< Il Parlamento del Regno d'Italia
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Giuseppe Arnulfo Francesco Avesani
Questo testo fa parte della serie Il Parlamento del Regno d'Italia


Giovanni Arrivabene.



L’importante personaggio del quale ci accingiamo a descrivere la travagliata e benemerita esistenza ha singolarmente diminuito il nostro compito in ciò che lo riguarda, col dare alla luce in questo stess’anno uno scritto a più d’un titolo pregevolissimo intitolato: Memorie intorno ad un’epoca della mia vita, pubblicato in Torino dall’Unione tipografico-editrice.

Si comprenderà di leggeri che tenendo noi questo sott’occhio, avremmo assai cattivo garbo (dappoichè il chiaro autore e gli editori del medesimo ci hanno concessa facoltà d’usarne liberamente al nostro intento) se volessimo per ciò che si riferisce a quell’interessante periodo della di lui vita far altra cosa che contentarci di analizzare la semplice, spontanea e commovente di lui narrazione, citandone anche, secondo che il comporta la natura del nostro libro, alcuni brani in intiero. Pe’ nostri lettori sarà tutto guadagno!

Il conte Giovanni Arrivabene è nato in Mantova dal conte Alessandro e dalla marchesa Adelaide Malaspina di Parma, il 24 giugno del 1787.

Forniti gli studi nel liceo della città nativa ei trascorse l’adolescenza e la prima gioventù in uno stato di quasi assoluta inazione, di che egli stesso si rimprovera rigidamente nel seguente modo:

«Allorchè nel 1805 Napoleone stabilì il regno d’Italia io avea diciott’anni. Quel regno ne durò nove, ed io, fiorente di giovinezza, traversai quegli anni, sì pieni di grandi avvenimenti, nel più completo e vergognoso ozio, senza quasi punto curarmi delle pubbliche cose.»

In quanto a noi, senz’essere fatalisti, e facendo quel caso che merita della facoltà del libero arbitrio di cui non impugniamo certo che l’uomo sia possessore, ci permetteremo di fare osservare l’andamento e lo sviluppo della vita di questo dipendere troppo spesso da circostanze esterne ed estranee, l’impulso delle quali sembra sia necessario a modificare il carattere umano, o a determinarne la pratica manifestazione, per attentarci a consentire nel biasimo gettato sovra i suoi anni giovanili dal chiaro autore.

Vediamo tuttavia come accadde che da quell’ozio, per dir così, preparativo, ei passasse all’azione:

«Non fu che dopo la caduta del regno d’Italia — prosegue l’Arrivabene — ch’io incominciai a prenderle a cuore (le pubbliche cose).

«Io vedea, per dir così, divelta una pianta, la quale, invigorita dagli anni, favorita dalle circostanze, avrebbe potuto crescere in modo da coprire di sua grande ombra tutta quanta l’Italia; ed io ne sentiva vivo dolore.

«Le leggi, l’esercito, la moneta, le persone, le cose, tutte insomma del caduto regno io amava; e quanto il nuovo governo veniavi sostituendo io prendeva in avversione.»

E qui facciamo sosta un momento, chè l’occasione ci sembra singolarmente propizia onde porre innanzi un’osservazione capitale per l’istoria del nostro paese.

Seguendo le orme di Botta, Papi e compagni, quasi che tutti gli scrittori storici italiani hanno acremente rimproverato a Napoleone I l’istituzione del regno d’Italia, accusandolo d’aver voluto asservire la madrepatria; noi diremo invece che se Italia sta per divenire oggi una e possente ella deve in massima parte ringraziare di tanto il fondatore della dinastia napoleonica e la monarchia da esso stabilita nella penisola e di cui avea scelto a capitale Milano.

Non abbiamo certo d’uopo di svolgere argomenti onde appoggiare questo nostro asserto; ai dì nostri la benda cade dagli occhi ai più ostinati, e si comincia a veder chiaro nelle nostre faccende passate; ma non è egli tempo di render giustizia aperta ed intera alle intenzioni ed ai fatti di quel sommo che iniziò la grand’opera dal di lui nipote e degno successore oggi sì energicamente ajutata?

