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Massimo D’Azeglio.
TAPPARELLI D’AZEGLIO cavalier MASSIMO
senatore.
I due fratelli d’Azeglio in questo si somigliano, che entrambi amarono svisceratamente e coltivarono con successo le arti, entrambi dedicarono la propria esistenza alla patria, giovandola cogli scritti, colle opere e colle armi. — Ma Massimo, dotato di un carattere più avventuroso e sbrigliato, di un’immaginazione più accesa, di un sentire più entusiastico e più subitaneo, fu più artista e letterato, nella precisa espressione del termine, che nol divenisse il fratello maggiore, rimasto sempre a vivere una vita più uniforme e consentanea alla di lui nascita ed al rango della sua famiglia.
Massimo d’Azeglio, nato nel 1801, fu al pari degli altri due suoi fratelli educato in Toscana dapprima, pel qual paese conservò poi sempre la più viva predilezione, quindi rientrato in Piemonte abbracciò, com’era costume allora pei figli cadetti delle famiglie nobili, la carriera dell’armi.
E per qualche tempo visse la vita delle guarnigioni, e si addiede ad un genere di passatempi tutti mondani e soldateschi, di cui la sua mente elevata ed il nobile suo sentire non tardarono a disgustarlo. Eppoi eravi l’istinto, o per meglio dire, vocazione dell’artista che irresistibilmente il persuadeva a dedicarsi a tutt’uomo alla pittura, le opere dei cui gran maestri aveva ammirate con un’attenzione superiore all’età sua quando da fanciullo aveva vissuto alcun tempo presso il padre ambasciatore del Piemonte in Roma.
Domandò quindi il consenso al genitore onde lasciare la carriera dell’armi e mettersi di gran lena a studiar la pittura nella città eterna. — In alcune memorie scritte intorno alla propria vita da lui medesimo, e cui noi avremo ricorso più d’una volta nel redigere questi cenni biografici, il d’Azeglio narra qual accoglienza facesse il padre alla di lui preghiera.
«Egli (dice l’Azeglio del padre) che mi amava assai, ma di quell’amore virile che solo può formare gli uomini, volle mettere alla prova la mia fermezza. Mi disse ch’egli non approvava la mia idea; ma che se pur volevo andare a Roma a far l’artista, v’andassi, ma che non m’avrebbe dato altro se non quanto mi dava a Torino pe’ miei minuti piaceri. Io, che mi fidava dell’avvenire del mondo, di me e di tutto (cosi è l’uso a vent’anni), e che inoltre ho sempre amato un po’ le avventure, accettai, e sarei andato anche senza nulla, onde ne partii con l’equipaggio della bolletta.»
Giunto a Roma, l’Azeglio si adattò a far vita da vero artista, vestendo poveri panni, mangiando cibi comuni e non prendendosi altri divertimenti che quello del cavalcare, che in que’ paesi non costa caro, ed il far gite per valli, per monti e per boschi a studiar la natura e a tentar d’imitarla co’ suoi pennelli e colle sue matite. — Del resto, per fare meglio, che noi potremmo con molte parole, concepir netto al lettore qual si fosse al giusto il genere di esistenza che conduceva il d’Azeglio in Roma, quai sentimenti nutrisse, quali occupazioni avesse, e quali speranze l’animassero, noi riprodurremo ancora quel ch’ei ne diceva egli stesso.
«Avevo, ha scritto il nostro protagonista, dai venti ai venticinque anni, buona fibra, pochi pensieri e meno quattrini. Nessuno sapeva che fossi al mondo, e io voleva farlo sapere. — Diventerò pittore, dissi, e farò parlar di me. — Detto, fatto. Dal maggio all’ottobre per una diecina d’anni, mica un giorno, corsi paesi. Ora in un luogo, ora in un altro piantavo i miei penati in casa d’un contadino, dove pagavo dozzina e viveva con la famiglia. Vestivo quasi come loro, come vestono i meno poveri, cioè una camiciuola, giacchetta di velluto bleu, calzoni idem; aveva un cavallo sferrato, come tutti in Campagna di Roma, sella come i vaccari, vale a dire cogli arcioni alti un palmo davanti e di dietro a mo’ degli uomini d’arme dei cinquecento. Due bisaccie, un cappotto castagno ricamato in seta verde; un pungolo, specie di lancia, ovvero una mozzarella o bastone di corniolo, lungo due metri, con una boccia dello stesso legno in punta. E questi ordigni servono a difendersi dal bestiame che vive alla libera in Campagna di Roma; aveva ad armacollo un buono schioppo ed il coltello nella tasca dritta dei calzoni — sicuro, anche il coltello — paese che vai, usanza che trovi.»
