< Il Parlamento del Regno d'Italia
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Luigi Carlo Farini Camillo Benso di Cavour
Questo testo fa parte della serie Il Parlamento del Regno d'Italia


Enrico Cialdini.



I tentativi fatti a più riprese dagli Italiani in quel tratto di tempo che corse dal 1821 in poi, se non valsero per sè a redimere l’Italia, pure egli è indubitabile che contribuirono grandemente alla riuscita degli ultimi moti e giovarono anche non poco, inducendo vari coraggiosi cittadini che avevano in quei primi conati preso parte, a dedicarsi al mestiere dell’armi in paese straniero, laddove ferveva una guerra combattuta per cause che con quelle che avevano loro messo le armi in mano nel patrio paese avevan di molta analogia.

Alcuni di quei cittadini divennero di tal guisa dotti, esperti e valorosi militari, che, rientrando nella penisola al momento in cui ella tentava uno sforzo sublime contro lo straniero oppressore, poterono riuscir di gran vantaggio alla patria dedicandole il valoroso braccio e l’esperienza guadagnata nelle lunghe e pericolose fazioni pugnate in Portogallo, in Ispagna, in Algeria.

Uno dei più notevoli di tali figli d’Italia è appunto Enrico Cialdini, il vincitore di Palestra e di Castelfidardo, l’espugnatore di Ancona e di Gaeta.

Sentiamo i particolari che sulla sua fanciullezza ha trasmessi il suo zio, l’avvocato Francesco Cialdini:

«Mio nipote Enrico, figlio del povero mio fratello, ingegnere Giuseppe, e della Luigia Santyan y Velasco, nacque nella nostra villa in Castelvetro di Modena, il 10 agosto del 1813.

«Suo padre andò più tardi ad abitare in Reggio colla famiglia in qualità d’ingegnere capo d’ufficio di acque e strade. Quivi Enrico cominciò la propria istruzione presso i Gesuiti, i quali, avendo scorto nel giovinetto molta svegliatezza d’ingegno e concepitone belle speranze, cercarono affezionarlo al loro sistema e lo circondarono di speciali premure per adescarlo. Ma Enrico, sentendosi, per istinto, avverso ai reverendi padri ed alle loro dottrine, non corrispose per nulla alle aspettative lojolesche; per la qual cosa mutarono essi l’apparente affetto in odio reale e le tenere cure in astiosa persecuzione. La vivacità del fanciullo ne porgeva loro il destro.

«Un bel giorno disegnò colla penna un asino e un gesuita e fra l’uno e l’altro mise il segno matematico d’ugualianza =. Era delitto da non perdonarsi, e per questo e per altri scherzi di lui, i Padri giunsero al punto di cacciarlo dalle scuole, come ragazzo scapestrato, indocile a qualsiasi ammonizione, e ad ogni disciplina scolastica e religiosa.

«Il fanciullo amava lo studio; applicavasi a cose amene ed a gravi. Aveva otto anni quando suo padre, maravigliato dell’attitudine che mostrava per le matematiche elementari, si diede a fargli lezioni serali, in cui lo scolaro progrediva notevolmente; dimodochè a dieci anni poteva studiare e comprendere i trattati di geometria di Brunacci e di Euclide. D’indole vivace, ma ottima, amava e rispettava assai i genitori, amava i congiunti ed i compagni con sentimento profondo. Aveva molta inclinatone a fare epigrammi e vi riusciva con ispirito superiore alla sua età. Di complessione robustissimo, e quasi presago del proprio avvenire, era intollerante dell’inerte riposo, sprezzante dei pericoli, dicendo soventi volte che a tutto doveva abituarsi.

«Volendolo amare alla scienza medica, convenne mandarlo a Parma, perchè l’espulsione dalle scuole gesuitiche gli rompeva ogni carriera nei domini estensi. Ivi attese agli studi, e portato, come era, alle arti belle, faceva vita con molti artisti di pittura e d’incisione frequentando moltissimo lo studio Toschi.

«Studiò il disegno sotto il professor Callegari; ed io conservo un ritratto del generale Poniatowski che fu il suo primo lavoro eseguito nel 1826.

«Sopravvennero i casi del 1831; allora Enrico parve sorgere a nuova vita potendo seguire il naturale suo slancio e si arrolò volontario a Reggio nelle milizie nazionali, cominciando sin d’allora a combattere per l’italiana indipendenza. Ma le sorti nostre essendo tornate in peggio, si ridusse co’ suoi compagni, duce il general Zucchi, a Bologna; e da quivi, pure incalzato dagli austriaci, si battè a Rimini, riparò in Ancona, e dopo la capitolazione di questa piazza, imbarcatosi in un legno che fece sosta per un mese a Messina, pose piede a Marsiglia e se ne andò a Parigi, ove si diede di nuovo agli studi scientifici.

Due anni dopo, quando egli seppe della legione straniera che Don Pedro ragunava per andare a combattere in Portogallo l’usurpatore fratello Don Miguel, si dette premura di prendervi servizio, come abbiamo già avuto luogo di dire allorchè abbiamo descritta la vita del generale Giacomo Durando.

In quella legione, e benchè nei gradi inferiori, Cialdini non tardò a segnalarsi per azioni di vera prodezza in più d’un fatto d’armi, tanto che, sebbene semplice sargente, venne decorato della croco di cavaliere di Torre e Spada.

Avendo preso parte a tutti i principali combattimenti che accaddero in quella campagna, avendo assistito all’assedio di Santarem, alla battaglia di Asseiceira, e alla capitolazione d’Evora-Monte che pose fine alla guerra, ebbe la promozione a sottotenente e poco dopo, il suo reggimento essendo stato sciolto, egli rimase ancora al soldo del Portogallo per altri sei mesi, quindi entrò al servizio della regina Maria Cristina di Spagna nei cacciatori d’Oporto, comandati dal generale Borso di Carminati, col grado di luogotenente.

Il nuovo corpo del quale faceva parte ebbe luogo di distinguersi ben presto, vicino a Barcellona e specialmente al Bruch, e alla battaglia di Cherta, ove Cialdini per la sua valorosa condotta fu decorato dell’ordine cavalleresco di San Ferdinando.

Promosso indi a poco al grado di capitano, combattè in varie altre fazioni e si ebbe nuove decorazioni, e si guadagnò novella lama; ma un fatto vogliamo raccontare con qualche particolare, che ne sembra dare un’idea assai adeguala dell’intrepidezza e della longanimità del nostro protagonista.

«Dopo lo sforzo infausto, dice l’anonimo che dettò una biografia di Cialdini, che destò la costernazione in Ispagna, Oraa fu costretto a levare l’assedio ed a ritirarsi poscia verso Valenza, inseguito dal nemico. Il suo esercito dovendo passare per una gola di montagne, aveva alla coda i cacciatori di Oporto, che proteggevano la ritirata; e questi per arrestare l’impeto dei Carlisti, si fermarono innanzi all’ingresso dello stretto, volsero la fronte e fatto fuoco, data la carica e respinti i nemici più vicini, si gettarono poscia nella gola, correndo a precipizio per raggiungere l’esercito già in salvo, e schierato in battaglia dalla parte opposta. Ma tosto i nemici ripresero di nuovo l’offensiva e lanciaronsi addosso agli ultimi fuggiaschi, menandone orribile strage. Cialdini stara col cuore agitato e l’occhio inquieto, mirando i reduci, come per riconoscervi qualcuno della cui sorte tremava; e vedendo arrivare quasi gli ultimi senza scorgervi la persona cercata:

— Dov’è Guido? domandò ad un suo amico, tutto grondante di sangue.

«— È ferito, lo trascinano qui, non so se potrà salvarsi dalle mani del nemico.

Cialdini, non disse, non udi altro; balza in sella sul primo cavallo che gli si affaccia, e si lancia nella gola; vede Guido, suo fratello, in pericolo estremo di cadere in mano dei Carlisli, e in un istante lo pone sul cavallo; ma questi non può stare in sella perchè la gamba ferita gli cadeva penzolone, e i movimenti troppo solleciti, gli cagionavano insopportabili dolori.

«Enrico allora lo fa scendere, lo carica sulle sue spalle, e correndo affannoso verso il campo cristino, il quale trovavasi in terreno alquanto elevato, trae a salvamento il fratello e cade mezzo morto per la fatica in mezzo ai compagni plaudenti.

Guido serviva nei cacciatori di Oporto col grado di sottotenente; e la grave ferita riportata in una gamba gl’impedì di continuare il mestiere delle armi, per cui si ritirò a Valenza, ove attualmente si trova.

Cialdini fu indi a poco promosso a capo di battaglione ed ebbe il petto fregiato di nuove medaglie.

Nel 1859 il trattato di Bergara concluso tra Espartero e Maroto, poneva fine alla lotta degli eserciti regolari. Poco tempo innanzi Cialdini aveva avuto la prudenza di lasciare le truppe straniere nelle quali serviva e di entrare nell’esercito regolare spagnuolo, nel quale fu accettato col semplice grado di sottotenente di fanteria, sebbene prima che la guerra, come diciam sopra, fosse ultimata, egli pervenisse di già a riacquistare il grado di capitano.

