< Il Parlamento del Regno d'Italia
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Cesare Braico II Ruggero Settimo
Questo testo fa parte della serie Il Parlamento del Regno d'Italia


Urbano Rattazzi.


RATTAZZI commendatore URBANO

deputato

presidente della camera elettiva.


Pochi uomini come questo di cui imprendiamo a discorrere, ebbero a sperimentare nella loro vita politica più ostinati assalti per parte dei loro avversari e difficoltà maggiori nell’esercizio del potere. E pur tuttavia pochi com’egli poterono uscire da siffatta prova, mantenendo tanta autorità di nome. Se talvolta le circostanze gli furono avverse, se tal fiata i suoi oppugnatori parvero nei risultati aver ragione, non è men vero che ad ogni succeder di crisi gli sguardi si portarono e si portano a lui aspettandone un utile consiglio, se non una cospicua partecipazione al governo della pubblica cosa.

A lui s’imputò la sciagura di Novara, a lui le male riuscite elezioni del 1857, a lui la ritardata annessione dell’Emilia e della Toscana, a lui il voler emulare e contrastare Cavour; lo si giudicò sofista di appena mezzana cultura, di poco larghe vedute; lo si pretese abusatore dei pieni poteri nel 1859, lo si disse fautore di un’opposizione taccagna, sterile, inspirata solo da ambizioni personali. Che non si disse altro di lui? Eppure svolgendo le pagine della nostra istoria di questi ultimi tredici anni, trovate il suo nome accoppialo ai più importanti episodi della nostra vita libera, lo vedete quattro volte ministro, e per due volte anzi vero capo del gabinetto; lo vedete due volte presidente della Camera subalpina, lo vedete presidente della prima Camera del regno d’Italia. E quando vi fate ad interrogare gli atti dei due principi ch’egli ha servito come ministro, apprendete che re Carlo Alberto dal suo refugio d’Oporto lo raccomandava come uno degli uomini a cui meglio la monarchia costituzionale potesse affidarsi; apprendete che re Vittorio Emanuele II onora di quella confidente benevolenza che ben si può ambire da molti, ma è singolar pregio di pocbi Il meritare. Domandato infine ai suoi avversari medesimi un giudizio spassionato intorno ad esso, e quando alla verità non faccia veto lo spirito di parte, li udite riconoscere in lui una rara potenza di parola, una mente acuta, un carattere altrettanto saldo quanto integro.

È pur d’uopo adunque dire che in quest’uomo vi abbia una tempra non comune, se potè attraversare tante accuse, tante censure, tanta difficoltà di casi, senza cessare perciò di essere noverato fra le individualità politiche più eminenti d’Italia.

Facciamoci a studiarlo nelle sue vicende e nei suoi atti.

Prima dello Statuto, Urbano Rattazzi era nulla più che un avvocato. Nel campo però della giurisprudenza e nell’arringo forense avevasi già acquistato tal rinomanza, che presso il Senato di Casale, dove teneva la sua dimora, era riguardato facilmente, il primo fra gli altri insigni, quali erano, a cagion d’esempio, Dionigi Pinelli e Carlo Cadorna. Tutto dedito alla sua professione, ch’esercitava con rara nobiltà di carattere, non consta che pigliasse alcuna parte diretta a quel movimento politico che andava preparando la pacifica rivoluzione del 1848. Solo si rammenta essere stato in sua casa che nell’autunno del 1847, all’epoca del famoso congresso agrario, tennero riunione i compilatori dell’indirizzo, col quale volevasi chiedere a re Carlo Alberto l’istituzione della guardia civica.

Aggiungesi ancora che le sue amicizie personali erano tutte con uomini del partito riformatore.

La prima occasione che ebbe a portarlo dal campo forense a quello politico, fu il voto d’Alessandria che nelle primissime elezioni lo proclamava a suo deputato, come ebbe poi a proclamarlo sempre in tutte le legislature.

Entrato così in Parlamento colla prima sessione che inaugurava appo noi il regime rappresentativo, si può dire che d’allora in poi egli spogliasse la veste dell’avvocato per assumere quella dell’uomo politico. E la opportunità di chiarire come in lui fossero le qualità da costituirlo tale non tardava a presentarsi. La Lombardia, inebriata ancora dal disputalo trionfo delle cinque giornate, aveva votalo l’unione al Piemonte; ma corriva alle idee che dominavano in quei giorni d’incomposto entusiasmo, apponeva a tal voto la condizione di una costituente che avesse a regolare le basi della monarchia costituzionale sotto lo scettro della dinastia di casa Savoja. Siffatta condizione in mezzo agli sconvolgimenti ond’era agitata tutta l’Europa, con al fianco la recente repubblica francese, era tale da destare gravi preoccupazioni; ed il partito municipale tra noi ne traeva argomento per suscitare in Torino una grande agitazione collo spauracchio del trasferimento della capitale e del pericolo che poteva correre la dinastia.

Per altra parte il rifiuto di quella condizione poteva debilitare e rimovere il proposito del popolo lombardo d’unirsi al Piemonte e metteva a repentaglio quell’annessione immediata, che sola poteva darci forza nel sostenere il peso della guerra.

Tra questi due pericoli, Rattazzi, unito ai suoi amici non esitò a dichiararsi per il partito che sarebbe valso a scongiurare il più grave. Torino era inquieta; la commovevano le parole di persone autorevoli, quali erano il Pinelli, il conte Cavour ed altri saliti già allora in fama d’uomini politici. Ma Torino era già fin d’allora conosciuta per il suo spirito d’ordine e d’annegazione; e si poteva fare sicuro assegnamento che, anche tocca ne’ suoi sentimenti più vivi, non avrebbe contraddetto al voto dei rappresentanti del paese. La Lombardia invece, e principalmente Milano, era travagliata dalle sette repubblicane, le quali di lieto animo avrebbero colto qualsivoglia pretesto fosse pôrto dal Parlamento per tentare di liberarsi dai regi. Rattazzi scorse che qui stava per il momento il rischio peggiore, e, nominato a relatore della Giunta per le leggi dell’unione, poneva in opera tutta la sua eloquenza e tutta la sua finezza per vincere le paure dei municipali e far votar tali leggi quali le desiderava la Lombardia.

Pier Dionigi Pinelli, che in consimile questione era il più fiero antagonista della Giunta, mirando specialmente a Rattazzi di cui era sempre stato l’emulo già nel foro, in un suo opuscolo mandato alle stampe il 19 luglio di quell’anno tempestoso, diceva:

«Oh voi della commissione, io non calunnio le vostre intenzioni, io vi credo fedeli a quel giuramento che deste con noi alla monarchia e alla dinastia che ci regge; ma lasciate che vi neghi il nome d’uomini di Stato, d’uomini politici, di uomini che abbiano comprese le vere utilità, le vere nccessità della patria.»

Ma nè il Parlamento, nè il paese sancivano tale giudizio; chè le sue leggi furon vinte nel senso della Giunta, ed il paese le accolse con plauso.