E più lungi:
«M’alzavo col sole; e per prima cosa preparavo la tavolozza e la cassetta, ove stanno tutti gl’infiniti impicci che possono occorrere pel lavoro; che a scordarne un solo c’è il caso di non poter più far nulla. Poi scendevo alla stalla, mettevo la bardella al ciuco, e lo caricavo delle seguenti robe: un pajo di bisaccie con entro la colazione, una bottiglia d’acqua e vino, libri per leggere, album per disegnare, un palosso per isfrascare, tagliare erbaccie e pulire il terreno, ove s’ha a lavorare (palosso che mio padre portava alle cacce di Corte, e ch’era sceso a quest’umile esercizio), cordicella, spago, chiodi, caviglie, ecc.; il necessario insomma per piantar bivacco. A destra della bardella, pendenti in un fascio, cavalletto, ombrello, sediola, spuntone, e la cassetta nella quale riponevo la tela alla quale lavoravo, per salvarla dalle carezze delle frasche e di chi passava. Messo in ordine il ciuco a questo modo, gli saltavo su a sedere colle gambe a sinistra a penzoloni per pareggiare la soma; un discreto schioppo a due tiri in mano, la Camiciuola su una spalla, come gli eleganti di Marino, e via in campagna.
«Giunto sul luogo del lavoro, che talvolta era distante assai bene, cominciavo l’apparecchio, non breve, tanto più se era giornata nella quale convenisse premunirsi contro il vento. Ecco come si fa. Prima fissar l’ombrello, e raccomandarlo con lunghi spaghi a qualche ramoscello pieghevole onde consenta, e non si strappi ad una ventata. Poi piantare il cavalletto e suvvi la tela, legati ambedue ad una corda che tiene sospeso un sasso fra i tre piedi, acciò non facciano anch’essi un volo (una volta sotto l’Etna il vento mi portò via fin la cassetta, che non è una paglia). Poi metter la colazione in salvo dai formiconi, il bere in fresco, se si può, e finalmente sistemare il ciuco, che non se la colga mentre lavorate.»
Nel mentre ch’ei così si dedicava a tutt’uomo all’apprendimento di un’arte nella quale non doveva tardare ad eccellere, non si ristava dagli studi letterari e dal coltivare alcuni degni personaggi, la cui sapienza pareggiava l’amore che nutrivano per la patria italiana. Sembra che fosse a cagione appunto della dimestichezza colla quale l’Azeglio viveva insieme ad essi, quando le sue escursioni pittoriche noi riteneano lungi da Roma, ch’egli venne preso in sospetto dalla polizia, nel modo ch’ei curiosamente narra e che ci sembra dover citare qui appresso:
«Io era a Roma tutto tuffato nei miei studi, giovine affatto, tanto non mi pareva potesse portare il pregio di mettermi in linea di cospiratore. Tuttavia fui iscritto nel libro della polizia. Un giorno, con mia gran meraviglia, ebbi invito da monsignor Bernetti, governatore di Roma, che fu poi cardinale, d’andare al palazzo Madama. Questo prelato, amico alla mia famiglia, avendomi conosciuto bambino, stava in qualche ansietà di quel che potesse seguire del mio esame alla polizia. L’interrogatorio si fece nelle forme legali, presente un assessore, che ne stese processo verbale. Non si trattava che d’inezie e non mette conto parlarne. Quando si pose fine all’esame, ed io ne usci netto e candido, il governatore prese un’aria di mortificazione, quasi sentisse la necessità di giustificare la brutta parte che avea fatta, e mi disse queste parole che non dimenticherò mai fin che viva: «Cavaliere, mi dispiace . . . sono cose odiose ... ma che vuole?... come si fa?... l’Austria ci obbliga, il duca di Modena ci manda le note... si sa... non si può fare altrimenti... sono più forti di noi!» Il governo romano mi insegnava ad arrossire del mio paese.»