Essendosi nell’ottobre del 1841 scoperta una congiura per togliere il potere della reggenza ad Espartero, congiura della quale facevano parte Diego Leon, Concha, Borso di Carminati e O’Donnell, il Cialdini, che si sapeva legato in molta amicizia con Borso, sospettato di prendervi parte, fu, dopo esser rimasto qualche tempo in arresto, messo in aspettativa.

«Nel 1843 Narvaez, continua a dire l’anonimo sopracitato, gli offrì il posto di suo ajutante di campo; e sebbene Cialdini sul principio fosse restio ad accettare, alla fine cedè all’invito, ed in tal carica si trovò nel tempo dei celebri pronunciamentos che atterrarono il reggente Espartero dal potere. Capo di stato maggiore di Narvaez era La Pezuela, fratello a distinto letterato, e che, avendo servito sotto Borso qual colonnello di cavalleria, conosceva moltissimo Cialdini. La sua simpatia pel giovane italiano s’accrebbe viemaggiormente, perchè lo trovò istruito nelle lettere e dotato di buon gusto per la poesia, a cui egli portava passione. La Pezuela aveva tradotto la Gerusalemme liberata in ispagnuolo e ricorreva a Cialdini perchè il lavoro esaminasse e correggesse; fatto curiosissimo, che mentre i due guerrieri marciavano verso la capitale della Spagna, per darvi o ricever morte, si trattenessero nel cammino recitando le ottave di Torquato nelle due armoniose lingue sorelle.

Pervenuto presso Madrid, la si trovò armata e barricata in favor di Espartero, e Cialdini fu inviato, per ordine di Narvaez, ad intimare la resa, ma indarno, ed al ritorno suo verso il campo, le guardie nazionali, mancando di rispetto alle leggi l’inviolabilità che guarentiscono da ogni insulto il parlamentario, gli fecero fuoco addosso. Ma Cialdini, senza perdersi d’animo, diè di sprone al cavallo, e tra un nembo di palle tornò a render conto della propria missione.

E qui cediamo ancora la parola all’anonimo.

«Piaceva a Narvaez il giovine ufficiale; e tanta stima ripose in lui, da affidargli il governo delle operazioni da farsi contro Madrid, nel tratto di terreno che si stende da Porta Alcalà a Porta Necoletos. Esaminata accuratamente la posizione, si accorse Cialdini che in certo luogo stavano collocati due cannoni di piccolo calibro e che in certe ore del giorno erano custoditi da pochi uomini, perchè il nerbo delle forze ivi appostato si disperdeva e si allontanava. Gli venne in mente d’impadronirsi dei due pezzi sorprendendo il nemico; ed a tal uopo col favore dell’oscurità fece occupare alcune case che trovavansi in faccia ed a poca distanza dai baluardi nemici, e nascondervi le scale necessarie per la salita. Appena vide opportuno il momento, fece portar fuori le scale ed appoggiare al muro, aprire le finestre, e mentre una parie dei suoi faceva improvvisamente una scarica contro il nemico, altri, con esso lui alla testa, ascendevano sulle mura e lo fugavano, e gettali i cannoni giù dalle mura, li trascinarono tosto in salvo. Fatto il colpo, le truppe ripresero le primitive posizioni. La destrezza e l’audacia ricevettero i meritati encomi dal Narvaez, il quale non tardò molto a promuovere Enrico Cialdini al grado di capo-battaglione.

Presa la capitale, Cialdini lasciò lo stato maggiore ed entrò nel reggimento Ferdinando, nel quale indi a poco ebbe il grado di tenente-colonnello.

Essendosi deciso di organizzare un corpo di gendarmeria sul modello della francese, Cialdini vi entrò col grado di comandante e vi fu promosso nel 1847 a tenente-colonnello. Il capo supremo di quel corpo, duca di Alnunada, prese a stimare moltissimo il Cialdini e gli dette prova non dubbia del caso che faceva di lui, inviandolo a Parigi in commissione, per istudiar bene l’organismo della gendarmeria francese, onde introdurre utili ammeglianienti nella spagnuola.

«E mantenne la parola, dice l’autore anonimo della biografia del Cialdini dalla quale prendiamo in prestito queste notizie. Appena udi i primi romori di guerra nel 1848, appena seppe l’Italia in armi e Carlo Alberto sceso in campo per sostenere i conculcati diritti, decise di partire immediatamente dalla Spagna e correre nella penisola italica ad offrire i propri servigi. Non lo ritenne splendidezza di posizione e suppliche d’amici che lo avrebbero voluto spagnuolo; ma egli sapeva d’essere italiano e non voleva riposare sugli allori acquistati, mentre nella patria sua si combatteva una guerra di vita o di morte.

«E se ne venne. Giunse a Modena; ma il comando delle truppe regolari era già stato affidato a Cucchiari; delle irregolari non voleva saperne. Gli si offerse quello della gendarmeria che si stava ordinando; ma non potè soffrire gl’indugi nemmeno d’un giorno; al suo orecchio tuonava di continuo il cannone del Mincio e parevagli mille anni d’essere sul terreno dell’azione. Andò a Milano.

«Intanto la prima fase della campagna del 1848, che abbraccia il periodo di tempo in cui il Lombardo-Veneto, meno le fortezze, era in potere degl’italiani; volgeva sventuratamente al suo fine; e stava per succederle la seconda, nella quale il Veneto fu nuovamente occupato dagli Austriaci.

«Le principali forze italiane, che trovavansi in gran parte del territorio della penisola il quale si stende fra la sinistra dell’Adige, il Po e l’Adriatico, obbedivano agli ordini del generale Giovanni Durando ed avevano compito d’impedire la congiunzione di Nugent e Radetzky, a cui quegli, venendo dall’Isonzo, recava un soccorso di oltre 15,000 uomini. Dopo manovre lungo la Piave e la Brenta, dopo l’unione dei due generali nemici, dopo un inutile tentativo fatto dagli Austriaci per prendere Vicenza, questa città stava per sostenere un assalto di forze poderosissime. Durando l’aveva munita di opere difensive ed aveva alquanto fortificato i monti Berici che la dominano. In questo frattempo, voltosi ad un ufficiale del suo stato maggiore «Cialdini dev’essere a Milano, disse, andate ed invitatelo a recarsi subito qui.

«L’ufficiale esce e mentre scende le scale trova Cialdini che le saliva. Impaziente d’aspettare a Milano, mal ricevuto da quel governo provvisorio che non volle giovarsi dei suoi servigi, nel timore di non prender parte attiva alla lotta, e sapendo che il Veneto era minacciato, correva a Vicenza in cerca di posto per un combattimento. Era la vigilia del grande assalto, e siccome i colli Berici formavano la chiave della posizione, così Durando v’inviava 3000 uomini delle migliori truppe comandate dal colonnello Massimo d’Azeglio, capo del suo stato maggiore, a cui dette per coadjutore il colonnello Cialdini.

«Arrivato questi all’improvviso e posto così subito in azione, non aveva nemmeno un’uniforme italiana da indossare, non essendogli ancora giunto il brevetto modenese della nomina a colonnello di gendarmeria avvenuta alcuni giorni prima. Per la qual cosa ebbe una tunica dall’Azeglio e se ne vestì; certo, non doveva essere troppo elegante per la sensibile differenza d’altezza fra d’Azeglio e lui; ma era un uniforme e tanto bastava.

«Il combattimento, impegnatosi alla punta del giorno 10 giugno sui monti Berici, non tardò ad estendersi, e verso il mezzogiorno il fuoco era spaventevole da tutte le parti. Un ufficiale mandato da Durando sui colli per assumere notizie, trovò Cialdini nei punti più avanzati e più esposti che col sigaro in bocca e le braccia incrocicchiate osservava i movimenti del nemico. Tornato a Durando, l’ufficiale diè conto della condizione delle cose ed aggiunse alla relazione: «Posso poi dirvi, generale, che tra poco avremo notizia della morte del colonnello Cialdini.» E pochi minuti dopo si seppe ch’era ferito mortalmente. Trasportato poscia in una casa e visitato dai medici e chirurghi, gli si pronosticarono poche ore di vita.

«Intanto le sorti di Vicenza volsero alla peggio. A sera Durando si trovò costretto a concludere una convenzione, fra i cui patti fu quello d’aver cura dei feriti. Cialdini rimase quindi a Vicenza: era colpito al basso ventre; la palla gli aveva forato un intestino, e tutto portava a credere che sarebbe morto in breve di cancrena. La sua tempra ferrea la vinse; una fortunata adesione della parte lesa con le pareti addominali riparò al guasto formatosi dallo squarciamento del tubo intestinale, e poco a poco si trovò in via di guarigione finchè dopo molte settimane potè alzarsi da letto.

Senza parlare delle tenere cure ricevute in casa dell’avvocato Pasini, e come tutti i Vicentini avessero a cuore le sorti di lui, diremo che fuvvi uno tra i nemici il quale mostrò molto interesse pel giovine colonnello. Il tenente maresciallo d’Aspre, uno degli espugnatori di Vicenza, ne chiedeva notizie soventi volte, e soventi volte andò egli medesimo a trovarlo, seco trattenendosi intorno alle guerre di Portogallo e di Spagna, ed all’impossibilità per gl’Italiani di sostenere una lotta contro l’Austria.