Questa battaglia parlamentare, che durò più giorni del giugno e parte del luglio, e che fu cerio l’episodio il più notevole della prima sessione, pose in evidenza il valore di Rattazzi, il quale di lì a pochi giorni era chiamato a far parte del gabinetto Casati col portafogli dell1 istruzione pubblica. Codesto ministero fu il più breve fra quanti ebbe finora il reggimento costituzionale fra noi, dacché la rotta di Custoza precipitando a male le cose della guerra e prevalendo i consigli della necessità che all1 armistizio Salasco faceva succedere la mediazione, dovè lasciare il maneggio della cosa pubblica al partito conservatore.

Al riaprirsi del Parlamento nell’ottobre, trattandosi di eleggere il secondo vice-presidente della camera dei deputati, Rattazzi ebbe 59 voti contro 69 dati al suo competitore Giacomo Durando. Quei 59 voti appartenevano all’opposizione, la quale, costituita in tanta forza, dichiarava così di riguardare come uno de’ suoi principali capi il deputato d’Alessandria.

Ond’è che quando a fronte di tale opposizione di lì a pochi giorni il ministero della mediazione e dell’opportunità doveva cedere, a comporre un nuovo gabinetto, con a capo Vincenzo Gioberti, egli era chiamato dei primi.

Il ministero così detto democratico ebbe due diversi periodi, I’ uno sotto la presidenza di Gioberti, l’altro sotto l’ispirazione e la guida di Rattazzi.

Son note abbastanza le cagioni per cui l’insigne autore del Primato dovette cedere il seggio. Dopo la fuga ignominiosa di Leopoldo II, veggendo infuriare in Toscana la repubblica mal voluta dalla popolazione, egli sognò che il Piemonte, usando generosamente dell’egemonia che gli avevano procacciata e la maggior forza delle armi, e l’iniziativa presa nella guerra dell’indipendenza, potesse e dovesse ristorarvi la monarchia costituzionale. Dispose pertanto una spedizione, non badando, nella nobiltà del suo concetto, che la effettuazione di essa, anche quando fosse stata acconsentita di cuore dal granduca (il che non era), avrebbe provocato il peggiore de’ malanni, la guerra civile, sparpagliava le nostre forze militari proprio nel momento in cui era maggior necessità l’ordinarle e farle compatte sul minacciato Ticino, e, mentre dava un pretesto all’Austria di romper la guerra, ci poneva nella condizione di non poterla sostenere.

Quando questo disegno, già preparalo e maturato, venne dal Gioberti sottoposto al consiglio dei ministri, Rattazzi era assente. Egli però non l’approvava, come non l’approvavano gli altri suoi colleghi e la grandissima maggioranza del Parlamento. Ma per lasciare alla corona la piena libertà di scelta fra i due partilt, egli rassegnò le dimissioni, contemporaneamente a Gioberti. Carlo Alberto accettò quelle dell’illustre filosofo ed incaricò Rattazzi della ricomposizione del gabinetto, del quale perciò egli cominciò allora ad avere tutta la responsabilità.

E come questo gabinetto di lì a poche settimane dalla forza stessa delle cose fu portato a disdire l’armistizio e a romper la guerra, così a lui principalmente si volle dar carico dell’inopportunità di essa, e quasi anche della stessa catastrofe di Novara.

L’intervallo di tempo ch’è trascorso dopo quella sciagura nazionale, i falli meglio appurati e conosciuti hanno ormai fatto giustizia di quella gravissima accusa. Non è tuttavia fuor di proposito il riandare brevemente quel doloroso periodo della nostra storia, e l’esaminare a mente calma le condizioni in cui trovavasi allora il ministero Rattazzi per giudicare se mancò il senno e la previdenza, o se, superiore all’accortezza umana, non vi sia stata una necessità indeclinabile. Riportiamoci indietro di qualche mese. Il 15 ottobre il gabinetto Perrone, in una nota ai rappresentanti d’Inghilterra e di Francia, scriveva:

«La lenteur de la marche de ses nègociations, les graves èvènements qui se passent à Viennë et en Hongrie, l’oppression intolèrable sous laquelle gèmissent les peuples de Italie soumis au joug autrichien, ont surexcitè à un tel point l’opinion publique, soit dans les Etats Sardes, soit dans les provinces Lombardo-Venitiennes, qu’il sera difficile de la contenir plus longtemps. L’ètat de l’Italie rend imminent une explosion bien plus terrible que celle du mois de mars passè; crise que le gouvernement du roi ne pourrait maîtriser, ni s’empêcher de saisir, sans courir les plus grands dangers, et sans manquer à son devoir.»

Pochi giorni dopo la data di questo dispaccio, che così vivamente tratteggiava lo stato morale dell’Italia, impegnavasi nella camera dei deputali una solenne discussione provocata da un brillante e grave discorso del compianto Rulla, la quale anche ai più prudenti e più timidi dava occasione di manifestare il sentimento ch’era predominante in tutti della fatale necessità della guerra. Il conte Camillo Cavour, che allora sedeva sui banchi della destra, fluiva un suo discorso dicendo:

«Quest’ora suprema potrà suonare domani, potrà suonare fra una settimana, fra un mese; ma qualunque volta essa suoni, oi troverà, ne son certo, pienamente uniti e concordi sui mezzi della guerra, come ora lo siamo già tutti sul principio di essa.»

Il ministro della guerra generale Dabormida, quantunque non nascondesse che a ristorare pienamente le nostre forze richiedevasi ancora un po’ di tempo, diceva:

«L’esercito è pronto, l’esercito si è rilevato dallo stato in cui trovavasi dopo l’inaspettato, l’imprevisto suo rovescio»

Il ministro dell’interno, Pinelli, dichiarava:

«Quanto alla mediazione, siamo in questi termini, che si dichiari alle potenze mediatrici che, attesa la tergiversazione dell’Austria nell’assegnare una risposta alle proposte fatte, atteso quanto poco lealmente fossero eseguili i patti dell’armistizio, attese le circostanze attuali del tempo, noi prenderemo consiglio dall’opportunità unicamente, e che non siamo legati che dai patto di denunziare da otto in otto giorni l’armistizio».

E le circostanze del tempo a cui accennava Pinelli, per quanto concerneva l’interno del nostro paese, venivano esposte con una verità che ognuno sapeva di non poter contestare dallo stesso Rattazzi in un abilissimo suo discorso: «Noi siamo, egli diceva, in uno stato il più terribile e il più fatale per una nazione; in uno stato, nè di guerra, nè di pace. Non abbiamo la guerra, ma ne soffriamo tutte le disastrose conseguenze senza averne le speranze. Le forze della nazione si esauriscono; il commercio langue; le finanze rimangono impoverite, le imposizioni ci colpiscono, le braccia sono tolte all’agricoltura senza alcun frutto».

