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Giuseppe Ferrari.
deputato.
Quando, in occasione del dibattimento per la cessione della Savoja e di Nizza alla Francia, nella Camera elettiva il presidente Lanza annunciò che la parola spettava al deputato Ferrari, si produsse su tutti i banchi e nelle tribune un movimento assai significante d’attenzione, e gli occhi d’ognuno si conversero verso il seggio dal quale sorgeva il celebre professore di filosofia.
L’opinione generale, n’è pur d’uopo confessarlo, non gli era favorevole: lo si sapeva oppositore, alcuni dicevano repubblicano, altri il giudicavano, o per meglio dire, il ritenevano perfin socialista; tutti si attendevano a udire delle stranezze, e peggio, dalla sua bocca. Delle stranezze ne udimmo, egli è mestieri di convenirne, ma è pure da aggiungere che le furono stranezze improntate allo stampo del genio, e che a quando a quando in mezzo a quell’effluvio d’idee irrompenti, disordinate e sovente sconnesse, dalle labbra dell’oratore, qualche grandiosa e splendida verità balenò all’orecchio degli uditori ed eccitò irrefrenabili mormorî d’ammirazione.
Noi non fummo certo degli ultimi ad esser cattivati e scossi da quelli accenti inauditi, che valevano a brevi intervalli a rallegrare, a stupire, o a indignare la Camera, e naturalmente provammo il più vivo desiderio di avvicinare il rappresentante di Luvino e di conoscere e di studiare dappresso un personaggio a tanti riguardi così rimarchevole.
Questo nostro desiderio è stato appagato; noi abbiamo avuto due lunghi colloqui col Ferrari, ed ora ci crediamo in grado di dar di lui e della sua vita un’idea al lettore, che non si discosti troppo dal vero.
Il nostro protagonista è nato in Milano dal medico Giovanni e da Rosalinda Ferrari nel 1811. I primi studi furono da lui fatti al ginnasio di Sant’Alessandro, se non con fervore, almeno con attenzione e inalterabile diligenza. I suoi maestri erano contenti di lui come di uno scolaro che non mancava ai suoi doveri, ma non potevano certo presagire allora ch’egli avesse a divenire ciò ch’è divenuto.
Il fanciullo era raccolto e meditativo; ma non si esternava facilmente e pareva in certo qual modo non trovasse che le persone ond’era circondato fossero a suo livello. Tuttavia, a quando a quando, gli sfuggivano certe osservazioni che palesavano il travaglio interno d’uno spirito analizzatore, e sorprendevano altamente coloro che gliele udivano proferire.
Così, un tal giorno in un giardino, vedendo al raggio del sole primaverile sbocciar fuora dal suo uovo un insetto, lo si udì un tratto gridare: ecco come nascono gli uomini! Gli astanti non sapevano darsene pace: il fanciullo non aveva ancora sette anni.
Un’altra bizzarra, eppure significantissima specialità del carattere del Ferrari nell’infanzia era l’incredulità la più assoluta per tutto ciò ch’è domma religioso, leggenda e tradizion favolosa. Quanto sapeva di soprannaturale o di maraviglioso, veniva inesorabilmente respinto dal piccolo ragionatore, che custodiva però il segreto del proprio scetticismo, e con una dissimulazione quasi inconcepibile per quella età, si piegava a seguire tutte le esterne pratiche del culto senza dare a divedere nè repugnanza, nè spregio.
Certo, non possiamo non provare un sentimento di commiserazione per quel poco fortunato bambino il quale, negli anni appunto in cui siamo disposti ad aggiunger fede a tutto ed a tutti, negli anni in cui l’iride delle beate illusioni splende de’ suoi più vivaci colori agli occhi dell’uomo, si sentiva già alle prese coi terribili assalti del dubbio.
Comunque siasi, il Ferrari, compiti gli studî preparatorî, si recò a seguire il corso universitario di diritto a Pavia, ove subì con plauso l’esame di dottorato nel 1831.