«Le ragioni contrarie di Cialdini nol persuadevano; peccato che sia morto a Padova prima del 1859; forse se avesse vissuto, più che colle parole, Cialdini lo avrebbe persuaso coi fatti. Del resio, allorchè il convalescente volle partire pel Piemonte, d’Aspre gli diede una carta speciale, affinchè le moleste polizie non lo tormentassero colle loro vessazioni. Tanta fu la stima e la simpatia che aveva concepita pel valoroso Italiano.

«Dopo il disastro di Custoza e l’armistizio di Milano, erasi riparata in Piemonte buona parte delle truppe e dei volontari parmensi e modenesi. Il governo decise che se ne formasse un reggimento e ne affidò la cura ed il comando al colonnello Cialdini, giunto in novembre negli Stati Sardi. Per progressione regolare, in ordine ai reggimenti piemontesi e lombardi, ebbe il numero 23, e componevasi di elementi piuttosto eterogenei e di difficile mistura. Ufficiali di vecchio regime, ufficiali nuovi, ma digiuni d’istruzione militare; e quel ch’è peggio, vecchi soldati, specialmente estensi, che avversavano il nuovo ordine di cose, e giovani volontari a cui pesava il freno della disciplina. Cialdini seppe domare, e diremo di più, seppe magnetizzare questi esseri malcontenti; domarli coll’infondere profondo rispetto al suo personale coraggio, opponendosi una volta colla spada ad un ammutina, mento quasi generale; magnetizzarli colla parola che, conviene confessarlo, persuade ed incanta.

Narreremo un fatto da cui si trarrà idea della sua fermezza ed energia.

«Una sera trovavasi al teatro in Torino, allorchè gli si annuncia essere il reggimento in rivolta per uscire dal quartiere. I granatieri della 1.a compagnia, i quali erano di guardia, aver resistito alla moltitudine irrompente; urli e schiamazzi farsi più clamorosi; correre pericolo che l’insubordinazione resti vincitrice e i soldati sortano a loro capriccio. Il colonnello va immantinente al quartiere, fa splendido elogio alla compagnia dei granatieri e ne dispone gli animi alla cieca obbedienza dei suoi comandi; e mentre le grida continuavano nei corridoi, egli va nel mezzo della corte, ove può essere udito da tutti, e con voce alta e decisa esclama:

«È prescritto che a quest’ora tutti sieno in letto ed in silenzio, io vengo per visitare le stanze, chi non si troverà coricato e dormiente sarà severamente punito. Granatieri seguitemi.»,

Poi, accompagnato da due uomini colla bajonetta spianata e da un altro colla lanterna, s’avviò nei corridori. Tanto ardire stupefece i riottosi, che tosto corsero alle camere loro, spogliandosi e coricandosi. Il colonnello visitò i letti, esaminò il volto dei soldati, rischiarato dalla lanterna, tutti gli occhi erano chiusi. Il reggimento era fatto; chi aveva tanto potere era sicuro di condurlo a sua voglia. Infatti nel marzo del 1849 il colonnello riusci a condurre in campo il suo 23.°, il quale doveva in quella lotta infelice operar fatti che lenissero l’amarezza di tanti altri. Il 23.° venne destinato a far parte della seconda divisione comandata dal general Bes.

«Gli Austriaci, varcato il Ticino a Pavia e nelle vicinanze e non trovando seria resistenza alla Cava, continuarono la marcia per volgersi poi a destra e dar battaglia all’esercito Sardo vicino a Novara. Accortosi, benchè tardi, di questo piano, il comandante supremo del nostro esercito fece che le divisioni piemontesi si accogliessero con sollecitudine fra Mortara e Vigevano; per la qual cosa, toccando alla seconda di collocarsi innanzi di questa città, prendeva posizione alla Sforzesca.

Ivi trovavansi il 17.° e il 23.° di linea. Prima di cominciare il fuoco, Cialdini tenne un discorso alle sue truppe, e talmente seppe eccitarle con lo stimolo dell’onor militare e nazionale, talmente metterle in pensiero colla minaccia di terribile rigore, che, emulando il 17.°, assalirono due volte il nemico alla bajonetta e lo fecero indietreggiare. «Il 23.° e il suo bravo colonnello Cialdini, dice il duca di Dino nel suo libro sulla campagna del Piemonte nel 1849, si comportarono in modo degno d’elogi. Il colonnello Cialdini è abituato a riceverne sul campo di battaglia, e sebbene ferito gravemente a Vicenza da una palla che gli passò il basso ventre, e non guarito da questa ferita crudele, nondimeno marciò sempre in prima fila.

«E non era effettivamente guarito; pochi, giorni dopo scriveva a suo zio che lasciando il letto, trattenutovi dall’esasperata ferita, era montato a cavallo; ma il suo 23.° ignorava di avere alla testa il proprio colonnello quasi morente.»

Malgrado infruttuose prove di valore per parte dei nostri, il nemico impadronivasi di Mortara; e l’esercito Sardo raccoglievasi a Novara, separato da ogni base e da ogni comunicazione, costretto a dar battaglia quando sarebbe convenuto a Radetzky.

La seconda divisione, recatasi a Novara, fu messa a cavallo della strada di Mortara e la sera del 22 marzo trovavasi al suo posto.

Il 23 marzo era segnato dal destino ad essere uno dei giorni i più luttuosi nelle storie delle nazioni; Italiani ed Austriaci dovevano venire alle mani con esito decisivo.

La nostra fronte di battaglia era formata da tre divisioni su due linee dal Terdoppio all’Agogna. La seconda divisione occupava il centro. Rimase inoperosa per molte ore, essendo disegno del generale in capo Chzarnowsky di stancare il nemico negli assalti della Bicocca e poi verso sera piombargli addosso con truppe fresche, romperlo e fugarlo. Ma la cosa andò totalmente al contrario. Verso sera tutte le forze austriache erano sul campo, davano l’assalto simultaneo all’intera nostra linea e ci minacciavano la ritirata. Il 23.° come altri reggimenti della divisione Bes, era stato esposto coll’arma al piede alla grandine dei proiettili nemici; pure in virtù del suo colonnello non si mosse, non diè segno nè d’impazienza nè di scoraggiamento; il nome acquistato alla Sforzesca serviva d’incentivo, a mostrare intrepidezza, non essendo ancora giunto U momento di slanciarsi contro il nemico. Cialdini animava gli ufficiali, animava i soldati; diceva doversi coronare a Novara le prove felici della Sforzesca; ogni Italiano dover mostrare come sappia vincere o morire.

Intanto giungeva l’ordine d’avanzarsi e veniva accolto con fragorosi evviva; il 17.° e il 23.° marciavano pieni d’ardore allorchè vennero assaliti furiosamente da quattro colonne nemiche. S’impegnò il fuoco, i nostri ricacciavano gli Austriaci e guadagnavano terreno; quando arrivava l’ordine che quei due reggimenti già troppo inoltrati, si ritirassero essendo l’ala sinistra stata oppressa dal nemico; e la ritirata fu eseguita regolarmente sotto la proiezione dell’artiglieria.

L’onorevole contegno del reggimento valse alla sua bandiera la medaglia d’argento al valor militare.

Dopo l’infaustissima giornata il colonnello Cialdini, decoralo egli pure di due medaglie al valor militare pei fatti di Vicenza e quelli della Sforzesca e di Novara, andò col 23.° a Chivasso e quindi al campo di S. Maurizio, poscia di nuovo in accantonamento a Chivasso. Ivi si diè congedo a coloro che lo chiedevano e che non appartenevano agli Stati Sardi, per cui il corpo dovè quasi totalmente rifarsi con nuovi elementi. Il colonnello spiegò allora tutta quella intelligenza, attività, energia, che gli son proprie; e tanto infuse di stima e d’affetto nei suoi subordinati, che ben presto la fama di buon organizzatore s’aggiunse a quella di capitano valoroso e salì in alte regioni della gerarchia militare.

Non dobbiamo tacere però che si attribuiva un difetto al suo carattere, di essere cioè impetuoso, ed effettivamente lo era; non a discendere ad eccessi triviali, ma a lasciarsi trasportare a parole o ad atti, che sebben giusti nel fondo, potevano per avventura reputarsi troppo severi.

Ma questa pecca veniva largamente compensata da altre pregevoli doti, fra le quali primeggiava la sollecitudine esemplare pel benessere del soldato e per l’interesse dei suoi ufficiali: anzi dobbiamo soggiungere che non esitò talvolta a compromettere la propria posizione allorchè trattavasi di difendere diritti altrui che gli sembravano lesi.

Il suo contegno estremamente autorevole nel servizio, che mantenne la più rigorosa disciplina nei corpi da lui successivamente comandati, e quello di buon camerata, allorchè di servizio più non trattavasi, gli conciliarono cieca fiducia di tutti e simpatia pressochè universale.

Sciolto il 23.° di linea al 1.° gennajo del 1850 ebbe il comando del 14.°; la sua riputazione militare si confermò, si estese; il ministro Lamarmora si accorse di avere un ufficiale superiore da tenersi a calcolo, e lo tenne.

Nel 1854 le spade riunite di Francia e d’Inghilterra furono sguainate per dare un colpo ai trattati del 1815, protestando però di volerli mantenere integri. Al loro trattato di alleanza aderiva anche il regno Sardo, e nei primi mesi del 1855 un corpo sceltissimo di oltre 15,000 uomini, sotto il comando del valente generale Alfonso Lamarmora, venne destinato alla guerra d’Oriente che si combatteva in Crimea.