Nè qui stava tutto. Una emigrazione immensa era affluita in Piemonte dalla desolata Lombardia, ed era più che naturale che a lei ogni indugio paresse una vergognosa prudenza, poco meno che un tradimento. II Re dal suo canto, nell’animo cavalleresco sentiva tutte le punture degl’iniqui sospetti che contro lui si diffondevano, ed era impaziente di ritornare su quei campi, dove avevano già arriso alla fortuna d’Italia le vittorie di Rivoli, di Santa Lucia, di Goito, di Pastrengo, di Peschiera. Infine la repubblica, proclamata a Roma e in Toscana, mandava il suo ruggito di minaccia, e con franca ingenuità dalla tribuna Angelo Brofferio diceva:

«Deliberate la pace, ed io vi accerto che la repubblica delibererà la guerra».

Sotto queste impressioni la stessa maggioranza ministeriale era tratta a votare un ordine del giorno il quale dichiarava, che il governo «sul rifiuto delle proposizioni falle all’Austria, afferrerà con franchezza ed energia il momento opportuno di rompere la guerra».

Questa risoluzione era per sè già abbastanza significativa. Pur tuttavia non soddisfaceva ancora l’aspettazione pubblica, ed era adottata dalla debole maggioranza di 77 voti contro 58.

Il ministero Perrone allora sentì che doveva ritirarsi. Successe il ministero Gioberti-Rattazzi, il quale significava guerra pronta. Esso interrogò il paese con elezioni generali, ed il paese rispose inviando alla Camera dei deputati una maggioranza che con più di quattro quinti di voti, all’indirizzo in risposta al discorso della Corona, così esprimevasi:

«Rincorati dall’energico voto della nazione, la quale non può durare più oltre nella fatale incertezza, i deputali del popolo vi confortano, o Sire, a rompere gl’indugi e a bandire la guerra. Sì, guerra e pronta. Noi confidiamo nelle nostre armi; nelle armi sole e nel nostro diritto abbiamo fiducia!» In tale stalo di cose vegga ogni uomo onesto e spassionalo se qualunque ministero, qualunque nome portasse, avesse ancora libertà di scelta. Il gabinetto Rattazzi non fece, intimandola guerra, die obbedire al voto di lutti, ad una necessità indeclinabile, ad una vera fatalità, e chi si sente animo da avvisare che si potesse fare altrimenti, che in altra guisa si potesse salvare l’onore di questo nostro Piemonte, della sua bandiera, della sua dinastia, scagli pel primo la pietra.

All’armistizio di Novara, come ognuno ricorda, tennero dietro i moli di Genova e l’occupazione d’Alessandria per parte degli Austriaci; due falli gravissimi che scoraggiando l’uno la monarchia, l’altro il popolo, potevano trarre a conseguenze funeste e irreparabili.

In Europa l’opinione pubblica non era più per noi, e se l’Austria, fatta ardita dalla sua troppo facil vittoria, non osava spingersi oltre Valenza ed Alessandria, è solo perchè altre potenze avevano interesse proprio a non lasciarla avanzare. Era quello un momento spaventoso, in cui, sebbene già si conoscesse il carattere lealissimo del nuovo principe ch’era succeduto a Carlo Alberto, parevano pur tuttavia non infondali i timori di vedere, con Delaunay a capo del governo, pericolare le nostre libertà interne.

In tale stato di cose era debito dei liberali avveduti di raccogliere in sè, e di avvisare a lutti i mezzi che fossero i più acconci a far nascere e raffermare la confidenza reciproca tra popolo e sovrano e la confidenza dell’uno e dell’altro nella causa della libertà. Era spediente mantenere saldi tutti i principi su cui questa si fonda, ma procedere ad un tempo con cautela e riservatezza. Era necessario non disdire il programma della nazionalità; ma sapere insieme trarre dalla disfatta toccata momentaneamente le più efficaci lezioni di prudenza.

È ispirandosi a questi sentimenti che Rattazzi, accordatosi co’ suoi principali amici politici, si staccava allora dalla sinistra e costituiva quel partito parlamentare che, sotto il nome di centro sinistro, piccolo per numero ma saldamente disciplinato ed autorevole per uomini rispettabili, dovea poi esercitare tanta influenza nella camera subalpina. Il programma di questo partito compariva alla luce nell’Opinione del 5 dicembre 1849. Diceva esso come i principi della sinistra fossero pur sempre i suoi; ma che tutti i veri principi non possono sempre ottenere un’immediata applicazione, che tutti i tempi non arridono favorevolmente ai propositi anche più utili e generosi, che la politica conta sopratutto nella scienza dell’opportunità e che le aspirazioni più elevate e più liberali non escludono che si accetti e si ajuti ogni passo che si faccia nella via d’un perfezionamento graduato.

I partiti estremi, come dovevasi prevedere, sursero a censurare e ad irridere il centro sinistro. La sinistra pure lo trattava da transfuga; la destra, e particolarmente la parte di essa che, anche non affatto avversa alla libertà, credeva ritrovare la salvezza del Piemonte in un gretto municipalismo, la diceva una mano di dottrinari, di sognatori, d’ambiziosi. I fatti però sono là per chiarire se questi giudizi avessero qualche fondamento; chè da un lato alcuni membri della sinistra inano mano fatti più accorti della pratica delle cose, si accostarono al novello partito, e dall’altro, appena il paese si riebbe alquanto, nel seno stesso della destra formossi il così detto centro destro, che grado grado venne accostandoglisi tanto, che, passali poco meno di due anni, li vediamo fondersi insieme e costituire quella maggioranza a cui il Piemonte va debitore del suo essere attuale.

Sarebbe certo un far ingiuria al senno del paese il credere che l’avvedutezza di pochi sia stala la prima cagione di questi lieti risultamenti; ma non è anche contrario alla verità l’affermare che il costituirsi del centro sinistro cogli clementi più temperati della sinistra, come del centro destro cogli elementi più liberali della destra, è uno dei fatti che meglio abbiano contribuito a raffermare solidamente la libertà costituzionale fra noi. E se così è, nella stessa guisa che l’istoria dà merito a Camillo di Cavour dell’avere creato e guidato il centro destro, gli amici della verità non possono negare merito uguale a Rattazzi d’essersi posto a capo del centro sinistro.

Già questo aveva dato prova di sentimenti conciliativi che lo animavano, nella discussione seguita sul trattato di pace coll’Austria, con una proposizione dell’onorevole Buffa che lo stesso Cavour sorgeva a propugnare; e siffatto incidente è tanto più notevole come quello che rivela che il connubio, strettosi poi nel 1852, non era un incidente improvviso, ma trovava la sua ragione e la sua preparazione nei precedenti dei due partiti che allora si fusero in uno.