Una certa profonda passione amorosa, di cui non ci è dato informare il lettore, lo indusse ad allontanarsi da Roma per far ritorno a Torino, ove espose un suo quadro, il di cui soggetto era stato tratto da un romanzo della Cottin, e ch’ebbe grande incontro.
«Quelle vicende d’amore, prosegue a scriver l’Azeglio, m’avevano così profondamente colpito, che quando ritornai a Torino mio padre sul primo non mi riconobbe. Rimasi in patria e lavorai a rimetter l’ordine nel mio animo e la pace nel cuore, fu un lavoro che ci volle qualche tempo. Mi diedi a lavorare; cominciai ad illustrare la sagra di S. Michele. Mi stabilì fra quelle rovine per un certo tempo, disegnandole da tutti i punti; quella solitudine, que’ grandi aspetti della natura mi fecero del bene. Questa pubblicazione, della quale io scrissi un testo e disegnai sulla pietra le litografie, non aveva un gran merito nè artistico, nè letterario, ma il pubblico, che m’ha sempre un po’ guastato, se ne chiamò contentissimo, e amen.
«Feci poi nel 1829 il quadro della disfida di Barletta, ora presso il conte Porro Schiaffinati di Milano. Non dimenticherò mai che nel dipingere il gruppo di mezzo mi venne il pensiero che ci sarebbe da fare un romanzo di questo fatto, ma mi parve troppo audace impresa l’essere allo stesso tempo pittore e scrittore. Tuttavia, perchè ho sempre amato di tentare anche il difficile, cominciai a scrivere l’Ettore Fieramosca, principiandolo all’impazzata, senza troppo sapere dove andava a finire. Scritti i primi capitoli, li feci vedere a Balbo, che mi fece un coraggio maraviglioso, e così andai avanti con più animo, alternando questo con altri lavori.»
Recatosi poco tempo dopo a Milano, egli, vi si stringeva di amicizia col sommo Manzoni e poco tempo dopo ne impalmava la figlia Giulia. — Esposti a Brera i suoi quadri, questi incontravano l’approvazione, del pubblico o venivano tutti comprati.
Fatto vedere al Manzoni pure ed al Grossi ciò che egli aveva già scritto del suo romanzo, i due sommi scrittori l’incoraggiavano pure con molta istanza a proseguirlo e a terminarlo, ed in ciò l’aiutarono assai coi consigli e coll’opera. Tanto che il giorno venne in cui gli fu dato pubblicarlo. — E, qui cediamo anche una volta la penna al nostro protagonista:
«E qui, i soliti palpiti; mi ricorderò sempre dell’agitazione, provata, quando, accompagnato da Grossi, m’avviai col mio manoscritto sotto, al braccio per consegnarlo allo stampatore. Coll’aiuto di Grossi e Manzoni, che mi soccorsero nel correggere, le bozze, di stampo,, venne finalmente, quel benedetto giorno, ohe uscendo, di casa mi trovai pubblicato sulle cantonate a lettere da speziale, e stetti un pajo di giorni in aspettativa più morto, che vivo. Finalmente, il primo che incontrai, mio intimo amico, mi disse freddamente; «È vero che hai pubblicato un romanzo? - Io risposi appena e pensai: siamo iti! — Invece, come Dio volle, non eravamo iti. niente affatto, ed il pubblico con la solita bontà mi perdonò anche questa. Visto che proprio incontrava, ebbi, veramente una di quelle allegrezze che ci pagano i giorni di fatica, mo venne, tosto, a mente d’intraprendere un nuovo romanzo, e a forza di cercare, mi tenni sul soggetto, che produsse poi il Nicolò dei Lapi.»
Occupatosi tosto delle ricerche storiche necessarie per la composizione del libro, che ardeva comporre, egli non tralasciava per questo di dipingere, e quando ebbe terminati tre nuovi quadri: Bradamante sotto il castello d’Atlante, La sconfitta del conte Lando e la Vendetta., volle recarsi ad esporli a Parigi. Così descrive i disinganni a cui andò incontro in quel suo viaggio.: .