Questo corpo era composto di cinque brigate, dette provvisorie, una delle quali, la terza, venne affidata al colonnello Cialdini.

Penetrato del compito suo, il colonnello si pose a tutt’uomo ad organizzare la brigata dandole l’insieme tanto necessario pel buon esito delle militari operazioni. A tal uopo raunò tutti li ufficiali, tenne loro lunghissimo discorso che desto una viva e profonda impressione, sino a commuoverli tutti ed a strappare le lacrime a qualcuno. Spiegò loro i motivi che indussero alla guerra di Crimea; quelli che decisero il governo nostro a prendervi parte; la necessità cioè di riaprire con una vittoria le pagine della nostra storia militare che erano siate chiuse con una sconfitta, e di prepararsi potenti sostegni per intraprendere un giorno la santa guerra dell’indipendenza nazionale, che stava in cima d’ogni mente e in fondo d’ogni cuore.

«Sonovi giorni di lutto, diss’egli, che provengono da disgrazie molle volte indipendenti dalla generosità e dal valore; sonvi giorni in cui gli eserciti, per quanto onorali e valorosi, vengono circondati da un velame oscuro che bisogna assolutamente squarciare. Cartagine ebbe Zama, Roma Canne, Francia Waterloo. Tale fu per noi quello di Novara e dobbiamo ad ogni costo riprenderci l’aureola brillantissima che ci diedero le battaglie dell’Assietta, di Guastalla, di Torino e di Goito. Il Governo ce ne offre l’occasione e non ce la lasceremo certamente sfuggire.» Indi descrisse la Crimea, svolgendo lutti i particolari intorno alla posizione geografica, ai caratteri topografici, alle produzioni naturali, agli abitanti, al terreno militarmente considerato. Parlò dei disagi che un lungo assedio in inospite lande, ove trovavansi numerosissimi eserciti, avrebbe recato a mal’idea, soggiunse, «che ivi sta l’onore che abbiamo a cogliere a larga mano, e che ci farà sopportare con pazienza ed abnegazione qualsiasi patimento. Dimostrò la necessità della concordia e buona armonia tra gli ufficiali, che, sebbene di reggimenti diversi, dovevano essere animati da emulazione, non mai da gelosia.

Raccomandò di mantenere la disciplina tra i soldati. «Siamo esempi di valore e di virtù, esclamò, ed il Re e la patria ci proclameranno degni di loro.»

Gli ufficiali se ne andarono pieni di fiducia nel Loro comandante e pieni del desiderio di fare onore alla bandiera.

Animati così gli ufficiali, il colonnello volle fare altrettanto coi soldati; il giorno dopo riunì tutta labrigata e le parlò colle seguenti parole:

«Ufficiali, bass’ufficiali e soldati!

«Osservai nella solenne rivista, passata sei giorni or sono, da S. M. il Re, osservai più ancora stamane la nostra bella tenuta, il passo disinvolto, lo sguardo altiero, e ciò che più monta per me l’aspetto vostro marziale cbe m’empie l’animo di soddisfazione e di gioja.

«Voi tutti tenete lo sguardo a me rivolto; fissatelo pur sempre sopra di me; egli mi commuove ed io sono superbo di comandare una truppa così distinta. Il soldato valoroso tien sempre sollevato lo sguardo al suo condottiero, e non lo abbassa al suolo che per numerarvi i nemici caduti; il vile solo invece, il codardo china gli occhi a terra per celare il pallore che gli copre la fronte.

«Nel vostro sguardo, foriero di magnanime azioni, io vi leggo larga profezia di gloria.

«Miei cari commilitoni! fra poco noi abbandoneremo questo patrio suolo e lontani le mille miglia da questa privilegiata parte d’Italia, ci seguiranno i voti e le preci dei parenti, a cui sta a cuore l’onore e la gloria d’Italia. Tra i disagi ed i pericoli rammentatevi la patria vostra e l’onor suo.

«Chi di voi oserà riedere in patria senza avere adempito ai proprio dovere? Chi di voi ardirà rivedere questi luoghi se non avrà la coscienza d’avere strettamente compiuto il proprio mandato? Chi di voi Toserebbe?

«Miei cari fratelli d’arme! eccovi la bandiera consegnatavi dal magnanimo nostro Re Vittorio Emanuele II; ecco il sacro nazionale vessillo; ricuopritelo di nuova gloria, riportatelo fregiato di allori, e qui in questo stesso luogo, qui sotto questo cielo giurate dinanzi al Dio degli eserciti, che lo benedisse, dinanzi al Re ed alla Nazione, giurate di difenderlo eroicamente, a costo del vostro sangue, della vostra vita, perchè al vostro ritorno ve se ne chiederà uno strettissimo conto: Io pel primo il giuro, giuratelo voi pure:

«Viva il Re! viva lo Statuto! viva la nostra bandiera!»

Una generale emozione, un fremito universale invase gli astanti, i quali ripeterono più volle il nobile grido del loro comandante.

La terza brigata s’imbarcò in maggio per l’0rienle, e il 31 di quel mese il colonnello scriveva una lettera da Kamara, nella quale descriveva le posizioni occupate allora dai nostri, ed esprimeva le sue idee sulle condizioni militari di quei giorni.

La serenità del suo animo venne ben presto turbata da gravissima sciagura; il colera invadeva le file dell’esercito e mieteva a centinaia e centinaje le vite. Il colonnello non fu secondo a nessuno nelle cure paterne a’ suoi dipendenti, non lasciò occasione per alleggerirne i dolori e confortarne le speranze. Passarono quei giorni nefasti e s’aspettavano in premio quelli di battaglia e di vittoria. Il l.° agosto il colonnello veniva promosso a maggior generale, e il 16 i Russi, usciti dai loro campi, assalirono le nostre linee, ma furono vigorosamente respinti. In questo splendido combattimento che rimarrà imperituro nella storia come quello che aperse nuova êra di gloria dopo la Novara infaustissima, non ebbe la sorte di agire la terza brigata, per cui il suo comandante pubblicava quest’ordine del giorno:

«Fortuna ci tolse di prender parte attiva alla gloriosa battaglia del 16 agosto.

«Gli sguardi vostri rivolti a sinistra esprimevano con quanta emula invidia vedevate i prodigi dei battaglioni francesi e della nostra seconda divisione.

«I vostri volti calmi e sicuri dimostravano cbe occorrendo non sareste stati minori al paragone.

«Vidi con grata sorpresa che, nel mattino del 16, tutti accorreste alle armi, qualunque fosse lo stato della vostra salute.

«Quando tuona il cannone la terza brigata non ha più malati. Vidi con soddisfazione la sprezzante indifferenza con cui accoglieste il lusso d’artiglieria che il nemico spiegò contro di voi. Gli avamposti del settimo, fatti lungo bersaglio ai suoi fuochi, meritano onorevole ricordo per fermo e dignitoso contegno.

«Rammento con piacere i nomi dei caporali Griva e Torelli, comandanti due piccoli posti, e quello del soldato Giuliano, sentinella alle armi della gran guardia di destra.

«Il desiderio d’onore traluce dal vostro aspetto, dal vostro contegno. Voi, miei cari compagni, decimati dal colèra e dalle febbri, scemando di numero ingigantite d’animo.

«Voi meritate un giorno d’ampia gloria, e il Dio delle armi lo farà sorgere anche per voi a ricompensa delle vostre virtù.»

E il Cialdini fu buon profeta, giacchè l’occasione non tardò a presentarsi. Avendo i generali in capo degli eserciti alleati deciso l’assalto della terribile fortezza, fu determinato che l’armata piemontese vi contribuisse col contingente d’una brigata. Un tanto onore essendo desiderato con pari entusiasmo da tutte le brigate, si deliberò che la sorte dovesse decidere, e questa arrise a Cialdini, il numero della 3.° essendo uscito dall’urna. Essa fu unita alla 4.° divisione francese che aveva per cómpito d’espugnare il bastione del centro, riservandosele la speciale conquista di quella porzione del baluardo che si diceva dell’Albero (mât).

In quella suprema occasione emanò il Cialdini un nuovo ordine del giorno concepito ne’seguenti termini:

«Compagni d’arme!

«Fuvvi un giorno di giuramento; voi Io rammentate; fu giorno di parola; oggi è giorno di fatti.

«Compagni di brigata,

«Voi siete chiamati a combattere a fianco di due potenti e valorose armate; importa assolutamente che la bandiera italiana sventoli sulle mura di Sebastopoli, conviene assolutamente battersi e morire tutti anzichè vedere disonorata la nostra bandiera, e provare al mondo che gl’italiani sanno battersi al pari di qualsiasi altra nazione.

«Viva il Re! viva il Piemonte! viva l’Italia!»

I soldati tutti ripeterono l’evviva al Re, evi aggiunsero quello di viva il generale.

Ma anche questa volta la 3° brigata dovette rimanere inoperosa coll’armi al piede, giacchè l’attacco del bastione centrale non ebbe luogo, non essendo gl’inglesi riusciti ad espugnare il gran Reclan, espugnazione che doveva precedere l’assalto della 4.° divisione francese, mentre, come lo si ricorda, il dominava la prima delle due fortificazioni. Pure il sangue freddo de’ soldati della 3.° brigata potè essere ammirato, restando essa esposta allo spaventoso fuoco nemico senza dare il benchè menomo cenno di sbigottimento

Finita colla presa di Sebastopoli la guerra di Crimea, il Cialdini tornò in patria e s’ebbe, ad attestato di singolare stima e benevolenza per parte del Sovrano, il posto di suo ajutante di campo. Indi altri incarichi di fiducia gli vennero dati, fra quali l’ispettorato dei bersaglieri, reso vacante per la deplorabile morte di Alessandro Lamarmora, quello della scuola d’Ivrea e la direzione del campo di S. Maurizio.