Il ministero Azeglio mettevasi già in urto con l’estrema destra promovendo la legge Siccardi, alla quale gli uomini del centro sinistro davano tutto il loro appoggio. Il che del resto era interamente consentaneo alle opinioni già espresse da Urbano Rattazzi nel 1849, quando nella qualità di guardasigilli, introducendo in Parlamento un progetto di legge sull’ammissione degli ecclesiastici al patrocinio delle cause civili e criminali, cosi esprimevasi:

«Dura ancora il privilegio del foro ecclesiastico in certe materie puramente civili; ma il governo farà in modo che abbia a cessare quanto prima cosiffatta giurisdizione dei vescovi, la quale, se in secoli già da noi troppo remoti e dominati dalla barbarie riesci di eminente vantaggio e valse a mantenere in uso il romano diritto, ai tempi nostri può dirsi anormale; ed è anzi tutto incomportabile che la giustizia venga amministrata nello Stato e che le leggi vengano applicate da certi giudici, i quali derivano la loro autorità da un estraneo potere.»

E quando in quella discussione il conte Camillo di Cavour tenne lo splendido discorso che fra breve doveva aprirgli la via al suo primo ministero, il centro sinistro capi che quello era un uomo col quale presto avrebbe potuto accontarsi. Ond’è che quando lo stesso Cavour era assunto a ministro dell’agricoltura e commercio, la Croce di Savoja, organo di quel partito capitanato da Rattazzi, così ne parlava: «Il governo dichiarandosi solidario del programma di Cavour acquista quella forza, che noi, tutto il paese, tutta l’Italia gli auguriamo in questo momento.»

E a dare più autorevole significato a queste parole lo stesso Rattazzi, in un abile discorso tenuto nel dicembre del 1850, in occasione del progetto di legge per la tassa sui fabbricati, riferendosi ancora all’arringa tenuta dal Cavour il 2 luglio di quell’anno, così eccitava il ministero: «Il gabinetto non può e non deve dissimularsi che non potrà altrimenti ripararsi dai colpi del partito il quale lo minaccia sordamente e scaltramente, che alzando a fianco della bandiera della moderazione, quella della fermezza, dell’operosità, del progresso, che ponendo mano ardita a quelle riforme che sono nel voto universale e senza le quali esso non potrà sperare, nè in quest’Assemblea, nè fuori, un sincero e valido appoggio.»

Al quale appello franco e leale non tardava a risponder Cavour, il quale, già diventato a quell’epoca il leader del ministero, nella tornata del 50 gennajo 1851 faceva le seguenti dichiarazioni:

«Se mai il ministero venisse a conoscere che per fatto delle persone o delle cose, che per cagioni interne od esterne non potesse più procedere nella via delle riforme, se fosse costretto a sostare, ad arrestarsi nello statu quo, deporrebbe immediatamente .il potere.»

Notiamo questi successivi incidenti siccome quelli che mostrano il continuo ravvicinarsi dei due centri e la preparazione del connubio, il quale perciò allorquando si compiette, non doveva più essere una sorpresa per alcuno. Difatto un semplice convegno tenuto fra Cavour e Rattazzi bastò a farli intesi. Non mancava più che un’occasione in cui l’alleanza dei due centri fosse pubblicamente confessata e consumata.

Tale occasione l’offerse il colpo di Stato compiutosi in Francia da Luigi Napoleone. La crisi avvenuta in quel paese fece sentire i suoi effetti in tutta l’Europa, come ordinariamente succede d’ogni commozione della Francia. l’Austria ne prese tosto argomento per cercare di nuocere le libertà che andavansi radicando nel nostro Piemonte e propose al dittatore napoleonide di accordarsi con lei per ottenere da questo qualche provvedimento in tal senso. Napoleone non volle associarsi a siffatta proposta; ma direttamente per mezzo del suo ambasciatore a Torino consigliava molta prudenza e grande cautela nel raffrenare gli scarti della stampa. Che cosa volessero significare quei consigli era facile troppo a comprendere; e il 17 dicembre del 1851 il ministro guardasigilli Deforesta introduceva nella camera un progetto di legge diretto a punire più energicamente le offese recate dalla stampa ai sovrani esteri.

Era questa una concessione comandata dalla necessità, ma che non lasciava di affliggere il partito liberale. A rassicurare quindi il paese che se il governo ubbidiva alle leggi di prudenza imposte da riguardi di buon vicinato e da condizioni internazionali, non intendeva però mettere il piede nella via della reazione, conveniva dargli qualche pegno di una ferma risoluzione, non solo nel mantenere integre, ma sì pure nello svolgere vigorosamente le nostre libertà costituzionali.

Convinto di ciò il conte di Cavour, a malgrado dei timidi consigli d’Azeglio e di Galvagno, si risolse a fare un passo ardito, quello di staccarsi apertamente dalla destra, di associarsi al centro sinistro e di costituire così sopra altre basi una maggioranza parlamentare più liberale che meglio rispondesse ai voti del paese.

Nella memorabile seduta del 4 febbrajo 1852 l’onorevole Menabrea si assunse di render più facile e più opportuno questo cómpito. Egli, che allora era la lancia spezzata della destra, con un audace discorso che rivelava tutte le speranze e tutte le aspirazioni della parte ultra-conservatrice, uscì fuora a perorare per la necessità d’una riforma radicale della legge sulla stampa, soggiungendo esser venuto il tempo di saltare il fosso.

A fronte di questa dichiarazione, il distacco del ministero dalla destra diveniva ancor più significativo.

Nella medesima seduta parlava contro la legge Deforesta Urbano Rattazzi; ma con quella finezza di modi e quella parola insinuante, che gli sono peculiari, offriva al ministero l’appoggio del proprio partito. All’indomani il conte di Cavour affrettavasi ad accettare francamente l’offerta.

«Sarei colpevole d’ingratitudine, diceva egli, se non riconoscessi che l’oratore, il quale seppe jeri tenere più desta l’attenzione della camera, adoperò le armi più cortesi per togliere ogni amarezza alla sua opposizione. Mi senio inoltre in obbligo di ringraziarlo della dichiarazione che volle premettere al suo discorso, colla quale, in vista delle gravi circostanze in cui versa il paese, promise d’accordare il suo appoggio nella prossima sessione al ministero; promessa di cui prendo volontieri atto; promessa che pregio altamente, perchè se le circostanze consentiranno che l’onorevole oratore lo mandi ad effetto, potremo riprometterci che nella nuova sessioue egli adoprerà nel sostenere il ministero qualche parte di quel grande ingegno che finora adoperò nel combatterlo, onde possiamo acquistar la fiducia di vedere appianata la via nella carriera parlamentare.»

E perchè questa dichiarazione, che onorava tanto chi la faceva quanto la parte a cui era diretta, acquistasse solennità maggiore, lo stesso conte di Cavour, con quella vivacità di parole con cui era uso a troncare anche le questioni più delicate, soggiungeva:

«La camera sarà convinta che io non posso, nè debbo aderire all’opinione manifestata jeri dall’onorevole deputato Menabrea; perocchè il ministero non può in veruna guisa ammettere la necessità di un mutamento radicale della legge sulla stampa nello scopo di renderla più efficace. Il ministero non ha questa convinzione: i membri che lo compongono dichiarano all’opposto che nel caso in cui una simile proposta fosse fatta, partisse essa dai banchi dei deputati dell’opposizione, od in altre circostanze, da quelli che appoggiano il ministero, essi la combatterebbero risolutamente. Forse questa mia dichiarazione sarà tacciata, d’imprudenza, perchè dopo di essa il ministero deve aspettarsi a perdere in un modo assoluto il debole appoggio che da qualche tempo gli prestavano l’onorevole deputato Menabrea e i suoi amici politici. Ma il ministero dichiarò già al cominciare di questa discussione che nelle gravi contingenze attuali stima come primo dovere d’ogni uomo politico quello di manifestare rettamente e senza ambagi i suoi propri intendimenti, di spiegare in presenza del Parlamento e della nazione qual e lo scopo che si propone di raggiungere, quale la condotta che si prefigge di tenere.»