«Appena arrivato, a Parigi, andai al Louvre per vedermi attaccato a quei muri, ma de’ miei tre quadri, cerca che ti cerca, mi parve di vederne mio su al quinto piano che appena lo conosceva, e degli altri due non ne seppi nuove. Portai le lettere di raccomandazione, una ad un italiano, l’altra ad un francese. — Questi, lette le lettere e inteso il mio caso, mi mostrarono molta premura di favorirmi: presero il cappello e mi dissero: Anderemo da un giornalista. Io domandai: a far che? Quelli mi guardarono in viso per vedere se parlavo sul serio o per burla. Oh bella! mi dissero: se volete farvi strada bisogna passare dai giornalisti. Io che non ho mai amato domandar protezione, nè sopratutto pregare per aver panegirici, mi sentii venire i griccioli, masticai qualche parola e mi mostrai molto freddo; tanto chè quei signori ebbero l’aria di dire: Ma che razza di stupido è questo che fa difficoltà a lasciarsi servire? Ed io, per non mostrarmi ingrato alle loro premure, non trovai modo di dir di no, e mi lasciai trascinare da questo maledetto giornalista, che mi ricevette come un pascià, al quale i miei amici esposero il mio caso, mi guardò con aria di protezione, ed io, a cui parea aver la camicia tessuta di spine, in quel momento non seppi dirgli nulla, e tuttavia, grazie alla protezione, partii con l’appuntamento preso di andare insieme a vedere i miei quadri. Io ringraziai molto i miei amici, ma quando li lasciai decisi che andassero al diavolo i quadri, le cornici e i cavalletti, s’era necessario, purchè v’andasse anche il giornalista, che non vidi più mai. Di fatto nel suo giornale l’Artiste l’orazione funebre che fece ai miei quadri fu la seguente: «Qui veut’voir jusqu’où peut aller l’excès de la facilité, n’a qu’à regarder les tableaux de M. d’Azeglio.» Il giornalista ebbe ragione nel suo senso; io ebbi ragione nel mio; onde, siamo pace e amici più di prima. I quadri poi li vendetti al duca di Devonshire e sono ora al suo castello in Iscozia. Tornato a Milano, n’ebbi una medaglia col titolo: A M. d’Azeglio, prix de paysage. In Milano seguii il mio avvenimento nell’arte: tale in quel tempo per me come per tutti, che m’accadde persino di fare in un anno ventiquattro quadri, tra grandi e piccoli, tutti di commissione.»
E per finire di giudicare l’Azeglio come artista, noi crediamo prezzo dell’opera il riportare in queste pagine il criterio ch’ebbe a proferire di esso sotto quel rapporto il Mongeri, che in tal materia ognun sa ch’è giudice competentissimo.
«L’Azeglio, così si esprime quel dotto ingegno, quando si presentò la prima volta tra noi era maestro. Veniva da Roma, ove aveva studiato profondamente e donde era mosso dietro alla vaghezza della natura italiana, dalla campagna circostante fino all’estrema Sicilia. Il franco e sincero pennelleggiare faceva fede della sua maestria. la qualità de’ lavori dava argomento de’ suoi affetti e de’ suoi viaggi. L’oriente era la scena della morte del conte di Montmorency: l’alto palmizio che teneva il centro del dipinto ricordava la Siria: e tuttavia si discerneva, nonostante l’amistà di quel cielo col nostro, che quella luce soave era piuttosto rapita al nostro sole. Il medesimo era da dire, e con maggiore appropriatezza, del Combattimento di Barletta, che per ragioni più alte e generose che non ha l’arte pura, attraeva l’animo e l’affetto delle moltitudini, le quali non ne levavano l’occhio che per posarlo sopra un altro suo quadro, quasi per intero di figure, la Battaglia di Legnano, argomento ancora più sacro. Noi ricordiamo ancora come una lontana e religiosa visione l’effetto maraviglioso prodotto da quelle pitture. Avvezzi come eravamo a piccoli quadri di paesaggio, al far liscio, minuto, ammanierato del Gozzi (solo alcuni lavori del Vogt e della sua scuola ci avevano fatto tralucere idee migliori), la vastità della tela, l’indole poetica dei soggetti, il concitato svolgersi del pennello, ci abbagliarono quanti eravamo sacerdoti dell’arte e profani. L’Azeglio fu salutato dagl’intelligenti nuovo Claudio, nuovo Salvator Rosa. L’ammirazione perseverò eziandio dopo sbollito l’entusiasmo: e solo taluni, piuttosto per ambizione di acuti osservatori, che per izza censoria, dissero che l’Azeglio mancava di franchezza e d’insieme, che i suoi studi avevano troppo dello scenico, le macchiette troppo rozzamente impresse, sebbene espressive e non mancanti d’una tal quale selvaggia fierezza.»