Ma continuiamo a citar le parole del conte Giovanni:

«Nacque quindi in me ardente una brama d’indipendenza italiana, di libere istituzioni. Questa brama io andava nutrendo e stimolando colla lettura di quanti più libri e giornali francesi mi veniva fatto di procurarmi. E di questi frutti proibiti io facea parte principalmente a coloro che in politica sentivano come io sentiva; e un po’ ne toccava anche agl’indifferenti, e a chi aveva opinioni contrarie alle mie e persino alle autorità civili italiane e alle militari austriache.»

E qui il chiaro autore ne vien dicendo come gli accadesse di stringersi in amicizia col Confalonieri, col Berchet, col Pecchio, con Pellico e Porro, Borsieri, Mompiani, gli Scalvini e gli Ugoni, tutti nomi d’uomini che molto amaron la patria e per essa crudelmente, ma eroicamente soffrirono.

Un viaggio in Isvizzera in compagnia dell’Ugoni, mostrandogli l’ammirabile spettacolo d’un paese libero, concedendogli il conversare con uomini liberali, gli fece sentire più vivamente il peso della dominazione straniera, parer più brutta e vergognosa la servitù e crescer nell’animo la brama di vedere Italia indipendente.

Questa preoccupazione, quest’esaltamento dell’Arrivabene principiava a farsi vieppiù gagliardo alla vigilia del 1820, sicchè un patriota del 1796 «uomo esperimentato,» come lo definisce il chiaro autore, doveva dirgli un bel giorno:

— Giovanni, tu finirai nel fondo d’un carcere. «Io ridea — soggiunge il nostro conte — di quel profeta di sventure; ma se la profezia di lui non si avverò, fu puro caso.»

La rivoluzione di Spagna mise in cuore all’Arrivabene un’immensa gioja, e l’animo suo s’aprì a grandi speranze; quella di Napoli, che il toccava anche più davvicino e che poteva più prontamente soddisfare ai suoi desideri e mutare le speranze in realtà, portò al colmo il di lui esaltamento politico, sicchè egli anelava di aver occasione d’operare, alla fine, e di metter mano a far cosa che gli fruttasse stima e lode da parte de’ suoi concittadini e giovasse efficacemente alla patria.

Questa tanto agognata occasione sembra presentarsegli indi a poco, e se non è precisamente tale qual egli avrebbela piuttosto desiderata, gli sembra, però, idonea a condurre in qualche modo al sublime scopo. Ma lasciamo parlare l’autore:

«Trovandomi in Brescia, ed avendo visitato una scuola di mutuo insegnamento che Mompiani vi avea stabilito: ecco, dissi tosto a me stesso, ecco un modo di far del bene e distinguermi a un tempo. Ritornato in Mantova, misi immediatamente mano alla fondazione d’una scuola di simil genere.

«In due mesi io avea raccolto in essa circa ducento fanciulli di varie età e condizioni. Essa era piuttosto un esperimento del metodo che una scuola regolare. Molti delli scolari sapevano già leggere e scrivere quando vi entrarono. Alcuni però eranvi venuti ignoranti affatto queste arti, ed in breve tempo le avevano apprese; cosicchè io era fiero del buon successo.»

L’indole filantropica dell’Arrivabene, il suo genio d’economista e d’amministratore principiano a rivelarsi fin da quel punto, ed egli si occupa della sua scuola con un soddisfacimento indicibile.

Confalonieri e Porro imitano il di lui esempio fondando simili istituzioni a Milano; Filippo Ugoni ne mette su una a Pontevico, ed altri altrove. Questi istitutori dilettanti corrispondevano tra di loro sulle difficoltà che incontravano nell’applicazione del metodo, sul modo di sormontarle, sui miglioramenti da introdursi, e l’un visitava la scuola dell’altro ed erano tutti compresi della gioia di chi esce per la prima volta dalle rotaie della vita comune per intraprendere cosa che bella ed utile sia, consacrandosi all’importante missione di rigenerar tutto un popolo, quando la folgore cadde sovr’essi; e chi la scagliava era naturalmente il nemico d’Italia, l’austriaco.