Per tal guisa la fusione dei due centri riceveva il suo battesimo parlamentare. Essa sollevò le ire degli altri conservatori, produsse nel mondo diplomatico qualche viva sensazione, tanto che Azeglio stimò doverne porgere speciali spiegazioni ai rappresentanti del re presso le corti estere; e quando ebbe per prossimo effetto di portare Urbano Rattazzi alla vice-presidenza, poi, in seguito alla morte di Pinelli, alla presidenza della camera, provocò una crisi ministeriale, per cui il conte di Cavour usciva dal gabinetto.

Ma la pubblica opinione che in quell’episodio parlamentare scorgeva una delle garantie più sicure pel trionfo delle idee liberali, lo sancì così apertamente con la sua approvazione, che non tardava Azeglio a lasciare il suo posto per cederlo a Cavour, il quale, da quel punto di nome e di fatto capo del gabinetto, grazie a quella maggiorità che si aveva procacciata coll’alleanza con Rattazzi e col centro sinistro, potè francamente entrare nella via di quella politica che rese immortale il suo nome e fece dell’Italia quello che è presentemente.

Con Cavour a capo del governo del re, dalla presidenza della camera al ministero il passo doveva esser facile per Rattazzi. Egli infatti vi entrava nel 1854 assumendo il portafogli di grazia e giustizia, e poco stante, per l’uscita del conte Ponza di san Martino, anche quella dell’interno.

In questo periodo della vita politica di Rattazzi, il fatto più importante è la legge da lui iniziata e quindi ancora attualmente intitolata dal suo nome, sulle corporazioni religiose. Questa legge, oltre al soddisfare ad un bisogno sociale togliendo di mezzo parecchie corporazioni che non avevano più ragione d’essere, oltre al migliorare la condizione della parte più operosa e meno beneficata del clero, esonerando ad un tempo l’erario da una spesa ragguardevole, rispondeva pure ad un voto del paese, il quale e con la stampa e colle petizioni e con deliberazioni delle sue rappresentanze provinciali e comunali invocando l’incameramento dei beni ecclesiastici, voleva sopratutto qualche provvedimento che sminuisse l’influenza clericale. Essa quindi fu accolta con plauso generale. Se non che, arrivata in Senato, metteva in tale orgasmo il partito delle fraterie e della curia romana che per poco non ne nasceva una crisi perniciosissima. Una proposta presentata in nome dell’episcopato dal vescovo Calabiana metteva il ministero nella necessità di offrire le proprie dimissioni nell’intento di lasciare alla Corona la piena libertà d’azione. Se non che la specchiata lealtà del principe e le più solenni manifestazioni dello spirito pubblico impedirono che la crisi momentanea avesse conseguenze durevoli. Il ministero Cavour-Rattazzi restò al potere, e la legge sui conventi uscì dalla prova. Solo per ispirito di conciliazione fu accettata una proposta del cavaliere Des Ambrois, la quale, invece di conferire al demanio i beni posseduti dalle corporazioni soppresse ed il provento della sopratassa sulle mense vescovili e sui benefizi maggiori, costituì una speciale amministrazione in corpo morale e indipendente dallo Stato sotto il nome di Cassa ecclesiastica.

Il concetto di Rattazzi non era più mantenuto integralmente, ma lo scopo principale ch’ei s’avea proposto era raggiunto; e la legge del 29 maggio 1855 rimarrà sempre titolo di lode per lui che la promosse, e la sostenne poi in una delle più lunghe battaglie parlamentari con un vigore e con tale facondia da fare ammirati i suoi più acerbi avversari.

Inspirato al medesimo principio di far argine all’influenza del clero nemico della libertà e d’impedirne gli abusi, usci pure dalla sua energica iniziativa la legge che ora entrò a far parte del codice penale del regno e che stabilisce pene contro i ministri dell’altare che nell’esercizio delle loro funzioni facesser atto contrario alle istituzioni dello Stato.

È quindi naturale che il partito conservatore prendesse in uggia il nome di Rattazzi e si preparasse a trarne vendetta in ogni occasione che fosse per presentarsi. Sgraziatamente una frazione dello stesso partito liberale si prestò facilmente ad ajutare lo sfogo di questi umori che, prima manifestatisi con sorde ostilità, con ascose manovre, con perfide insinuazioni, in seguito si chiarivano di pieno giorno in un sistema d’accuse e di resistenze quali pochi ministri ebbero ad incontrare.

Sarebbe una storia aneddotica poco edificante quella che avrei ad esporre se volessi narrare in tutti i suoi particolari la guerra pertinace che si mosse contro Rattazzi sul finire del 4856 e per tutto il 4857. Ma questo non è tempo, nè luogo da ciò; e il fosse anche, per le circostanze che volgono la carità di patria me ne tratterrebbe.

Dirò solo che Rattazzi, stanco, non vinto, di quelle ostilità, prendeva occasione delle elezioni generali compitesi sullo scorcio del 1857 per rassegnare le proprie dimissioni.

Lungi però dal fare, una caduta, egli ne aveva tutti gli onori che si concedono ai più benemeriti uomini dello Stato, quando rientrano per poco nella vita privata per ritemprarsi a nuove opere in vantaggio del proprio paese.

Il re, e come principe e come amico, gli dava pubbliche testimonianze di stima e di alletto; e la maggioranza parlamentare chiarivasi disposta a richiamarlo al seggio presidenziale se le cure della sua salute infralita non lo avessero tratto per alcuni mesi lontano da Torino. Tant’è che al riaprirsi della nuova sessione lo vediamo rieletto a presidente con una grandissima maggioranza.

Se non che l’anno 1859, fecondo di tanti avvenimenti per la nazione italiana, attendeva Rattazzi a ben altre prove.

Alla pace di Villafranca egli era chiamato a succedere al conte di Cavour ed a comporre un nuovo ministero.

Per giudicare rettamente il grave cómpito che questo assumevasi, giova riportarsi col, pensiero alle condizioni in mezzo alle quali esso prendeva fra le mani le redini della cosa pubblica.

L’annunzio dei preliminari di pace, giunto tanto più inatteso dacchè seguiva così dappresso quello della gloriosa giornata di Solferino e di San Martino, gettava il paese prima nella costernazione, poi nella più penosa incertezza.