L’Azeglio rimase dieci anni sul nostro orizzonte, e lasciandoci tramontò senza sparire. A lui la bella e seconda gloria che si può dire l’aurora boreale dell’ingegno. Dal 1831 al 1841 non v’ebbe esposizione che non fosse ricca e splendida di opere del suo fecondo pennello. Agli studi della viva natura, condotti nell’Italia inferiore, erano allora riscontro gli studi fatti nelle sue corse e dimore per l’Italia superiore, tra i quali son da notare quelli di val Brembana nel suo soggiorno alle acque di San Pellegrino, e sopratutto quelli lungo il lago di Como, dove a Loveno aveva preso stanza, anzi erasi creato un piccolo Tuscolo, certo non meno ampio d’aere e ridente di quello che s’immortalò della sapienza di Tullio. E le rive del Lario davano ispirazione e soggetto a dieci quadri, tra grandi e piccoli, dell’esposizione del 1833.
«Se non che egli che sentiva tanto il bello della natura e si poteva contentare della poesia d’affetti e d’immagini che ne traeva, era trasportato dal suo grande auimo e dall’alta fantasia ad animarla delle passioni e degli eroismi dell’uomo. Dandosi al paese istorialo. non solo metteva il piede nel terreno più suo, ma eziandio nel terreno più fertile e promettente e più nuovo nell’arte nostra. Nel concetto complessivo e nell’animazione della natura egli vinceva così i suoi stessi maestri. Certo ch’egli cedeva al Poussin nella trasparenza dei cieli e nell’onda dei terreni sfuggenti; si desiderava il frondeggiare mosso, ricco e vario di Claudio; non ritraeva così maestrevolmente come il Rosa, le parli aspre e rocciose; ma quella sua fusione di natura e di storia, di arte e di poesia, la santa ispirazione di umanità e di patria davano un incanto nuovo ed unico ai suoi dipinti. L’indole dei soggetti facea prepotente l’incanto, ma quell’indole era contemperala al suo spirito e ai suoi veri aneliti cui veniva consentendo l’universale degl’Italiani. Chi rammenta i divini palpiti del ridestarsi degli anelli di libertà e di patria in Italia, può immaginarsi con qual animo venissero riguardati quei dipinti così grandiosi di forma, così robusti ed arditi dì tono e di tocco, che raffiguravano il combattimento di Barletta, ripetuto due volte (l831-1834), quello del Garigliano tra spagnuoli e francesi, ripetuto altresì due volte (1833-1854). Il brindisi del Ferruccio prima della battaglia di Gavinana, e poi la stessa battaglia ove rimase spenta la libertà fiorentina.
«Queste opere, in cui l’aspetto dei luoghi studiato dal pittore veniva rivestito del loro carattere istorico, furono passo alte più pure creazioni della fantasia. Ai suoi voli elesse l’ippogrifo ariostesco. Le magie del Furioso prestarono divini colori alla sua tavolozza. L’ombra dell’Argalia (1834); il combattimento di Bradamante con Atlante presso il castello incantato (1835); il duello tra Ferraù ed Orlando; l’altro fra Rodomonte e Brandimarte; Astolfo che insegue le Arpie (1836); Bradamante che vinto Atlante libera Ruggero; Ippalca che narra a Ruggero il rapimento di Frontino (1837); il duello fra Rinaldo e Gradasso per Bojardo (1838): Sacripante ed Angelica (1839); lasciando altri minori quadretti, formano una corona di opere che per la verità e lo splendore dell’interpretazione dimostrano non solo l’amore del pittore al poeta, ma l’affinità delle loro fantasie. Così forse solo Michelangelo aveva bene interpretato Dante in quei disegni che il mare ingojò.