Scoppiata la guerra del 1859, al Cialdini fu affidato l’arduo cómpito dell’organamento in due corpi distinti dei numerosissimi volontari che tuttodi accorrevano da ogni parte d’Italia. L’uno fu i Cacciatori dell’Alpi, di cui si ebbe il comando Garibaldi, l’altro i Cacciatori degli Apennini.

E quest’organamento fu fatto con tanta speditezza e si saviamente che i due corpi poterono entrare in campagna pei primi. Poscia il Re chiamava il Cialdini alla testa della 4.° divisione, ed egli assumeva il comando emanando il seguente ordine del giorno:

«Volle la sovrana benevolenza affidarmi il comando di questa divisione e negli attuali momenti non poteva far cosa più lusinghiera e più onorevole per me.

«Io ripongo la mia piena fiducia nella vostra disciplina e militare istruzione; la mia piena fiducia nella costanza e nel valore dell’animo vostro. A quest’ora in Piemonte e nell’Italia tutta ogni cuore batte, ogni labbro prega per voi che difender dovete il vostro Re, le vostre case, le vostre famiglie; Iddio benedice a chi salva la patria, il cielo accoglie chi muore per essa; ma Dio e gli uomini repudiano i vili. Fra pochi giorni vedrete il nemico, quel nemico che manda la gioventù lombarda a perire sul patibolo e nel carcere duro e condanna le donne italiane all’ignominia del bastone; egli vi è noto. Con diversa fortuna lo conosceste a Goito, a Pastrengo, a Custoza, a Santa Lucia, a Novara.

«Vincitori o vinti, foste soli allora a combatterlo; ora avete a fianco e pugnante con voi un esercito che la Francia, la possente Francia ne invia. Rinasca fra voi, rinasca la nobile gara che prodigiosi fatti produsse sulla Cernaja. Niuno preceda il soldato piemontese, niuno si dica più valoroso di lui.

«Ufficiali, sott’ufficiali e soldati!

«Il vento che spira dalle Alpi nostre rechi fra breve alle genti italiane un grido di vittoria. E cinta di nuova aureola torreggi sì alto la croce di Savoja che tutto il mondo la veda da lungi e la saluti.»

Il primo fatto d’arme della campagna fu la sortita di Cialdini dalla piazza di Casale, che ritolse al nemico da 500 capi di grosso bestiame, da questi derubato sul territorio piemontese.

Indi a poco il generale, volendo proteggere la costruzione di un nuovo ponte sulla Sesia, spingeva due colonne sulla sinistra sponda di questa e con arditi e ben combinati assalti ne ributtava gli Austriaci.

Pochi giorni dopo il nostro protagonista riceveva ordine di recarsi ad occupare Palestro tenuto dai nemici.

La strada prossima al villaggio, dice un biografo del Cialdini, era per un tratto fiancheggiata da risaje, poi rimaneva incassata in un alto-piano con ripe scoscese a piede del quale correva il cavo del Lago.

Il terreno si prestava a facile difesa, ad offesa difficilissima; gli Austriaci occupavano il paese ed avevano asserragliato un ponte che vi conduceva; ma il valore dei nostri vinse ogni resistenza; e le truppe della 4.° divisione, dopo un fuoco sostenuto dalla vanguardia (composta di due battaglioni di bersaglieri, una sezione di artiglieria e due squadroni di cavalleggeri), rinforzate a destra da due battaglioni del 9.° di linea, a sinistra da alcune compagnie del 10.°, al centro da un’altra sezione d’artiglieria, superavano il ponte, cacciavano gli Austriaci nel villaggio, e vi entravano esse pure impadronendosene palmo a palmo.

«Nuovo rinforzo, venuto da Robbio, incuorava il nemico, il quale occupò le case poste allo sbocco del villaggio, il cimitero e una «da che unisce questo a quello. Ivi salutarono con vivissimo fuoco le nostre truppe che tentavano irrompere; ma provvide disposizioni del colonnello Brignone, comandante il 9:° di linea, ed il soccorso da lui chiesto e condotto subito dal generale Cialdini, fecero sì che tutta la divisione si pose in moto, e dopo ostinato combattimento gli Austriaci furono cacciati dagli ultimi ripari a punta di bajonetta e si ritirarono precipitosamente verso Robbio, lasciando nelle nostre mani più di 100 feriti molte armi e 184 prigionieri, fra i quali tre ufficiali.»

Fanti e Durando, alla testa della 2.a e della 3.a divisione, cacciarono contemporaneamente l’Austriaco da Confienza e Vinzaglio e lo costringevano a riversarsi sugli avamposti del 16.° di linea posto pure sotto gli ordini del Cialdini, da cui, mediante una brillante carica alla bajonetta, veniva respinto con perdita lasciando in poter dei nostri due pezzi d’artiglieria.

Conscio il comandante della 4.a divisione dell’importanza delle posizioni così vittoriosamente tolte al nemico, si diè a fortificarvisi; e ben gliene avvenne, che l’indomani l’Austriaco si faceva ad attaccarle a sua volta con poderosissime forze.

Ma qui voglio lasciar la penna al generale stesso che così narra quell’importante fatto d’arme nel suo rapporto al capo dello Stato maggiore dell’esercito:

«Durante la notte, il maresciallo Canrobert, che col suo corpo d’esercito si trovava a Prarolo, gittava i ponti sulla Sesia, non senza difficoltà pel continuo ingrossare delle acque, e dalle 5 del mattino cominciava ad eseguire il passaggio del fiume con le due divisioni, coperto dalle posizioni occupate dalla 4.a divisione. Verso le 8 del mattino il 3.° reggimento di Zuavi, stato posto da S. M. l’Imperatore dei Francesi alla disposizione di S. M. il Re, veniva dal Torrione, ove aveva pernottato, a prendere posizione sul davanti e lungo la strada che da Palestro conduce alla Sesia.

«Verso le 10 del mattino il nemico con imponenti forze sbucava dalle strade di Robbio e da quella di Rosasco, attaccando con vigore la nostra linea d’avamposti. Questa seconda colonna, composta della brigata Szabo, faceva ripiegare i nostri avamposti sul cavo Sartirana, e passando sui ponte della Brida attaccava con forze preponderanti le due compagnie poste alla cascina S. Pietro, che furono forzate ad abbandonare la posizione, ripiegandosi lentamente. All’attacco, il 4.° battaglione del 10.° reggimento a sinistra della strada di Robbio, fu costretto a ripiegarsi sull’altipiano, eseguendo però i suoi fuochi di ritirata. A destra della strada, il 3.° battaglione del 10.° reggimento veniva opportunamente sostenuto da due compagnie del 9.° reggimento, colà condotte dal prode colonnello Brignone, e successivamente dal 2.° battaglione dello stesso reggimento; e queste truppe, non solo sostennero l’attacco nemico, ma prendendo una vigorosa offensiva, lo ricacciavano alla bajonetta assai lunge dalla linea degli avamposti.

«Sin dal principio dell’azione, essendomi apparsa l’intenzione del nemico di girare la destra della mia posizioue, e fors’anco di gettarsi sui ponti francesi, avevo spinto da quella parte il 7.° battaglione bersaglieri e successivamente il 16.° reggimento di fanteria, portandolo così dalla sinistra alla destra della mia posizione.

«Avevo contemporaneamente rafforzato d’artiglieriala destra e la sinistra dell’altipiano, e portato l’artiglieria dell’estrema sinistra sulla destra della posizione protetta dai cavi, onde prendere di fianco l’attacco della destra. Il 7.° battaglione bersaglieri coll’abituale suo slancio attaccava vigorosamente il nemico, gli riprendeva alla bajonetta la già perduta cascina di San Pietro; ma avendo a lottare contro forze di gran lunga superiori, si limitò a mantenere le riacquistate posizioni sino all’arrivo dei primi battaglioni del 16.° reggimento ed alla vigorosa offensiva presa dal 3.° zuavj. Questo ammirabile reggimento, visto la destra minacciata, si spingeva in colonna profonda al suono della fanfara sul dinanzi della sua fronte. Passava a guado la Sesietta, ed irrompendo alla bajonetta sul nemico, ne faceva tremendo scempio sul ponte della Bieda, precipitava nel canale di Sartirana, profondissimo, gran parte della brigata Szabo, impadronendosi di una pare della batteria da 16 che aveva passalo il ponte, e di buon numero di prigionieri.