Il pensiero della povera Venezia condannata ad un nuovo trattato di Campoformio, contristava anche i più temperati, i quali da un lato erano dolenti di dovere smettere quella magnifica speranza che aveva suonato nelle parole dell’imperatore Napoleone quand’ebbe ad augurare l’Italia libera Alpi all’Adriatico, e tenevano dall’altro di vedere il Piemonte costretto dalla prepotente forza delle cose a differire il compimento del suo programma ed a compenso dei suoi ineffabili-sacrifici, correre il rischio di essere giudicato gretto ambizioso, facile a contentarsi d’ingrandimenti territoriali, lieto di rinnovare tratto tratto la storia della foglia del carciofo.

I ducati e le Romagne erano in agitazione, inquieta stava la Toscana, dove un partito ibrido sognava di riporre la corona del rinnovato regno d’Etruria sul capo d’un principe forestiero, e dove dall’altro canto si affrettavano ad accorrere diplomatici ufficiali ed officiosi per consigliarla a transazioni ed a temperamenti che volevano significare Italia divisa, e per conseguenza infelice sempre.

Per altra parte, di fronte alle inquietudini ed alle agitazioni popolari stava un protocollo che aveva por tata la nostra questione dal campo glorioso delie armi in quello tortuoso della diplomazia. Qualunque fosse la rivoluzione che ne verrebbe nei consigli della Corona e nelle Assemblee popolari, bisognava trattare, bisognava conferire a Zurigo e venire a patti coll’irreconciliabile nostro nemico, sotto pena d’incorrere l’avversione di tutta l’Europa ufficiale, sotto pena di mostrarsi alleati poco arrendevoli e poco riconoscenti per la Francia.

Tale era la situazione delle cose quando Rattazzi, facendo atto d’annegazione, riassumeva il potere.

Debbo affrettarmi a dire che forse non mai come in quelle critiche circostanze ebbe a mostrarsi cosi maturo il senno della nazione.

Solo abbisognava un nome che la riassicurasse dei propositi liberali e nazionali del governo, uria mano abile che sapesse timoneggiare lo Stato in guisa da non compromettere alcun principio, e di non urtare troppo direttamente contro quella potenza che, volere o non volere, ha pure ancora tanta parte nel destino dei popoli, e che si chiama diplomazia.

E il paese, a cui parve riconoscere quel nome e quella mano nel deputato d’Alessandria, si senti rinfrancato; ed ancora non era trascorso un mese dacchè il ministero Rattazzi-Lamarmora teneva il potere, che le Assemblee di Toscana, di Bologna, di Modena e di Parma dichiaravano voler l’annessione al regno costituzionale della dinastia di Savoja. I voti di quelle Assemblee vennero di presente accolti dal governo del Re con una solennità che tutti ricordiamo ancora col cuore commosso; e qui, a costo di farmi gridare la croce addosso da quei politicanti che comodamente giudicano le cose a posteriori, mi giovi soffermarmi su quest’alto, che fu per mio avviso uno de’ più nobili esempi di prudenza ed insieme d’audacia.

In quel momento le conferenze di Zurigo erano già aperte, cominciava già anzi a farsi strada l’idea di un congresso europeo per l’assetto delle cose d’Italia; la Francia più che mai perorava pel suo progetto di confederazione; i soldati italiani che con la cessione della Lombardia dovevano passare sotto le nostre bandiere erano tuttavia nelle mani dell’Austria.

L’accettazione pertanto e la effettuazione immediata dei voti delle provincie italiane, che avevano fatto atto di dedizione a noi, sarebbe stato senz’altro la guerra, e la guerra insensata, perchè senza speranza di riescita. Dall’altro lato il non accogliere quei voti sarebbe stato un rinunziare per sempre al nostro programma, un gettare le popolazioni dell’Emilia e della Toscana, o nella sfiducia o nelle convulsioni di una violenta rivoluzione.

Il partito preso dai consiglieri della Corona andò all’incontro e dell’uno e dell’altro di questi due pericoli; e mentre salvò intero l’avvenire della nazione, non pregiudicò alcuna delle questioni del momento.

So d’un diplomatico autorevole, il quale appena ebbe a conoscerlo esclamò: «Qui dentro riconosco la razza che un di ha dato Macchiavelli.»

Alla risoluzione di quel partito erano stati chiamati alcuni dei nostri più eminenti statisti, fra cui Camillo Cavour, il quale in quei giorni, dai recessi di Leri, non lasciava di portare il suo appoggio al gabinetto; ma non è esagerato il dire che la parte che vi ebbero direttamente i membri del Ministero vuol essere principalmente attribuita all’intelligenza profonda di Rattazzi.

Nè il Governo, di cui egli era il vero capo, arrestavasi qui; che ben presto le barriere doganali e quelle altre, talvolta più incresciose, dei passaporti scomparivano tra il vecchio Piemonte, l’Emilia e la Toscana; ed ormai queste due ultime provincie traevano da Torino le loro principali ispirazioni e con Torino accordavansi per tutti i loro atti.

Mentre poi l’attenzione del gabinetto Rattazzi era volta da un lato ad osservare con destrezza tutte le convenienze diplomatiche che le necessità comandavano, e dall’altro a indirizzare con fermi e prudenti propositi le popolazioni, si da non lasciar mai cadere 0 pericolare il concetto dch’unificazione italiana, la sua operosità volgevasi con istraordinaria sollecitudine a rivedere e ritoccare la nostra legislazione, sì che le antiche provincie sentissero il beneficio d’una libertà allargala e le nuove avessero minore rincrescimento a lasciare le proprie leggi, per abbracciarne altre che non erano più il patrimonio speciale del vecchio Piemonte, ma costituivano il diritto pubblico di tutto il regno italiano. Esempio forse unico nella storia, com’ebbe a dire con verità una relazione al Re, questo d’una dittatura che dotasse il paese d’una legislazione più larga di quella che fino allora era uscita dai dibattimenti parlamentari. Amministrazione generale dello Stato, e amministrazione comunale e provinciale, consiglio di Stato, e corte dei conti, ordinamento giudiziario e codice penale, istruzione pubblica e pubblica sicurezza, opere pie e lavori pubblici; tutte le materie più rilevanti, attinenti al governo del paese ebbero un nuovo ordinamento, che dovè essere tanto più affrettato, dacchè al conchiudersi della pace per mezzo del trattato di Zurigo scadevano col 20 novembre 1859 i pieni poteri che consentivano di compierlo senza la cooperazione del Parlamento.

In questo lavoro colossale ebbero parte molte delle più elevate intelligenze del paese, alle quali il governo, senza distinzione d’opinioni, fece ricorso; ma la mente coordinatrice, a cui esso doveva costantemente far capo, e da cui prendeva ispirazione, era pur sempre quella di Rattazzi, il quale, oltre alle cure più gravi della politica, da qualche tempo avea dovuto congiungere al portafoglio dell’interno anche l’altro di grazia e giustizia e degli affari ecclesiastici, che l’onorevole Miglietti aveva deposto, non volendo, come deputato di Torino, dare il suo assenso al trasferimento della suprema corte di cassazione nella capitale Lombarda.