Se non che l’Azeglio dalle grate immaginative ariostesche, consolatrici di servitù, si volse, d’ordine di Carlo Alberto, a dipinti ricordanti glorie e promettenti riscatti d’Italia; di che negli ultimi anni del suo luminoso passaggio all’esposizione milanese diede il duca Amedeo VI di Savoja che riceve dalle mani dei Bulgari Michele Paleologo (1838). La difesa di Nizza contro Barbarossa e contro i Francesi (1839). La battaglia di Torino e quella dell’Assietta (1848).
Fra tutte queste opere, anzi di tutta la sua decenne esposizione, la memoria si compiace maggiormente in alcuni quadri che riassumono il carattere dell’artista-poeta. I capolavori ci pajono essere: La morte del Montmorency, l’ombra dell’Argalia, il combattimento di Bradamante con Atlante, la Vendetta. La Vendetta, data in dono alla chiesa di san Fedele a sussidio della sua fabbrica ed ora posseduta dal cavaliere Poldi-Pezzoli è veramente mirabile. Chi non conosce almeno le linee principali di questo dipinto, riprodotto dalll’incisione o dalla litografia? Un pendio di strada ohe svolta al suo culmine; alcuni cespugli, un albero scheggiato dalla bufera, non ha guari passata, onde nereggiai ancora ii fondo del cielo; sulla via deserte un uomo spento che giace in un lago di sangue. Si comprende ch’egli non è caduto nella lotta che dopo lunga resistenza — la spada spezzata presso al suo fianco lo attesta — e che ii delitto è recente. Questa scena è una storia.
«Tale è la grande potenza dell’Azeglio; l’afflato poetico, che rinvenne gli alti suggetti, che armonizzò loro, una scena maravigliosa. All’effetto estetico dei suoi lavori concorrono in egual misura la figura e il paesaggio. L’Azeglio possiede quel sentimento, non molto vivo negli antichi e rarissimo anche al dì d’oggi nei paesisti, il sentimento: della natura, ond’egli non ha rivali da Salvator Rosa in poi. Se altri si sofferma innanzi a un quadro del Rosa può trovare dove emendarlo, nubi, frondi, sassi non bene rispondano al vero. Artisti di bassa mano sono in queste minutezze senza peccato; ma, infedele nella minuta espressione; il Rosa era sincero e fedele nel concetto della natura; onde egli solo de’ nostri paesisti scampò, ed aspettò l’Azeglio per consegnargli la face della vita. L’Azeglio è forse più esatto e scrupoloso nel ritrarre dal naturale; ma quando s’infervora nel comporre de’ suoi grandi quadri, il pennello corre rapido, irrefrenato. Egli tal fiata improvvisa. II sole irraggia nelle sue scene, le fronde si agitano, le figure si muovono; dove abbisogna la mogia delle impressioni fuggevoli, come avviene negli sfondi, egli osa tutto, e quasi per farsi perdonare l’ardimento, diffonde poi una verità meravigliosa, in altre parti, come si vede spesso nelle erbe, nell’acque; nei sassi, sui piani più avanzati verso i riguardanti.
«Resta a toccare un tratto poco saputo, che ricresca immensamente il valore morale delle sue pitture. Egli spendeva, la maggior parte del frutto che ne traeva in segreti sussidi agli indigenti. Certo, l’idea del bene che ne derivava gl’infondeva una nuova pietà ed affettuosità, crescendo quella commozione dell’animo, onde sogliono svolgersi le spere più puramente gloriose dell’umano ingegno.»
Intanto egli aveva tirato innanzi interpolatamente il romanzo Niccolò de’ Lapi, dopo aver fatto una lunga dimora in Toscana per ben vedere i luoghi ove si svolgevan le scene di quello. Stampatolo, ebbe una riuscita felice quanto l’Ettore Fieramosca, e se forse al leggitore meno profondo e sapiente non piacque in tutto quanto il primo, ai cullo pubblico gustò forse anche di più; giacchè i pregi storici di quel libro sono de’ più segnalali.