«Questo vigoroso attacco venne arditamente secondato dal 7.° battaglione bersaglieri e dalle prime truppe giunte del 16.°, le quali s’impadronirono degli altri pezzi della batteria, di qualche cassone e di molti prigionieri. Il colonnello dei zuavi, lasciato alla guardia del ponte un battaglione di bersaglieri, colla bajonetta alle reni pose il nemico in piena rotta. Mentre si passava questo brillante e decisivo episodio della giornata, il nemico che aveva fatto qualche progresso sulla nostra sinistra, accennava con una carica alla bajonetta ad un attacco sull’altipiano stesso. Ma arrestato da due ben diretti colpi di mitraglia della nostra artiglieria, veniva successivamente ricacciato e fugato da vigorose cariche alla bajonetta eseguite dal 6.° battaglione bersaglieri e dal 1.° e 2.° battaglione del 10.° di fanteria, guidati dal suo valoroso colonnello Regis, il quale inseguiva il nemico ben oltre la linea degli avamposti e veniva solo rilevato nella sua posizione, negli ultimi periodi della giornata, da due battaglioni del quindicesimo reggimento fanteria, essendo i due battaglioni del 10.° restati privi di munizioni. Cooperarono singolarmente a respingere l’attacco sulla destra una batteria francese collocata sulla riva destra della Sesia, che prendeva di fianco il nemico, ed una sezione dell’istessa artiglieria che nell’ultimo periodo della giornata, collocata sullo stradale di Robbio, riduceva, dopo pochi colpi, al silenzio l’artiglieria nemica che proteggeva la ritirata.

«Alle 2 dopo mezzogiorno il nemico, respinto e fugato su tutta la linea, era in piena ritirata verso Robbio e Rosasco, lasciandoci nelle mani mille prigionieri, seicento feriti, un numero considerevole di morti, d’armi, di bagagli, ed un’intera batteria da 16.

«Le nostre perdite furono in morti e feriti disgraziatamente assai gravi, come risulta dagli stati che qui ho l’onore di trasmettere, ma incomparabilmente minori di quelle del nemico.

«Non è mestieri, signor generale, che io le accenni la mirabile condotta della 4.a divisione in questa circostanza. Le truppe combatterono sotto gli occhi di Sua Maestà che ebbe campo di apprezzare quanto sia grande la loro devozione alla sua persona ed alla patria, e di quale abnegazione nel pericolo esse sieno capaci.

«Le numerose azioni di valore personale contenute nell’elenco, che qui unito ho l’onore di trasmetterle, fanno fede che il Re può sempre contare con fiducia sulla divisione che mi reco ad allo onore di comandare.»

Questa splendida vittoria valse ad Enrico Cialdini il grado di luogotenente generale.

Nel rimanente della campagna la divisione da lui comandata ebbe l’incombenza di secondare e di sostenere le mosse del generale Garibaldi, quindi di occupare e guardare le posizioni che dominano i principali sbocchi del Tirolo. Dopo la pace di Villafranca Cialdini si recò in Brescia, da deve passò più tardi colla propria divisione a Bologna ove assunse il comando del 4.° corpo d’armata.

Tuttavia l’audace impresa di Garibaldi in Sicilia e quindi nel Napoletano, incominciata coi più prosperi auspici e continuata con inesperati successi, era, per avventura, per pericolare, avvegnachè i volontari che si erano fatti a seguire l’ardito condottiero si trovassero giunti dinanzi a Capua, città fortissimamente munita, ed entro la quale e alle spalle trovavasi riunito il nerbo dell’armata borbonica.

Le aspirazioni chiaramente espresse dalle popolazioni dell’Italia Meridionale e la necessità imperiosa di terminare al più presto la guerra, onde più presto le divise parti della penisola formassero quel tutto omogeneo e compatto che da si lungo tempo era il sogno e il desiderio d’ogni leale e caldo italiano, indussero il conte di Cavour a decretare la spedizione delle Marche e dell’Umbria, che doveva liberare le popolazioni di quelle floride provincie dall’esoso dominio clericale, e permettere ai nostri valorosi soldati di recarsi in soccorso delle schiere di Garibaldi.

Questa nobile impresa fu affidata ai 4.° e 5.° corpi d’armata, comandata, il 1.° dal generale Cialdini, che da Rimini doveva entrare nelle Marche, il 2.° dal generale Della Rocca, che doveva da Arezzo penetrare nell’Umbria. Il comando supremo di tutta la spedizione era affidato al generale Fanti, in allora ministro della guerra.

Non crediamo dispiacere al lettore riproducendo il conciso, ma energico ordine del giorno, emesso da Cialdini, al momento d’entrare in campagna.

«Soldati del 4.° corpo d’armata!

«Vi conduco contro una masnada di briachi stranieri che sete d’oro e vaghezza di saccheggio trasse nei nostri paesi.

«Combattete, disperdete inesorabilmente quei compri sicari, e per mano vostra sentano l’ira d’un popolo che vuole la sua nazionalità e la sua indipendenza.

«Soldati! l’inulta Perugia domanda vendetta e benchè tarda, l’avrà!

Penetrato nel territorio occupato dal nemico, con rapidissime mosse ei fece sorprendere e cadere in poter suo Urbino e Fossombrone, mentre, alla testa della già sua 4a divisione si diresse in persona sopra Pesaro, cui intimò la resa, fattala prima cingere da ogni iato.

Il delegato pontifìcio, in essa residente, quel monsignor Bella, tanto noto, volle tener l’ermo; ma dopo un breve cannoneggiamento i bersaglieri sormontarono le muraglie, atterraron le porte e aprirono l’adito alle truppe che penetrarono nella città, non senza, tuttavia, che dovessero sopportare il fuoco dei pontifici in parte refugiatisi nei conventi e nelle case. Il monsignor Bella, chiusosi nel forte, sostenne alcune poche ore il tiro delle nostre artiglierie, poi chiese arrendersi, insieme ai suoi, purchè potessero ritirarsi cogli onori di guerra; il Cialdini rifiutossi a tale accordo e l’indomani tutta la guarnigione e il suo capo dovettero arrendersi a discrezione

Intanto una delle sue divisioni, la 15.a, ebbe ordine dal comandante in capo di riunirsi al 5.° corpo che da Arezzo inoltravasi verso Foligno; per cui il generale Cialdini dovè pensare ad eseguire il suo compito con forze sensibilmente diminuite.

Il 13 settembre andò a Sinigaglia, ove sperava aver notizie precise del nemico, ed ove fu costretto a fermarsi, perchè i viveri ed i parchi non erano giunti. Ivi seppe che Lamoricière trovavasi a Foligno ove raunava truppe; e poscia nella notte del 14 gli giunse la nuova che si dirigeva a marcie forzate verso Ancona con 5 o 4 mila uomini, seguito ad un giorno di distanza dal generale Pimodan con altri cinque o seimila. Assicuravasi che nella stessa notte dormiva a Macerala.

Affine d’impedire che Lamoricière si gettasse in Ancona, il generale Cialdini, con savio ragionamento e colpo d’occhio sicuro, occupò le alture d’Osimo e di Castelfidardo, prolungando le sue forze fino alle Crocette per chiudere la via al nemico. Le sue truppe fecero una marcia forzata di 38 miglia in 28 ore; erano spossate, malconcie assai dall’ardore del sole, dal lungo cammino, dalla scarsezza del cibo; pure non mandavano uu lamento.

«Mi piangeva il cuore a tante pene, a tanta abnegazione, diceva poscia il generale negl’intimi discorsi di famiglia; ma sapeva di quanto giovamento sarebbe riuscita la mossa che quelle truppe eseguivano e mi trovai costretto a far tacere la compassione, posponendola al dovere. I soldati mi compresero e mi obbedirono. Che bravi soldati!»

Il 17 settembre le truppe riposarono e si refocillarono.

Lamoricière, raggiunto da Pimodan, tenta il 18 d’aprirsi un passaggio fra le due divisioni del 4° corpo d’armata; Pimodan assale furiosamente le nostre posizioni avanzate, ove l’Aspio mette nel Musone, ma il generale Cialdini, assicurato alle spalle da un reggimento che occupava Camerano per ordine provvidissimo dato dal brigadiere Cugia, vi manda il nerbo delle sue forze che lo respingono con impetuose cariche alla bajonetta. Sopraggiungono altre colonne, guidate dal Lamoricière; ma prese di fianco dalla cavalleria, respinte di fronte dai fanti, e straziate dalle artiglierie che le fulminavano, fuggirono disordinale verso Loreto, lasciando in mano dei nostri 400 prigionieri, fra cui Pimodan ferito e morente, artiglierie, cannoni e bagagli ed un’infinità d’armi e di zaini.

Intanto una colonna nemica, uscita d’Ancona per dar mano all’impresa di Lamoricière, vista la mala parata, tornò precipitosamente nella piazza, non senza che i nostri, i quali ne assalirono la coda, le facessero un 300 prigionieri.

Lamoricière fuggì a briglia sciolta dal campo e con una trentina di cavalieri riuscì a guadagnare Ancona.

Tenuto a calcolo la stanchezza e il disordine in cui dovevano essere le forze nemiche riparate a Loreto, il generale Cialdini si persuase come non fossero in condizione da sfuggirgli, e approfittò dell’oscurità della sera per chiudere loro ogni possibile ritirata.

All’indomani Recanati, Sant’Agostino, le Case Lunghe erano occupati dai nostri, ed il nemico non avendo più via di salvezza domandò di capitolare. Centocinquanta officiali d’ogni arma e di ogni grado e più di 4000 uomini con undici pezzi d’artiglieria, munizioni, cavalli, bagagli e le restanti guide del generale Lamoricière andarono a deporre le armi a Recanati, nelle cui mura rimasero rinchiusi finchè il generale avesse potuto provvedere alla loro partenza per Macerata e Livorno.