Non è mio intento, nè potrebbe essere compito mio quello di difendere tulle quante le leggi vennero alla luce in quel periodo di quattro mesi di pieni poteri.

Lo stesso Rattazzi, con quella lealtà che costituisce uno dei lati del suo carattere, non esitò a dichiarare in pieno Parlamento che la brevità del tempo e la fretta in cui vennero compilate lasciarono in alcune di esse le tracce di qualche imperfezione, che l’opera sagace del Parlamento vorrà presto emendare. Ma quando, dopo due anni di prova, ampliato il regno al di là di quanto si fosse speralo, veggo le principali di queste leggi accettate ormai nelle loro massime fondamentali in tutte le Provincie, come sarebbe a dire quella dell’amministrazione provinciale e comunale, quella sul pubblico insegnamento, quella sulle opere pie, quella sulla sicurezza pubblica; quando vedo gli uomini un di più teneri dell’autonomia amministrativa, come il Ricasoli, accoglierle e far loro buon viso; quando anche dagli avversari medesimi sento rendere omaggio ai principi che le informano, sono tratto a dire che per esse si fece un gran passo nella via dei miglioramenti e delle libertà, e che la storia segnerà con nota speciale di lode quella pagina in cui narrerassi come un periodo cosi travaglioso della nostra vita politica sia stato così fecondo nell’opera legislatrice da fruttare tanto quanto probabilmente non sapranno dare dieci sessioni parlamentari.

Le conferenze di Zurigo, conchiudendosi con un trattato che si limitò unicamente a regolare le condizioni della cessione della Lombardia, dovevano naturalmente risollevare ancor più gli spiriti degli Italiani, i quali capivano molto agevolmente che se le questioni dei Ducati, delle Romagne, della Toscana, per l’avvedutezza della nostra diplomazia e la benevolenza della Francia, erano rimaste iusolute, doveano trovare il loro scioglimento anzitutto nel senno e nell’energia della nazione. Se non che a fronte delle aspirazioni del paese, che irresistibilmente tendeva alle annessioni e cominciava ad impazientirsi degl’indugi, il governo era obbligato a procedere riguardoso, dacchè il congresso era omai indetto a Parigi e già le maggiori potenze avevano designato i loro plenipotenziari. Si poteva pel desiderio del bene d’Italia dubitare ancora dell’apertura di quel congresso; ma qual ministero, per far prova d’audacia, avrebbe voluto esser così improvvido da mostrare coi fatti che non vi prestava fede? Qual ministero si sarebbe azzardalo mai a compromettere con un atto d’impazienza le nostre sorti, in cospetto di quell’areopago, che di giorno in giorno andava annunziandosi con una certezza ufficiale? Pur tuttavia v’ebbero non pochi i quali, qualche mese dopo, allorchè le condizioni delle cose erano sostanzialmente mutate, non si peritarono di accusare il ministero Rattazzi di timidità, e poco meno che di avversione alla pronta annessione, i quali ingrossarono poi quell’accusa con tale una serie d’insinuazioni, di dubbi, di censure, da rendere incomportabile agli uomini che lo componevano il peso del potere.

È a coteste accuse che faceva allusione e risposta l’onorevole Rattazzi, col memorabile discorso da lui pronunziato poi nella tornata del 26 maggio 1860, all’occasione della discussione del trattato relativo alla cessione del Nizzardo e della Savoja.

«Per quanto io fossi avvezzo, diceva egli, a conoscere quanto possano le ire di partito, e per quanto una dolorosa esperienza m’avesse dovuto persuadere a quante calunnie, a quanti ingiuriosi sospetti sieno esposti gli uomini che si trovano sventuratamente costretti ad agitarsi nel mare tempestoso della vita politica; per quanto, io dico, di ciò dovessi esser persuaso, tuttavia non avrei giammai potuto immaginare che oggi mi si volesse far rimprovero di aver avversato l’unione all’Italia centrale, anzi, solo il rimprovero di non averla abbastanza favorita.

«Ricorderò, o signori, che non solo in questo recinto, ma anche fuori di esso, quando l’idea dell’unificazione d’Italia pareva un delirio, un sogno di mente inferma, io era generalmente designato come l’uomo della terza riscossa. Questa era l’accusa che mi si apponeva.

«Or bene, oggidì che codesto sogno pare possa effettuarsi, quegli ch’era l’uomo della terza, quegli che in mezzo a tanti ostacoli mostrava francamente d’aspirare all’unificazione d’Italia, è designato come ostile a quest’unificazione, come meno di altri sollecito di essa.»

E qui l’eloquente oratore facevasi a narrare le molte difficoltà a cui il suo ministero erasi trovato a fronte, come queste difficoltà andavano appena facendosi meno gravi ed indi dileguandosi quando Walewscki usciva dal ministero di Napoleone, quando usciva alla luce il famoso opuscolo Le Pape et le Congrès, quando pubblicavasi la lettera dell’imperatore dei Francesi al pontefice, quando infine il congresso era andato a monte. Era naturale che dopo questi fatti, che di tanto avevano migliorato le cose d’Italia, l’impazienza del paese per l’annessione si facesse più viva; ma è pur d’uopo dire che con tutto ciò il sentiero non fosse più irto di difficoltà, dappoichè il ministero Cavour, succeduto nel gennajo a quello di Rattazzi, e che pure nessuno avrebbe mai osato tacciare di soverchia timidità, ritardò ancora di due mesi l’annessione, e più, per poterla compiere dovette fare quel dolorosissimo sacrificio che fu la cessione di Nizza e di Savoja.

Ma per uno stravolgimento d’idee, che del resto non era straordinario in mezzo a tanta effervescenza degli animi, non si voleva tener conto di tutto ciò al ministero Rattazzi: e poichè vi avesse chi era troppo inclinato a considerarlo come un ministero di transizione solo destinalo a far attraversare meno male al paese la nuova fase creata dai patti di Villafranca, si cominciò a muovergli contro una guerra tale che sarebbe stata ostinazione poco savia il volervi resistere.

«Non v’era atto della nostra amministrazione, continuava a dire Rattazzi nel discorso che già ho citato sopra, che non venisse aspramente censurato. Le leggi, che noi fummo costretti di fare per meglio fondere gl’interessi della Lombardia con quelli delle antiche provincie, erano argomento di continue disapprovazioni per parte di chi non le conosceva; poichè quelle leggi hanno potuto offendere qualche interesse locale, qualche suscettività municipale, ma certo erano informale allo spirito vivificatore della libertà e del progresso.

Non v’era intenzione nostra che non fosse in qualche guisa travisata.

«L’illustre generale che presiedeva alle cose della guerra e della sua amicizia altamente m’onora; quell’uomo la cui vita fu una serie non interrotta di alti di patriotismo ed abnegazione; quell’uomo che aveva ristorato il nostro esercito, che attendeva indefesso a riparare le piaghe ed i mali cagionati dalla guerra, a mantenere ferma la disciplina che dopo una lunga campagna non può a meno di essere scossa; ebbene, quell’uomo, per una di quelle ingratitudini di cui si hanno pochi esempi, era continuamente l’oggetto di censure d’ogni maniera.