Fino ad ora abbiamo veduto l’Azeglio sotto i due importanti aspetti di pittore e di scrittore; ne resta a mostrarlo dal lato politico e militare.
Tutte le produzioni dell’ingegno del nostro protagonista ce lo hanno di già mostralo penetralo d’amor patrio e disposto più ch’altri mai a dedicarsi a tutt’uomo al rigeneramento italiano. Vediamo come entrasse con animo risoluto nelle aspre ed ansiose vicissitudini del cospiratore.
«Nel 44, dice egli stesso nelle sue memorie, lasciai Milano per prendere il mio domicilio sulla strada maestra. Già conosceva assai bene l’Italia, e per questa conoscenza, considerate le condizioni politiche estere e nostre, mi pareva di sentire nelle viscere della penisola quel rombo che nei vulcani annuncia le grandi eruzioni, Gregorio XVI era vecchio, e sapevo immancabile alla sua morte una di quelle tante convulsioni che afflissero sempre le Romagne sotto il dominio dei papi •••••••
«L’idea ch’era venuto a me, era venuta anche ad altri d’Italia. Molti fra quelli che, avendo preso più o meno parte alle rivoluzioni passate, avevano però abbastanza cervello per conoscerne il vizio radicale, desideravano di lasciare la via vecchia, ma si sentivano impotenti a trovarne una nuova. Da varie parti dell’Italia media ne vennero eccitamenti ad eseguire il medesimo disegno, che aveva già immaginalo, con la differenza ch’essi mi proponevano di divenire una specie di Grande Oriente di tutte le società più o meno segrete, più o meno repubblicane, una specie di grande impresario di tutti gli spettacoli rivoluzionari da darsi in futuro. Io, che non voleva legami con alcuna setta, neppur per sogno, non volli accettare questo generalato, ma dissi che volentieri avrei intrapreso un giro, nel quale articiosamente avrei esposto i miei progetti; liberi coloro cui non piacevano di respingerli. Così rimanemmo d’accordo, ed una mattina me ne partii, solo, per esse certe di non aver meco una spia, e con un vetturino della Marca uscii fuora di porta del Popolo ad intraprendere la mia via crucis. Andava a piccola giornate di paese in paese. Al primo nel quale avevo un nome, ricevetti da questo un secondo nome pel paese vicino, e così di mano in manu potei andare dappertutto. S’intende che per trovare ove abitavano i proprietari dei suddetti nomi, non m’informavo nè dai camerieri di locanda, nè da alcuna di quelle persone che suole prediligere la polizia. Era un piccolo lavoro diplomatico, nel quale aveva abbastanza grazia e di fatto non ho mai compromesso nessuno.»
Il moto di Rimini, che resultò dall’effervescenza riscontrata dall’Azeglio nelle Ramaglie, moto da lui non consiglialo, gli fornì occasione di mandar fuora quell’opuscolo politico conosciuto sotto il titolo: Gli ultimi casi di Romagna, che ognun sa quanto eco destassero io Italia e fuori.
Ma quando nel 1848 l’Italia risorta si apprestò a combattere per la propria indipendenza, l’Azeglio si ricordò allora di aver maneggiato la spada prima di aver tolto in mano il pennello e la penna, e combattè eroicamente sotto le mura di Vicenza finchè cadde assai gravemente ferito in una gamba.
Le sorti italiane cadute a Novara, il nuovo re Vittorio Emmanuele, che voleva conservare le franchigie concesse dal padre e preparare le future battaglie, si scelse a capo del gabinetto l’Azeglio fidando nella sua prudenza per rattemprare le ire crucciose che bollivano all’interno senza che il fuoco sacro del patriotismo e della libertà si spegnessero.