Scoppiava in quel medesimo anno l’insurrezione delle Romagne; molti de’ condiscepoli del nostro protagonista vi prendevano parte o coll’opre od almeno coi voti; egli vi rimaneva del tutto estraneo. Perchè? perchè non ammetteva la possibilità di riuscita di quegli eroici conati!
Intanto, tornato in Milano, il Ferrari, immerso nella lettura del Vico, e delle opere di David Hume e di Kant, non si distaccava dallo studio e dalla meditazione di quelli che per fantasticare a sua guisa attraverso le ampie e nebulose regioni della metafisica la più trascendentale. Ben presto gliene derivò un tal fermento d’idee, un tal urto d’ipotesi, un tal divagamento di raziocinî, ch’ei dovette farsi un bel giorno, non senza molta apprensione, la seguente domanda: Son io pazzo?
E siccome non si sentiva forse in grado di darsi una risposta abbastanza definitiva e rassicurante, volse gli ocelli intorno a sè per cercare un medico dello spirito nella cui scienza avesse potuto riporre sufficiente fiducia da ammettere per buona e incontrovertibile la di lui diagnosi, e alle prescrizioni del quale gli fosse dato uniformarsi con pieno convincimento di pervenire, così facendo, a calmare e riordinare il formidabile caos che tumultuavagli nel cervello.
Non ebbe a cercar molto, nè lungi: Romagnosi era a Milano e il Ferrari non esitò un istante a recarsi presso di lui.
Certo, se possedessimo un processo verbale della conversazione, durata più di due ore, tra il giovine e il vecchio filosofo, dubitiamo assai che potessimo resistere alla tentazione d’inserirlo qui per intiero. Ma siccome quel processo verbale non l’abbiamo, così ci limiteremo a dire che il Ferrari uscì dall’abboccamento assai più calmo e securo di ciò che il fosse recandovisi. Alla seconda visita che il nostro protagonista fece a Romagnosi nacque fra i due un’intimità tale che poteva quasi definirsi amicizia. Naturalmente, l’uno fu il discepolo, l’altro il maestro. Con sì dotta guida e con una passione per lo studio qual si aveva il Ferrari, i progressi di lui furono pronti, maravigliosi. Il vecchio filosofo gli schiudeva tutto un nuovo e più ampio orizzonte; e sopratutto gli additava i secreti e più spicci sentieri per addentrarsi nel cuor della scienza.
Un’infinità di libri che il giovine studioso non conosceva pure di nome vennero a schierarsi in bell’ordine dinanzi a lui ed egli potè attingervi a piene mani quelle nozioni che sentiva fargli difetto; il carteggio ridondante di interessanti notizie, e di preziose osservazioni de’ sommi che corrispondevano con Romagnosi, la lettura de’ giornali scientifici e letterarî che questi riceveva da ogni paese valsero in breve a far sì che il nostro protagonista, la cui intelligenza era d’altronde svogliatissima, si sentisse tutt’altr’uomo da quello di pochi mesi prima. Allora volle incominciare a provarsi di volare colle proprie ali e sotto il velo dell’anonimo mandò alla Biblioteca Italiana varî articoli che furono inseriti e gustati.
Ciò che vi avea di bizzarro nella relazione, d’altronde strettissima e quasi affettuosa, ch’esisteva tra Romagnosi e Ferrari, si era che quest’ultimo riceveva tutte le confidenze, tutte le espansioni, per così dire, del vecchio filosofo, senza per parte sua annunciargli affatto le proprie idee.
Fosse che non esistesse simpatia di spirito fra quei due, fosse a cagione dell’indole del Ferrari, sempre concentrata e già egoistica — in materia scientifica, vogliam dire — fatto è che il discepolo sapeva bene ciò che si fosse il maestro, ma questi dovette morire ignorando quasi sin dove potesse poggiare la mente del giovine milanese.
È pur d’uopo aggiungere che il Ferrari, malgrado i sentimenti di gratitudine che professa per Romagnosi, ritiene ch’egli fosse uomo incapace di consigliarlo efficacemente, e asserisce gl’insegnamenti che ne ha ritratti doverli piuttosto alle proprie investigazioni sullo spirito pigro, a tal riguardo, ed infecondo del gran filosofo, di quello che alle spontanee di lui ammonizioni.