Udiamo come racconti la catastrofe il nostro autore:

«Ma noi ci eravamo fatta una strana illusione da cui fummo tolti ben presto. L’insegnamento mutuo, a somiglianza di tante altre invenzioni, era insegna di partito, del partito liberale. Il governo austriaco doveva quindi essere avverso ad esso; nè potea comportare che uomini ch’ei sapeva nemici suoi, concordi già nel pensiero, lo divenissero pure nell’azione, ed acquistassero per via dell’insegnamento, influenza sul popolo. Egli quindi ordinò che le nostre scuole fossero chiuse.

«Ricevuto appena l’ordine fatale io corsi a Milano, mi presentai al vicerè e ne implorai da lui la revocazione o la sospensione almeno. Egli accolse benignamente la mia domanda e mi permise di tenere aperta provvisoriamente la scuola. Io ritornai a casa pago pel presente e pieno di speranza pell’avvenire. Ma alcuni giorni dopo l’ordine è rinnovato; io ricorro un seconda volta al vicerè, il quale con tuono alquanto severo mi disse che bisognava ubbidire. Ritornai a Mantova, andai alla scuola. I fanciulli stavano ansiosi come accusati i quali aspettano la sentenza che li deve assolvere o condannare; e quando udirono che non vi era più speranza e che forza era separarci per sempre, fu un pianto universale. L’afflizione non potea però a meno di essere in essi momentanea, alla superficie del cuore; in me avea radice nel più profondo di esso. Io aveva presa abitudine ed una seria occupazione, compiendo al tempo stesso un’opera buona. Trovarmene privo ad un tratto, era un gran vuoto nella vita, era cosa insopportabile.»

Rigettato violentemente a quel modo fuor della vita quieta e omogenea che si era creata, l’Arrivabene viaggiò onde tentar di distrarsi e di consolarsi, poi non tardò, rientrato in patria, a prender parte alla cospirazione lombarda del 1821 che doveva appoggiare e secondare l’insurrezione che stava sul punto di scoppiare in Piemonte.

Una conversazione avuta con Silvio Pellico, e nella quale questi gli parlò d’associarlo alla Carboneria, proposizione che fu respinta dal conte Giovanni, una gita in campagna insieme a Pecchio, Borsieri, Bossi e Castiglia, in cui si trattò delle misure da prendersi nel caso che i moti rivoluzionari che stavansi preparando in Piemonte fossersi effettuati, una somma di 1000 franchi rimessa a Pecchio nell’interesse della rivoluzione stessa, furono tutti i delitti politici commessi dall’Arrivabene. Ei doveva scontarli con una prigionia di più mesi, con la condanna a morte in contumacia, con la confisca di tutti i suoi beni, coll’esilio perpetuo. Eppure l’Arrivabene, spirito calmo e riflessivo, tutt’altro che cospiratore, non si faceva illusione sulle cose d’Italia in quell’epoca, giacchè nelle sue memorie ci mette a parte delle riflessioni che gli si affacciavano al pensiero in quello stesso in che poneva a repentaglio la sua libertà e la vita per sostenere una impresa da esso giudicala superiore alle forze degl’italiani ed assurda.

Rendiamo la parola al nostro autore per udire da lui come accadesse il suo arresto; è uno squarcio troppo interessante perchè vogliamo privarne il lettore.

«Era l’ultimo venerdì di maggio 1821. Io era alla Zaita — sua villeggiatura, sei miglia distante da Mantova — in compagnia di alcuni amici. Erano le due dopo mezzogiorno. Facea gran caldo. Io mi era ritirato nella mia stanza e stava sdrajato sopra un sofà; al bujo, sonnecchiando. La mia casa è situata circa trecento passi distante dalla strada postale che da Mantova conduce a Modena. La strada è soda, cosicchè le carrozze correndovi sopra fanno gran rumore. Io odo un suono lontano di carrozze; il suono s’appressa; corro alla finestra; veggo due carrozze entrar nel viale. Scendo precipitosamente la scala, ed ai piedi di essa trovo cinque persone, una delle quali in uniforme colla spada al fianco. Comprendo bene chi sono, immagino a che vengono, ma pure lo chiedo loro. Uno di essi risponde:

«— Siamo messi del governo, ed abbiamo ordine di visitare le di lei carte.