Due o tre mila uomini, per la maggior parte indigeni e pratici del paese, cambiando l’uniforme con abiti borghesi tolti ai villani delle campagne vicine, andarono dispersi. Ma non poterono sfuggire alle colonne che il generai Fanti avanzava su tutte le strade da Val Chientina e Val Potenza.

Dopo questa memorabile battaglia, in cui ebbesi sommamente ad ammirare le qualità precipue che distinguono l’ottimo generale, cioè, colpo d’occhio aggiustato, prontezza di concepimento e d’esecuzione, Cialdini dispose le proprie genti in modo da bloccare la citta d’Ancona, finchè giuntigli rinforzi e cannoni, potè avvicinarsi maggiormente alla piazza e stringerla d’assedio, mediante la cooperazione della marina, posta sotto gli ordini dell’ammiraglio Persano.

Non ridiremo come in breve tempo quella importante piazza venisse espugnata, in modo da ridondarne maggior lustro alle nostre armi di terra e di mare; noteremo solo che a guiderdone di sì nobili e splendide imprese che ne dettero l’acquisto di cospicue provincie, gementi da lungo sotto il governo il più immorale e tirannico, il nostro protagonista venne elevato al grado supremo di generale d’armata e decorato del gran cordone dell’ordine del merito militare di Savoja.

Recatosi l’eroico nostro Re a raggiunger l’armata ed assuntone il comando, questa penetrò attraversando gli Abbruzzi nell’ex reame napoletano. I Borbonici, ajutati da una feccia di gente ignorante e feroce, commettevano atti di barbarie nella provincia di Molise, per cui il popolo straziato salutava con grida di gioja arrivo dei soldati liberatori. Cialdini ebbe il 20 ottobre uno scontro al Macerone, presso Sternia, con un corpo di cinque o sei mila borbonici e ne fece prigioni molte centinaja con cinquanta ufficiali, fra cui il generale Scotti-Douglas. Indignato delle atrocità, più da belve che da uomini, perpetrate, Cialdini mandò una minaccia spaventevole agli assassini per arrestare il corso alle loro nefandezze, e scriveva queste tremende parole al governatore di Molise, affine d’impedire le stragi col terrore non potendolo fare colla voce dell’umanità.

«Faccia pubblicare che fucilo tutti i paesani armati che piglio, e dò quartiere soltanto alle truppe. Ho già cominciato.»

Quest’ordine di sangue impedì effusione di sangue; Cialdini non voleva uccidere per vendetta, non per ferocia; voleva schiacciare l’idea della ribellione all’Italia, affinchè la madre non fosse percossa dai figli, ma incrudelire non mai. Un solo venne fucilato per ordine suo; la morte di un malfattore impedì nuovi delitti e molte pene.

Il 26 ottobre incontravasi con circa 20,000 borbonici comandati dal generale Barbalunga, vicino a Sessa, li ruppe, li fugò, li disperse; e prigionieri e carri, e cannoni e munizioni caddero in suo potere.

Oramai non rimanevano più ai borbonici che Capua e Gaeta e Civitella del Tronto sul continente; Messina nell’isola di Sicilia. Capua cedeva in breve al generale Della Rocca, Civitella del Tronto aveva pochissima importanza: rimanevano Gaeta e Messina; la prima delle quali poderosissima, capace di lungo assedio, di lunghissima ed ostinata resistenza.

Ma prima d’investire Gaeta era mestieri di rompere l’esercito borbonico, il quale trovavasi al Garigliano. Assaliti con grand’impeto dai nostri, comandati dal Re medesimo, battuti di fianco dalla flotta, i borbonici si dispersero, lasciandoci tende, carri, armi e prigioni. Tosto le truppe nostre occuparono Mola di Gaeta e parecchie posizioni intorno alla città; la flotta di Persano doveva investirla dal lato di mare; quando l’ammiraglio francese, Le Barbier di Tinan, ebbe ordine dal suo governo d’impedire le operazioni militari dalla parte marittima, per proteggere le persone della famiglia borbonica le quali si trovavano chiuse in Gaeta insieme al Re e alla Regina. I nostri si limitarono allora alle opere d’investimento dal lato di terra.

«Il generale Cialdini, prosegue a dire il suo biografo nei contemporanei Italiani, a cui veniva affidala la direzione suprema dell’assedio, aveva il suo quartiere generale a Mola di Gaeta; quando il 12 novembre i borbonici, accampati fuora della città, mossero ad assalire la nostra linea; ma vennero battuti come al solito; perdettero 1500 prigioni e il resto fu costretto a ricoverarsi entro la piazza, dimodochè i nostri ristrinsero la linea del blocco.

«Il 29 la guarnigione di Gaeta fece una sortita per impadronirsi di alcune posizioni nei sobborghi; ma fu respinta con perdite considerevoli.

«Nel mese di dicembre fuvvi tregua, non osservata onestamente dai borbonici; spirata, ricominciò il fuoco degli assedianti, a cui gli assediati rispondevano.

«Finalmente il 18 gennaio la squadra francese se n’andò dalle acque di Gaeta e ci lasciò libero il mare; l’italiana ne prese il posto. Le operazioni di guerra si attivarono da tutte le parti e si prevedeva vicina la catastrofe.

«Pochi di prima della partenza dei Francesi, Cialdini pubblicava il seguente ordine del giorno:

«Soldati!

«Gravi considerazioni hanno consigliato il governo del Re di aderire ai desideri di S. M. l’imperatore dei Francesi, ordinandomi di sospendere le ostilità sino alla sera del 19 corrente.

«La flotta francese deve partire e lasciare nelle acque di Gaeta un solo vascello che si allontanerà pur anco allo spirare dell’armistizio.

«L’Imperatore vuol forse con ciò facilitare alla piazza un onorevole mezzo di desistere da una lotta senza speranza e di por fine così ad un’inutile effusione di sangue. Non so quale accoglienza troveranno in Gaeta questi umani intendimenti e questo diplomatico tentativo. Ma so che in ogni caso il Re confida e l’Italia spera nel valor vostro ed in quello della nostra squadra per dare all’assedio una soluzione diversa e più consentanea al volo di tutti noi, usi a combattere, non a trattare, e fidenti nelle armi nostre più che nei diplomatici consigli.

«Soldati!

«A voi è noto da molti anni il sentiero della vittoria. Ricorretelo di nuovo e rispondete alla fiducia sovrana; rispondete alle speranze della patria penetrando per la breccia in Gaeta, ed inalberando la bandiera italiana e la croce di Savoja sulla torre antica d’Orlando.»

Un vapore spagnuolo venne fermato dai nostri incrociatori ed essendovisi trovato a bordo un ufficiale latore di dispacci all’ex ambasciatore della propria nazione presso Francesco II, lo si condusse alla presenza di Cialdini, il quale intimogli d’andarsene, coll’aggiungere che se l’ambasciatore spagnuolo erasi lasciato chiudere entro una piazza stretta d’assedio non poteva non subire le conseguenze di tanto eroismo.

Altro vapore francese recava invece a Francesco II una lettera di proprio pugno dall’imperatore Napoleone III, in cui questi consigliava al Borbone di cedere ormai la piazza mentre ogni resistenza sarebbe riuscita vana quanto poco umana.

Il tiro formidabile delle nostre artiglierie facevano intanto, il dì 6 febbraio, saltare in aria l’intero bastione che appellavasi di Sant’Antonio. Un parlamentario, spedito dagli assediati, veniva al campo impetrando una tregua di 48 ore affine di poter sotterrare i cadaveri degli estinti e porger soccorso ai feriti che in mezzo alle rovine del diroccato baluardo tristamente gemevano.

Umano sempre, il Cialdini concesse la supplicala tregua, esigendo tuttavia, a buon diritto, che il nemico non approfittasse di essa onde restaurare le mura dei forti dai danni patiti. Se non che i borbonici fecero addirittura l’opposto di quanto avevano solennemente promesso, e diedersi a tutt’uomo a riparare in quell’intervallo le breccie che nei loro bastioni avevan fatto i tiri di tremenda giustezza della poderosa nostra artiglieria; dimodochè il generale in capo, informato di quel mancamento di parola, ruppe da quell’istante ogni relazione colla piazza e dichiarò non voler più ricevere parlamentari di sorta, ove loro incarico non fosse quello di trattare della reddizione della fortezza.

Ricominciato più terribile il nostro bombardamento, il di 12 s’intavolarono i negoziati della resa, ch’erano sempre pendenti, quando, mantenendosi vivissimo il nostro fuoco, tutta la batteria della piazza, che dicevasi di Transilvania, saltò in aria con terribile scoppio onde ebbe a tremarne a grande distanza il suolo come per violento terremoto.

Ciò nonostante, per generosità di Cialdini, le condizioni stesse della resa, già in gran parte a quell’ora pattuite, non subirono veruna alterazione. Per queste l’indomani il generalissimo occupò il monte Orlando e tutte le fortificazioni e, partiti il Re e la Regina, tutta quanta la città.

Ognun si ricorda con quanta gioia Italia intera festeggiasse un tanto avvenimento e come benedisse al nome di Cialdini e a quelli dei generali Menabrea e Valfrè che molto pure contribuirono a conseguire un cosi grande successo.

Riproduciamo qui sotto l’ordine del giorno col quale il gcneralissimo applaudì le proprie truppe per la costanza e la bravura da esse dimostrate durante l’assedio:

«Soldati!