Avvenuta la morte di Romagnosi, il Ferrari gl’innalzò un monumento degno di cotant’uomo col pubblicare, corredate di dotte ed acute annotazioni, tutte le di lui opere, precedute da quello scritto profondo che intitolo: La mente di Gian Domenico Romagnosi. Tale pubblicazione attrasse l’attenzione del mondo dotto sul giovine autore, e gli articoli, d’allora innanzi mati, ch’egli seguitava ad inviare alla Biblioteca Italiana, e la successiva edizione in sei volumi delle opere tutte del Vico, pur arricchita d’importantissime note, e di quell’altra splendida e grandiosa prefazione ch’è: La mente di Vico, fecero sì che la riputazione del giovine filosofo in breve spazio di tempo, e non sì tosto surta, crescesse gigante.
Allora il Ferrari, sentendosi un po’ al ristretto tra noi, si recò sù più vasto campo d’azione, a Parigi, ove non tardò a levar nome di sè col pubblicare alcuni articoli sulla Revue de deux mondes, due dei quali intorno alle poesie popolari d’Italia, a cagione di cui ebbe a sostenere una polemica assai animata col Journal des savants, polemica che ridondò ancora a merito del giovine autore.
Questi intanto, con quella fermezza di volontà e costanza d’applicazione allo studio che gli son proprie, pose a profitto così efficacemente i due primi anni del suo soggiorno nella gran capitale di Francia che si sentì ben presto in grado di poter presentarsi a sostenere l’esame ond’esser ricevuto dottore in lettere (docteur ès-lettres) alla Sorbona.
Difatto, dopo esser stato dispensato, per opera di Cousin, che aveva concepito una viva stima pel nostro giovine scienziato, dall’esperimento necessario a conseguire il titolo di licenziato, il Ferrari sostenne per ben quattro ore, in presenza di quanto di più cospicuo in fallo di letteratura e scienze acchiudeva Parigi, un esame de’ più difficili, nel modo il più brillante che dir si possa. Le due tesi ch’ebbe a sviluppare furono: La nouvelle religion de Campanella e La théorie de l’erreur.
Soltanto, si produsse durante un tale esame un caso non poco bizzarro e che potrà dare un’idea assai chiara al lettore di ciò che si fosse in quel tempo, in fatto di politica, il giovine filosofo: nel trattare le tesi affidategli egli enuncio e sviluppò, con una foga e una facondia incredibili, le teorie le più rivoluzionarie del mondo, e ciò quasi a propria insaputa e con grande scandalo, in parte, in parte con indicibile divertimento dei sommi personaggi che lo stavano a udire.
Ad ogni modo ei venne ricevuto dottore per acclamazione, giacché in Francia si è sempre disposti a render una certa giustizia agli uomini d’ingegno superiore, qualunque siensi del resto le loro opinioni governamentali; ma invece di affidarsegli una cattedra di primo rango, come il di lui splendido successo sembrava meritargli, lo si mandò professore di filosofia a Rochefort.
Pel resto; l’ignoranza del Ferrari in materia politica era così immane, ch’ei non sapeva neanche cosa si fosser partiti, e ciò a segno tale, che attaccato, a cagione dei principî che gli si attribuivano, da un giornale legittimista, si rivolse ad altro periodico dello stesso colore, onde inserisse la sua difesa e l’apologia delle sue dottrine, rimanendo l’uomo il più stupito della terra, quando quel redattore in capo, con un’urbanità del miglior gusto, gli ebbe significato non essere a quella porta ch’ei doveva bussare.
A Rochefort il Ferrari godè per un anno di una tranquillità studiosissima, della quale indi in poi non doveva fruire così per fretta.
Non solo stese con grande diligenza tutte le lezioni del suo corso, e in modo sì acconcio da poterne in seguito usar sempre, ma si fece ricevere bacelliere in scienze a Bordeaux, e si preparò al concorso per venire ammesso aggregato — agregé — per la filosofia, grado superiore, mediante il quale gli era dato aspirare a qualsiasi più elevata posizione dell’insegnamento in Francia.