«Io li conduco per tutta la casa. Carte non ne trovano; e non ve n’erano.

«— Ora, dice quegli che avea già parlato, conviene ch’ella venga con noi a Mantova, dobbiamo visitare anche la di lei casa di città.

«Offrii loro da pranzo, non accettarono. Feci portar dei rinfreschi, ne presero. Io li trattai, insomma, o fosse sentimento esagerato dei doveri dell’ospitalità, o vanità di mostrarmi uomo superiore a qualunque vicenda, o piacere di far contrastare la mia condotta coll’ufficio ch’essi adempivano (e v’era forse un po’ di tutto ciò) io li trattai piuttosto come ospiti che come stromenti di sciagura. Io faceva il disinvolto, ma soffriva assai; ed ora, quindici anni dopo — le memorie dell’Arrivabene furono scritte nel 1836 – nel ritornare, nel fermarmi col pensiero su quel momento, un brivido mi scorre per le vene. Gli amici, i domestici erano ammutoliti. Montai in carrozza e andai a Mantova con quella dura compagnia.»

Sebbene la perquisizione praticata dagli agenti di polizia nel palazzo del nostro autore in città non avesse resultato per essi migliore di quella operata alla Zaita, tuttavia l’Arrivabene, dopo aver trascorsa la notte in sua casa, ma guardato a vista, viene l’indomani mattina, in compagnia di due gendarmi e d’un commissario, inviato a Venezia, ove doveva, erasegli detto, comparire dinanzi una Commissione che avea per ufficio speciale di giudicare gli affari di carboneria. L’inquietudine e lo sgomento del conte Giovanni ebbero a sminuire d’assai nell’udir quest’annunzio; di fatti, se non trattavasi che di carbonarismo, egli si reputava sicuro d’esser rimandato assolto, mentre sapeva di non aver mai fatto parte di quella setta nè di alcun’altra.

Giunto di nottetempo a Venezia e rinserrato in un piombo, l’indomani a mezzogiorno fu condotto dinanzi ai giudici processanti che gli fecero subire un lunghissimo interrogatorio, assai vago, e che si aggirò principalmente sull’aver egli letto fogli napoletani e aver comunicato ad altri tali letture, sull’affare della scuola di mutuo insegnamento, volendosi che l’inquisito convenisse d’averla fondata proprio col disegno di cattivarsi l’affezione del popolo onde trarne partito nei futuri contingenti rivoluzionari.

Interrogatore principale era un tal Salvotti, tirolese, che l’autore dipinge bello della persona, con occhi nerissimi, nera e folta capigliatura, elegantemente vestito.

Costui, alzandosi in piedi ad un tratto, mette fine all’interrogatorio, che durava già da quattr’ore, con le seguenti parole:

«— Pellico le ha confidato alla Zaita di essere carbonaro; era dovere in lei di denunziarlo al governo, ella nol fece, quindi è reo del delitto di non rivelazione.»

Tal delitto era punito dalle leggi austriache di quel tempo col carcer duro a vita!

L’Arrivabene avrebbe potuto negare, ma non gli passò neppur per mente di farlo; trasportato invece da un nobile sdegno esclamò: come si potesse pretendere ch’egli denunziasse e tradisse mai l’ospite, l’amico! che se vi erano leggi le quali imponessero tanta infamia, tali leggi erano le più immorali del mondo; che lo si condannasse pure, mentre, se mille altre volte avesse a trovarsi in simil caso, mille altre volte agirebbe nel modo stesso.

I giudici, i quali non erano de’ più perversi, cercarono calmarlo, invitandolo a star di buon animo, mentre riconoscevano militare in favor suo circostanze attenuanti, Pellico stesso avendo dichiarato ch’egli — l’Arrivabene — non aveva accettato le di lui proposizioni.

E qui ne sembra necessario riferire per intero uno squarcio delle memorie del nostro autore, in cui egli spiega come Pellico abbia potuto farsi l’involontario suo delatore.

