< Il Parlamento del Regno d'Italia
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Celso Marzucchi Ferdinando Monroy di Pandolfina


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Domenico Monti.


Nacque in Fermo nelle Marche il 21 gennajo 1810 dal conte Arnolfo e da Maria Forte, patrizi di quella città.

Giovinetto, fu mandato in educazione nel collegio di Soglio nell’Umbria, che in quell’epoca per le cure di Vitale Rossi, conosciuto nella repubblica letteraria pei suoi lumi in fatto di pedagogia, godeva meritata rinomanza.

Tornato in patria, dopo aver compiuto il corso di belle lettere, vi conduceva a termine i suoi studi filosofici.

L’amore della libertà e l’odio verso la tirannia erano sentimenti propri della famiglia del Monti; e suo padre, distinto amministratore, che aveva coperto ragguardevoli cariche durante la dominazione francese, gli aveva istillati nel cuore dell’adolescente suo figlio, il quale, quantunque avesse appreso di già, retaggio di chi in quei tempi odiava il mal governo essere il carcere, l’esilio o la morte, come pur troppo gliene era stato esempio il di lui zio Paolo Monti imprigionato a causa della mala riuscita dei movimenti del 1820, pure, penetratissimo della verità e giustizia di quei principi, li volle poi a costante norma del suo pensare e della sua condotta durante tutta la vita.

Il Monti, plaudente ai rivolgimenti del 1831, era troppo giovine, quando scoppiarono nelle Marche, per parteciparvi; ma si affrettò a saluture l’anno 1847 come èra di risurrezione, e prese immediatamente cospicua parte ai movimenti politici di quel tempo. — Amato e stimato dai propri concittadini, valeva a dirigerne la opinione e gli atti; nominato consigliere di presidenza, fu anche eletto tenente-colonnello della guardia nazionale della nativa città.

L’odio dei governanti si rovesciò sul suo capo, sopratutto pei di lui sentimenti di moderazione, in grand’uggia al governo clericale, ed al momento della ristaurazione pontificia, avvenuta nel 1849, fu prima arrestato e deportato nella fortezza d’Ancona, ore rimase non lungo tempo in mano degli Austriaci, che lo trattarono barbaramente; quindi dovette patire per cinque anni penosissima carcerazione, che le cure e l’affetto della contessa Caterina Paccaroni, egregia donna, cui si era unito poco tempo innanzi in matrimonio, gli resero meno dura, facendo si che scorressero meno lunghi ed acerbi quei giunti di dolore.

Il Monti sostenne con dignità e rassegnazione tanta sventura confortandosi anche collo studio e colla speranza di un migliore avvenire. — I molti patimenti tuttavia, e la perdita della madre, pia donna, morta iu quell’epoca di crepacuore, ne alteravano la salute.

Uscito di prigione nell’agosto del 1854, venne sempre perseguitato dalla polizia clericale, che gl’interdisse perfino di recarsi nelle circonvicine città, ove anche ragioni di domestici affari il chiamavano, dimodochè si può dire ei rimanesse tuttora cattivo nella città nativa.

Dovette quindi il Monti ridursi a vita affatto solitaria; ma quando il re Vittorio Emanuele II, inalberando il vessillo della redenzione italiana scese in Lombardia, e riusci coll’ajuto del suo potente alleato di Francia a cacciare lo straniero da quelle contrade, il nostro protagonista non potè frenare la sua gioja, non potè trattenersi dal plaudire al fausto avvenimento.

La polizia clericale fu allora di nuovo sulle sue traccie e imprigionatolo, lo costrinse durante un mese ancora a restare nei di lei ceppi; e diciamo un sol mese, poichè la battaglia di Solferino produsse sovr’essa pure un tale sgomento che non osò insistere, per alcun tempo almeno, nei suoi atti arbitrari — Uscito appena di prigione, il Monti pensò ad espatriare, senonchè le crescenti speranze di redenzione il trattennero; ei riflettè con ragione che in quei momenti in cui il suo paese natale aveva bisogno della cooperazione di tutti i propri figli, onde levarsi di collo il giogo pretesco, mal sarebbe sieduto a lui, uno dei corifei del partito nazionale, di mettersi in salvo e di lasciar nell’impaccio i suoi concittadini. — Eletto, difatti, il Monti presidente del comitato nazionale di Fermo, si diede a tutt’uomo, coadjuvato da vari suoi fidi amici, ad affrettar il sospirato momento di liberazione, col raccogliere e somministrare denaro, coll’inviare volontari all’esercito italiano ecc. ecc.

Finalmente gli fu concesso di far parte colle proprie native provincie di questo sublime fascio che compone l’Italia. Non appena proclamata l’unione delle Marche, il Monti e stato prima presidente della Giunta provvisoria di governo in Fermo, quindi presidente della commissione municipale, e finalmente, quando le Marche hanno proclamato l’annessione alla monarchia costituzionale di re Vittorio Emmanuele II, il Monti in uno dei prescelti a recare al Sovrano in Napoli il risultato del prebiscito di quelle provincie.

La bontà del Re, aderendo alle proposte del ministro dell’interno, con decreto del 20 dicembre 1860, lo inalzava alla dignità di senatore del regno.



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