Questo nuovo e più importante esame fu sostenuto dal nostro protagonista con non minor plauso di quello da lui conseguito ne’ due precedenti, e il Cousin, rifiutandogli il semplice titolo d’aggregato da esso ambito, il nominò ad un posto assai superiore, confidandogli la cattedra di filosofia presso la facoltà di Strasburgo.
Nell’antica metropoli dell’Alsazia il Ferrari ultimò il suo studio sulla teoria di Platone, studio di cui si era già occupato a Rochefort; inventò un metodo particolare per leggere gli Analitici di Aristotile, e prese a sostenere quella terribile lotta contro il partito clericale che finì nel 1843 colla sua destituzione, ordinata dal Villemain, ministro allora dell’istruzione pubblica.
Rientrato allora in Parigi, vi pubblicò il suo libro: Sur les principes et les limites de la philosophie de l’histoire, nella cui prefazione accenna alla guerra suscitatagli contro dal clero, e sapendosi più che mai inviso al Villemain, volle tornare all’insegnamento a costui dispetto, col presentarsi di nuovo al concorso d’aggregato. Ma, benchè egli ottennesso nella solita splendida maniera questo posto, i suoi nemici gli negarono, com’era da prevedersi, una cattedra, col porlo in disponibilità.
Da quel momento fino al 1848, in cui dal Carnot venne solennemente reintegrato nell’università di Strasburgo, il Ferrari non ebbe più parte all’insegnamento, e nel 1849, vedendo gli avvenimenti politici prendere una piega non consentanea alle proprie aspirazioni, egli è da credere il nostro protagonista comprendesse essergli impossibile di continuare a dettar lezioni nel modo ch’ei l’intendeva, dappoichè pronunciò, in occasione del dibattimento sorto in seno dell’Assemblea nazionale, a proposito della spedizione di Roma, una allocuzione nella sua scuola, che doveva inevitabilmente tirargli addosso la destituzione.
Essendo stato effettivamente sospeso dalle proprie funzionasi restituì dapprima a Parigi, rimettendosi a scrivere sulla Revue des deux mondes; quindi nel 1850 tornato in Italia, vi pubblicò varî opuscoli, in nostro idioma, e dettò posteriormente i due volumi della Filosofia delle rivoluzioni, editi a Capolago, inquisiti a Casale, e a cagion dei quali l’editore Giovanni Cattaneo fu condannato a nove mesi di prigione.
Recatosi di bel nuovo a Parigi, vi dette alla luce un opuscolo sul colpo di stato del 1852, in cui giudicava quell’avvenimento politico favorevole alle sorti della nostra penisola; poscia incominciò a metter fuora i suoi quattro volumi editi dal Didier sulle Revolutions d’Italie, e affatto recentemente scrisse e stampò, a mezzo dei fratelli Levy, la sua Histoire de la raison d’Ètat, libri che non ci permetteremo di giudicare, ma di cui la stampa estera si è molto occupata in senso lusinghiero pel loro autore.
Il Ferrari non è neanche adesso uomo politico; egli stesso ne conviene, e lo ha del resto ampiamente dimostrato in seno al Parlamento nazionale, nelle due circostanze in cui ha preso la parola. Ciò nonostante, confessiamo apertamente che non sappiamo dolerci che un simile personaggio faccia parte della Camera dei deputati. Egli è senza fallo uno dei più eminenti individui del nostro paese al dì d’oggi, e se non è conosciuto come dovrebb’esserlo in Italia — colpa in gran parte della nostra stampa periodica che si occupa di tutt’altro fuorchè di dar notizie ed analisi delle opere scientifiche ch’escono in luce all’estero, sieno pur anche tali opere compilate da italiani — non è men vero ch’egli è bene al suo posto, sedendo sui banchi di quell’aula nella quale devono raccogliersi gli uomini ad ogni riguardo i più cospicui e autorevoli dell’intera penisola.