«Tolga Iddio ch’io faccia carico a Pellico — così si esprime l’Arrivabene — di aver ripetuto alla Commissione di Venezia le poche parole sulla carboneria corse fra noi due alla Zaita. Egli, com’io, com’altri, non avrà saputo resistere a quell’impulso che spinge a dire il vero, avvenga che può. Io faccio poi anche la congettura seguente. Pare in realtà che Pellico fosse carbonaro, o credesse almeno di esserlo; che Laderchi e Maroncelli, venuti di Romagna, lo affigliassero alla setta, nella state del 1820, sebbene non ne avessero i poteri; ch’essi partecipassero per lettera ai superiori loro la fatta conquista, e chiedessero la legittimazione del loro operato; che affidassero la lettera ad un sarto, concittadino loro, il quale recavasi in patria, e che la polizia, infine, o per tradimento del sarto, o con altro mezzo, venisse in possesso della lettera; ciò che determinò l’arresto di Maroncelli, Laderchi e Pellico. Questi, dopo varî mesi di prigionia e di ripetuti tormentosi esami, annoiato, veggendo accumularsi contro di sè le prove, spaventato dalle minaccie dei giudici ov’egli si ostinasse a tacere, lusingato dalle promesse loro ove si decidesse a parlare, avrà confessato di essere stato ricevuto carbonaro. Allora i giudici gli avranno fatto osservare ch’ei si era recato alla Zaita poco dopo quest’avvenimento, e che vi era rimasto molti giorni; che era impossibile, se si considera allo spirilo di proselitismo proprio dei settari ed alla conoscenza ch’egli aveva delle opinioni d’Arrivabene, ch’ei non l’avesse fatto carbonaro pur esso.

«Gli avranno fatto credere che possedevano indizî, prove forse, di ciò; meglio per lui dire l’intera verità. Pellico, posto in tal modo alle strette, avrà risposto: — Gli è tanto vero che io non ho fatto carbonaro Arrivabene, che avendogli confidato ch’io volea farmi tale, egli me ne sconsigliò.»

Tradotto nelle carceri di San Michele di Marano, convento dagli austriaci convertito in prigione di Stato, vi rimase sei mesi, solo dapprima, quindi in compagnia di Laderchi e di Maroncelli, sostenendo con molta longanimità la propria sventura, ed ajutando gli altri due a sostener la loro. La descrizione delle occupazioni quotidiane del prigioniere, delle emozioni sofferte, degl’incidenti occorsi durante la sua cattività, della commovente maniera colla quale si distacca dai suoi soci d’infortunio al momento della sua liberazione, è così interessante, che rammaricandoci di trovarci costretti a sopprimerla, noi invitiamo il lettore a prenderne conoscenza alle memorie stesse dell’Arrivabene.

Ricevuto con festose accoglienze a Venezia, e più a Mantova ed in Milano, ei non potè fruire a lungo della gioia di vedersi libero e amato e stimato meglio che mai. Gli arresti de’ compromessi politici, sopratutto pei moti del Piemonte e per quelli che dovevano secondarli in Lombardia, si succedevano e si moltiplicavano intorno all’Arrivabene con una rapidità spaventosa. Ai primi d’aprile del 1821 la fatale notizia dell’imprigionamento di Mompiani e di Borsieri gli fa prendere la salutare decisione di espatriarsi, decisione ch’ei mette ad effetto in compagnia dello Scalvini, d’Ugoni e d’un fido domestico. Dopo mille contrattempi e perigli corsi e miracolosamente schivati, la cui narrazione nel libro del chiaro autore riesce delle più attraenti, i quattro fuggiaschi pervengono ad oltrepassare il confine e a metter piede in Isvizzera.

«Io ignoro — esclama pervenuto a tal punto del suo racconto l’Arrivabene — se l’esilio, adulto ormai di sedici anni, avrà un termine per me, o durerà quanto il viver mio. Ma ove mi fosse dato riporre il piede sulla terra natale, io ricalcherei, potendolo, le stesse orme che tracciai fuggitivo, e andrei in cerca (per benedire gli uni, benedire e ricompensare nuovamente gli altri) di tutti coloro i quali, ricchi o poveri, educati o rozzi, congiurarono con tutte le potenze del cuore e della mente alla mia salvezza. Oh che gioia, che contentezza di sè medesimi non avranno mai provato coloro fra essi che saranno poscia venuti a conoscere a quale destino mi avevano sottratto!»