Fu certo un’ardua missione quella per l’Azeglio; ma ognun ch’abbia fior di senno dee convenire che era salutare ch’ei la riempisse. S’egli non l’avesse fatto, e non l’avesse fatto al modo in cui il fece, chi sa se migliori giorni avrebbero ora potuto finalmente risplendere per l’Italia. Vi fu chi chiamò reazionaria l’amministrazione del d’Azeglio; ma costoro non tengono abbastanza conto dei tempi e delle circostanze, costoro non sanno vedere che quel tempo di rèpit era necessario per preparare la strada a quel conte Camillo di Cavour, che doveva tornare ad agitare d’una mano tanto possente quanto sagace la fiaccola del movimento rivoluzionario.
L’espugnazione di Genova e la firma del trattato con l’Austria furono le due ineluttabili necessità che servirono precipuamente a spargere l’aura dell’impopolarità sull’amministrazione del nostro protagonista. Queste ampiamente bastarono presso quegli uomini che non domandano che un pretesto per affannarsi a portare la zappa della maldicenza e della calunnia sulle più nobili reputazioni affine di demolirle, perchè essi tacciassero di reazionario e quasi di austriacante quell’uomo che aveva date tante e sì chiare prove della fede e della carità sua verso l’Italia.
La proposta di una legge sulla stampa atta a raffrenare gli eccessi cui ella si abbandonava, in ispecie dopo gli avvenimenti del 2 dicembre, contro il principe Luigi Napoleone, presidente della repubblica francese, fu anche motivo di malcontento e di rimbrotti contro l’Azeglio, il quale, presentendo che il momento in cui egli doveva cedere il limone dello Stato a mano più energica, se non più devota della sua, sì appressava, dopo aver per poco ricomposto un ministero che sapeva egli stesso non aver probabilità di durala l’si ritrasse con dignità dal potere.
Ne piace estrarre dal discorso pronunziato dal d’Azeglio in Senato, quando si trattò d’approvare il progetto di legge relativo alle fortificazioni di Casale, quel brano col quale egli volle giustificare l’andamento della propria amministrazione, e sopratutto mondarla dalle tacce di reazione o di anti-patriotismo.
«Quando io venni al governo, così parlò l’Azeglio, il paese era occupato da stranieri soldati fino alla Sesia, a Genova i repubblicani erano in aperta rivoluzione. Si prese Genova colla forza, si allontanò l’Austria con gli accordi. Il firmarli, ove si risguardi alla mia vita, fu per me un atto di abnegazione. La Camera dei deputati, irritrosendo, fu sciolta. Gli elettori mandarono nomini che fecero della sorte saviezza. La fede rinacque; l’idea della Monarchia costituzionale fu salva.
«Nel 1850 e nel 1851 il partito del movimento, fidando nel governo e nella corona, non tentò novità; il partito del regresso aveva sugli occhi lo spettro del 1852 e non osava fiatare. Venne il 2 dicembre.
I nemici della libertà esultarono. Si levarono a speranze che il tempo forse mostrerà false.
«Per tutti questi rivolgimenti degli uomini e della fortuna io fui sempre quel desso. Dacchè cominciai a pensare, la mia politica è sempre stata la stessa; la politica cioè della giustizia, e perciò della libertà; la politica della dignità e perciò dell’indipendenza.
«Quando l’opinione trascorrea agli eccessi o della rivoluzione o del regresso, io la combatteva. Scrissi la lettera agli elettori di Strambino, ma scrissi ancora gli ultimi casi di Romagna. Combattei il partito demagogico, e per combatterlo, a Pisa mi trovai stretto tra i birri e d velti andarmene per Maremma; in altri luoghi mi trovai minaccialo dal popolo. Ora il pericolo è altrove.»
Queste energiche e schiette parole, proferite con quell’accento che le fa sentire emanate dal cuore, furono accolte nell’Aula senatoria dai segui della più viva approvazione.
Ricorderemo la missione confidata all’Azeglio dopo la pace di Villafranca presso il gabinetto di S. James, da lui adempiuta con esito favorevole, e l’incarico, forse non troppo consentaneo alla sua indole ed ai suoi mezzi, di governatore della città di Milano ch’egli non sostenne a lungo.
Concluderemo dicendo, che si può perdonare qualche menda e qualche errore ad uno spirito sì elevato, ad un carattere sì puro e sì devoto alla patria quale si è quello di Massimo d’Azeglio.