e figurando tra gli arrestati persone amiche da lungo tempo col Cavalletto, riuscirono questa volta gli a lui devoti a persuaderlo di sottrarsi a nuova prigionia col riparare in Piemonte.
Non tardò molto a scoppiare la guerra di redenzione. I Veneti accorrevano, come ognun sa, numerosi ad arruolarsi sotto la bandiera nazionale, e molti fra essi s’indirizzavano al Cavalletto per consiglio e direzione. Ma fu dopo la pace di Villafranca che la di lui azione assunse una vera importanza.
La popolarità che godeva tra i volontari veneti fu da lui impiegata ad impedire che molti accettassero il congedo, in mal punto offerto dal ministro Lamarmora. I più capaci ed istrutti esortava ad iscriversi nei corsi suppletorî che si aprivano pel completamento dei quadri dell’esercito; a tutti era largo di consigli e di esortazioni, rialzandone gli animi sfiduciati dall’esito incompleto della guerra, e mantenendo viva la fede nell’avvenire della patria.
Prese poi parte principalissima nell’azione politica dell’emigrazione e nella presentazione di varî indirizzi dei Veneti ai membri della diplomazia residenti in Torino.
Convocati quindi gli emigrati per la nomina di un comitato di cinque membri che avesse a rappresentarli e difendere l’interessi della Venezia, il suo nome apparve in tutte le schede. Questo Comitato, composto del commendatore Tecchio, che ne fu nominato presidente, del conte d’Onigo, del deputato Bonollo, dell’avvocato Meneghini e del nostro protagonista, all’azione politica, esercitata mediante regolari comunicazioni mantenute colla Venezia, aggiunse quella di patronato a favore degli emigrati, e ben anche di assistenza verso gli sprovveduti di mezzi di sussistenza, valendosi di fondi, raccolti presso l’emigrazione meno sventurata sotto tale rapporto. E nulla mai chiedendo per sè, ottenne dall’italiano governo collocamento e soccorsi a molti emigrati che veramente meritavano.
Tale opera del comitato veneto, di cui Cavalletto e Meneghini sono i membri più attivi, continua tuttora.
Chi poche volte vide il nostro protagonista o non ebbe che corti colloqui con esso, può difficilmente farsi una giusta idea del suo carattere.
Amante sopratutto della patria, a questa sola dedica ogni suo pensiero, intera l’opera sua, trascurante affatto ogni proprio individuale interesse. Ragiona con logica chiarezza e brevità, insofferente del parlar divagato, prolisso e non serio.
Le sue opinioni politiche possiamo riassumerle cosi: fiducia piena in Vittorio Emmanuele, stima sincera per l’abilità e il patriotismo del conte di Cavour; l’opposizione ei vorrebbe si assumesse la parte di spronare il governo attuale, non di traversargli la strada.
Brusco di modi per ordinario, ma compassionevole e pronto a soccorrere chi soffre, è degno del soprannome che gli dettero alcuni suoi conoscenti di burbero-benefico.
I suoi più intimi, nell’anima dei quali ai vivi sentimenti d’amicizia pel Cavalletto andò sempre congiunto il più profondo rispetto per le sue virtù antiche e per la sua incrollabile fermezza non ismossa mai da persecuzioni o sventure, il paragonano volentieri a Catone.