Giunto nell’agosto successivo a Parigi, il chiaro autore non tarda a leggere in un numero della Gazzetta di Milano ch’egli è accusato d’alto tradimento insieme a otto altri contumaci, e che gli s’intima di comparire, tempo sessanta giorni, dinanzi alla Commissione di Milano, con minaccia del sequestro di tutti i suoi beni ove non si presentasse entro il termine prescritto. Lo s’incolpava di aver fatto parte d’una combriccola, nella quale si conchiuse che la guardia nazionale e la giunta, di cui era disposto a far parte, si attiverebbero al momento dell’invasione piemontese; che allora si proclamerebbe la costituzione di Spagna, e facendosi causa comune coll’inimico (!), si ecciterebbe la popolazione del regno Lombardo-Veneto ad armarsi contro il governo austriaco; essersi, di più, l’Arrivabene incaricato delle operazioni che fossero state necessarie in Mantova onde promuovere l’esito della cospirazione, avendo anche a questo scopo sborsato una considerevole somma di denaro.

Avendo buone ragioni di temere d’essere espulso di Francia, verso il finire del 1822 il conte Giovanni passò in Inghilterra. Nell’autunno del 1823 fu posto il sequestro sopra i suoi beni e il 21 gennajo del 1824 fu condannato a morte in contumacia. Rimasto quattro anni in Inghilterra, si trasferì nel Belgio, ove fissò stabile dimora a Bruxelles.

Le fasi burrascose della sua vita, la prigionia, la fuga, la povertà e la proscrizione gli migliorarono, gl’invigorirono l’animo, come suole accadere a tutti gli uomini dotati di qualità superiori; posto al contatto di una maggiore e più variata parte dell’umanità, e trovatala migliore che non gli fosse apparsa attraverso la nebbia de’ pregiudizi nazionali, sentì per quella, e specialmente pei miseri, un amore più intenso e più fruttuoso.

«Lo spettacolo del mondo esterno e delle foggie diverse delle società — conferma egli stesso il chiaro autore — sviluppò la mia mente; e l’attività intellettuale che regna nei paesi in cui vissi, il bisogno di una occupazione che distraesse il pensiero dal considerare le care cose perdute, quello della pubblica stima, tutto ciò mi spinse a far uso di questa mente, conducendo a termine alcuni lavori letterarî, i quali non furono forse affatto inutili al mio paese, e dai quali derivai piaceri purissimi.»

Le opere dell’Arrivabene sono interessanti e benemerite a più d’un riguardo, come quelle che versano tutte su istituzioni di beneficenza e quistioni d’economia politica e sociale, e di miglioramenti da introdurre nell’agricoltura e nella situazione delle classi industriali.

Questi scritti, diversi de’ quali sono venuti alla luce sul Journal des Economistes, di cui l’Arrivabene è uno de’ precipui redattori, dettati con una chiarezza ed una profondità di vedute ammirevoli, hanno prodotto grande sensazione in Europa, e i più vantaggiosi resultamenti nel Belgio, pel qual paese alcuni di essi sono stati più particolarmente elaborati.

Ci duole di non poter che citarne i titoli, che sono i seguenti:

Sulle colonie agricole del Belgio e dell’Olanda, pubblicato a Brusselle nel 1830;

Principi fondamentali dell’economia politica, tratti dalle lezioni pubblicate o inedite di Senior, professore all’università d’Oxford, edito a Parigi nel 1855, e tradotto nello stess’anno e ristampato a Lugano;

Sulla condizione dei coltivatori e operai belgi e di qualche misura per migliorarla, a Brusselle nel 1845;

Situazione economica del Belgio, nel 1845 a Brusselle;

Di qualche società e istituzione di beneficenza in Londra; quest’opera, che ha motivato un articolo interessante di Rossi, comparso nella Biblioteca universale di scienze, belle lettere ecc. di Ginevra, edita dapprima nel 1828 a Lugano, ebbe una seconda edizione nel 1832 nella medesima città.

Chi non farà plauso all’illuminato governo del Re Galantuomo di aver chiamato un personaggio del senno, della scienza e del patriottismo del conte Arrivabene a sedere nell’illustre Senato del nuovo regno italiano?

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