«Gaeta è caduta! Il vessillo italiano, e la vittrice croce di Savoja sventolano sulla torre d’Orlando. Quanto 10 presagiva il 15 dello scorso gennaio, voi compieste Il 15 del corrente mese. Chi comanda soldati quali voi siete può farsi sicuramente profeta di vittorie.

«Voi riduceste in novanta giorni una piazza celebre per sostenuti assedi ed accresciute difese, una piazza che sul principio del secolo seppe resistere per quasi sei mesi ai primi soldati d’Europa.

«L’istoria dirà le fatiche e i disagi che patiste, l’abnegazione, la costanza e il valore che dimostraste; la storia narrerà i giganteschi lavori da voi eseguiti in si breve tempo. Il Re e la patria applaudono al vostro trionfo, il Re e la patria vi ringraziano.

«Soldati!

«Noi combattemmo contro Italiani; e fu questo necessario, ma doloroso officio. Epperciò non potrei invitarvi a dimostrazioni di gioja, non potrei invitarvi agl’insultanti tripudi del vincitore.

«Stimo più degno di voi e di me il radunarvi quest’oggi sull’istmo e sotto le mura di Gaeta dove verrà celebrata una gran messa funebre. Là pregheremo pace ai prodi che durante questo memorabile assedio perirono combattendo tanto nelle nostre linee, quanto sui baluardi nemici.

«La morte copre di un mesto velo le discordie umane, e gli estinti son lutti uguali agli occhi dei generosi.

«Le ire nostre, d’altronde, non sanno sopravvivere alla pugna.

«Il soldato di Vittorio Emmanuele combatte e perdona!»

La guerra del napoletano poteva di quel momento dirsi ultimata. Rimaneva sola la cittadella di Messina, entro la quale, a comandante supremo di essa, stava chiuso il vecchio generale Fergola, che, come già abbiamo avuto luogo di dire, aveva per precedenti patti stabilito di non offendere la città, purchè gli venissero somministrati i viveri necessari per l’alimento della guarnigione.

Questi all’annuncio della resa di Gaeta, le cui condizioni portavano espressamente che la cittadella di Messina, e quella di Civitella del Tronto dovessero pur esse operare la loro sottomissione, rifiutò non pertanto di cedere e si dispose ad un’ostinata resistenza.

Si fu allora che il generale Cialdini ricevette dal Re l’ordine di recarsi a comandare le truppe che si disponevano a stringer d’assedio quella fortezza.

Il Fergola, vedendo operare sbarchi d’artiglierie e di munizioni, mandò un suo scritto al generale Cialdini in cui lo minacciava, ove detti sbarchi fossero stati continuati, di valersi d’ogni mezzo di cui poteva disporre in propria difesa, anche contro la città.

Indignato Cialdini, rispose nel modo seguente:

«In risposta alla lettera ch’Ella mi ha fatto l’onore di dirigermi quest’oggi, devo dirle:

«1.° Che il Re Vittorio Emanuele essendo stato proclamato Re d’Italia dal Parlamento italiano, la di di Lei condotta sarà ormai considerata come aperta ribellione;

«2.° Che per conseguenza non darò a Lei, nè alla sua guarnigione capitolazione di sorta, e che dovranno arrendersi a discrezione;

«3.° Che se Ella fa fuoco sulla città, farò fucilare, dopo la presa della cittadella, tanti ufficiali e soldati della guarnigione quante saranno state le vittime cagionale dal di Lei fuoco sovra Messina;

«4.° Che i di Lei beni e quelli degli ufficiali saranno confiscati per indennizzare i danni recati alle famiglie dei cittadini;

«5.° E per ultimo, che consegnerò Lei e i suoi subordinati al popolo di Messina.»

«Ho costume di tener parola, e senza essere accusato di jattanza, le prometto ch’Ella e i suoi saranno quanto prima nelle mie mani.

«Dopo ciò faccia come crede. Io non riconoscerò più nella S. V. Ill.ma un militare, ma un vile assassino e per tale lo terrà l’Europa intera.»

I lavori d’assedio furono tosto incominciati, ma l’energica risposta del Cialdini aveva prodotto sull’animo del Fergola un salutare effetto. Questi scrisse altra missiva, in termini assai più rimessi, in cui protestava voler risparmiare, per quanto il poteva, la città, e voler solo resistere perchè l’onor militare rimanesse illeso.

Replicò a sua volta il generalissimo italiano, tale linguaggio esser degno d’un vecchio ed onorevole soldato, ch’ei l’approvava pienamente, e che quindi, terminato l’assedio, si sarebbe tenuto felice di stringere la mano di chi lo teneva.

Non andò guari, infatti, che il comandante borbonico, visto che ogni resistenza sarebbe stata vana, aprì trattative, e mentre le nostre batterie non erano più che a 400 metri dalla piazza, e l’efficacissimo capo-fuoco aveva già fatti saltare in aria al nemico vari depositi di munizioni, questi si arrese a discrezione.

Civitella del Tronto non tardò a seguirne l’esempio, e la guerra del napoletano cessava con la compiuta vittoria della nazione.

Questa volle porgere al glorioso capo che aveva tanto contribuito al conseguimento del desiderato intento, un nobile pegno della propria ammirazione, della sua riconoscenza. Ad abilissimo artista orefice di Torino, al Barani, fu commesso il lavoro d’una corona d’alloro che dovesse cingere la fronte dell’illustre capitano; l’Italia intera, si può dire,concorse al donativo alla cui spesa si sopperì per sottoscrizione; sul nastro leggesi la seguente iscrizione: Ad Enrico Cialdini — a Palestro, Castelfidardo, Isernia, Gaeta, vincitore sempre — Italia, 1861.

E qui cederemo ancora la parola all’autore della biografia più volte citala, il quale sappiamo essere molto famigliare del chiaro guerriero, e al cui giudizio quindi invitiamo il lettore a volersi attenere.

«Dopo ciò che abbiamo narrato, senza pompa di frasi, senza esagerazione di cose, si scorge chi sia e quanto valga il generale Cialdini; da’ suoi ordini del giorno, concepiti e scritti da lui solo, traspare tutto intero il suo carattere: animo vigoroso e ad un tempo sensibilissimo, si esalta nelle circostanze solenni, fino ad innalzarsi alle sfere della religione ed a quelle della poesia; le gesta valorose, gli sforzi magnanimi lo commuovono e lo inteneriscono fino alle lagrime; le turpi azioni e le opere di barbarie lo accendono di sdegno allo e fiero, sino a chiudere per un momento la via della temperanza per aprir quella dell’inesorabile giustizia.

«Ispirato alle idee ed al sentimento del bello, sia fisico, sia morale, ama la musica, la poesia, le arti, ama la società e gli amici e ne è profondamente riamato.

«Incurante d’accumular peculio, spende, non sciupa, liberalmente il suo; se dovere di delicatezza non ce lo vietasse, diremmo come ad opere generose molte volte l’impieghi.

«Egli è deputato al Parlamento nazionale per Reggio dell’Emilia; finora non ne esercitò le funzioni, e di rado comparve nell’aula dei deputati; ma siamo convinti, e con noi lo sono tutti i militari che udirono i suoi discorsi, che si distinguerebbe assai per maschia ed elegante eloquenza.

«Noi vorremmo dire di più sul suo carattere; ma per togliere ogni idea di parzialità dal labbro nostro, riferiremo invece la pittura che un bravo ed intelligente capitano di stato-maggiore ne faceva in una lettera che non ha guari ci diresse:

«Ecco, scrive egli, i suoi caratteri generali; calma e maturità di giudizio nei progetti; tenacità di proposito; ardimento e fermezza nel condurli ad esecuzione; coraggio personale a tutta prova, e grande freddezza al fuoco; molta conoscenza della guerra, specialmente di montagna; severità molta, autorevolezza immensa ed un certo dono naturale nel comandare da far si che nessuno de’ suoi subordinati si azzardi a far osservazioni ai suoi ordini, od a non eseguirli con quell’energia ch’egli ha il potere d’imprimere.

«In certe circostanze, e nel primo impeto, spinge la severità fino alla durezza, e se vuoi, fino alla violenza; ma rinviene in sè prontamente, ed essendo dotato di ottimo cuore, le disposizioni date in questa condizione di cose o dell’animo suo, non portano mai a conseguenze deplorabili. Prova ne sia la seconda lettera a Fergola da Messina.

«Non servì mai in corpi speciali, di stato-maggiore, d’artiglieria o del genio; ma sul campo di battaglia dirige bene anche queste armi. Pel resto, o per scelta propria o per caso, ebbe sempre a’ suoi ordini ufficiali di merito eminentissimo del genio, dello stato-maggiore e d’artiglieria: Menabrea, Valfrè, Cugia, Piola, Franzini, Mattei ed altri, di cui va superbo l’esercito. Capirai dunque che quando si è secondati da simili ufficiali, tutti peritissimi nella loro sfera, si è sicuri di riuscir bene.

«A tutte le doti del Cialdini, che per dir vero sono moltissime e tali da costituire per sè stesso un eminente generale, aggiungi una fortuna da non trovarsi pari, ed un grande accorgimento nell’evitare quelli uffici che si scostano dal mestiere propriamente eletto. È un uomo d’azione; e renderà ancora, ne son certo, grandi servigi al Re e all’Italia.»



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