«E qui dico con dolore che quella stessa benevolenza che il Re mi portava, quella benevolenza della quale posso menar vanto con fronte alta e serena, quella benevolenza che so avere acquistala non con basse e cortigiane adulazioni, non con vili compiacenze, ma, siccome si può ottenere da un Re leale e generoso, con un linguaggio ossequioso ispirato non da interesse personale, ma solo da affetto verso l’augusta persona e verso il paese; quella benevolenza, o Signori, era pure argomento alle più atroci calunnie che si possono lanciare sul capo d’un uomo d’onore.» Questi accenti, che provenivano dal fondo del cuore, e che erano l’espressione d’un animo nobilmente indignato, trovarono il plauso generale della camera, la quale, se in quel di non si disponeva ad abbracciare il partito suggerito da Rattazzi intorno al trattato in discussione, mostrava tuttavia come sapesse apprezzare quanto in lui v’era di generoso nel cuore ed elevato nella mente.

Il ritiro di Rattazzi, del modo in cui era seguito, era stato un episodio tale da rattristare molti cuori onesti; ma il Parlamento ed il paese seppero ben presto rendergli quella giustizia che meritava. Il paese sapeva di aver sempre in lui uno de’ più sinceri amici della libertà, uno degli statisti più abili; la prima camera del regno italiano, appena convocata, raffermando questo giudizio lo nominava con grandissima maggioranza a suo presidente.

E come presidente della camera elettiva l’onorevole Rattazzi, a cui pure la natura concesse esile la voce e non robusta la persona, rivelò tali doti da farsi desiderare su quell’alto seggio da’ suoi medesimi avversari, sempre quando non ebbe a trovarvisi.

Dignitose nel contegno, cortese ne’ modi, pronto ed assegnato nella parola, facile a cogliere in mezzo al fervore d’una discussione il concetto più o meno aperto dell’oratore, fermo nel mantenere la disciplina, vigile e destro nel ricondurre la discussione sul vero suo terreno, raramente commosso, imparziale sempre, è forse tra i chiamati a reggere i dibattimenti della rappresentanza nazionale, quegli che seppe governarla con più sagacia e con maggiore autorevolezza.

Se non che non è a credere che la prima camera del regno d’Italia mirasse unicamente a queste cospicue qualità, allorquando con una maggioranza inaspettata innalzava Rattazzi al seggio presidenziale. Essa ha voluto certamente rendere pure omaggio, nella persona d’uno fra i più insigni suoi rappresentanti, a questo nostro Piemonte, ch’era stato fino allora il più strenuo preparatore del risorgimento nazionale, e maestro nella vita parlamentare. Ed il fatto è realmente che fra i tipi i più spiccanti dell’uomo di Stato piemontese l’opinione pubblica si era abituata da più anni a riguardare, dopo Cavour, quello di Rattazzi. Anzi s’ebbe talora chi pose l’uno a riscontro dell’altro, quasi il primo personificasse il patriziato illustre ad un tempo per natali e per ingegno, per ricchezza e per elevatezza di concepimenti, quel patriziato che nel campo della libertà contava già i due Balbo e i due Azeglio, e i tre Lamarmora e Alfieri di Sostegno e Perrone di San Martino, e i Santa Rosa e Giacinto Collegno e altri parecchi — quasi l’altro fosse la personificazione di quella borghesia, da cui in altri tempi erano usciti e l’Ormea e il Caisolti e il Bogino.

Probabilmente siffatto riscontro non regge più alla ragione dei tempi presenti, in cui oggimai vi ci vuole uno sforzo a trovare una distinzione di ceto e di classe di cittadinanza; che anche sotto questo riguardo il retto uso della libertà fece camminare alacremente il Piemonte. Ma tuttavia chi si riporta indietro di alcuni anni non può dimenticare che l’aristocrazia era ira noi separata quasi da barriera dal celo medio, a cui concedeva l’esercizio di tutte le professioni liberali, ma cui era sempre disposta a negare ogni superiorità sociale. Ond’è che chi, come Rattazzi, uscito da famiglia borghese, figlio delle proprie opere, voleva aprirsi una via alle più alte posizioni, doveva necessariamente affrontare una serie lunga e continuata di lotte e di resistenze, il vincer le quali solo poteva esser dato a chi avesse vigore di polsi e potenza non comune di mente.

Del resto si asserì pure che la scelta di Rattazzi a presidente della Camera, fosse un atto di conciliazione diretto a cancellare la memoria di alcuni dolorosi incidenti avvenuti allorquando nel 18G0 egli da un lato deponeva e Cavour dall’altro ripigliava il potere — diretto ancora a ravvicinare la falange ministeriale al terzo partito, ricostituitosi sotto la scorta del deputato d’Alessandria, e così a render più compatta la maggioranza nelle questioni nazionali.

E se veramente così fu, come crediamo sia stato, non si può abbastanza lodare l’onesto pensiero, il quale deve avere contribuito non poco a rendere meno difficili i principii di una legislatura che, composta di elementi così vari, in mezzo a tanta gravità di casi, poteva presentare troppo spesso pericolo di lotte infeconde, di sterili discussioni.

Mi avvenne di toccare del terzo partito; e lorchè taluni per intolleranza o per ristrettezza di vedute lo presero a combattere aspramente, perfino negandogli ferme convinzioni ed un programma netto e preciso, non può essere inopportuno dirne qui alcuna cosa, parlando del capo di esso.

La camera uscita dalle elezioni generali del gennaio 1861, all’infuori di alcune individualità che stanno da sè, appena fu costituita, presentò da un lato una piccola minoranza di spiriti insofferenti d’ogni indugio, inaspriti dalle resistenze incontrate nei loro disegni tentati nel mezzodì dell’Italia, facili allo spingere al di là dei confini della prudenza, facili al censurare, passionali, mal soddisfatti degli altri e fors’anche di sè medesimi per la coscienza della propria impotenza.

Dall’altro lato l’Assemblea offerse una forte maggioranza che di buona fede vedeva il proprio programma incarnato in un uomo, alla cui guida perciò si commetteva in piena balia, con fiducia illimitata, senza cercar mai se quell’uomo, a cui nessuno negava tutta l’elevatezza del genio, potesse realmente bastare a tutto.

Ebbene, fra questi due termini, fra queste due forze ineguali, sorse il partito di cui discorro, più inclinato a seguire la politica governativa che ad accettarla senza discussione, più disposto a sospingere il ministero, che a lasciarsene governare, più pronto infine a segnalare i vizi dell’amministrazione interna per ricercarne i rimedi, che a lasciarsi trascinare in un’opposizione sistematica e dissolvente.

Ora, tracciata così la posizione del terzo partito, delineato per tal modo il suo carattere, non arrivo a comprendere come chi sa studiare a fondo le vane gradazioni di una numerosa assemblea, in gran parte nuova alla vita parlamentare, possa negargli il mento di aver costituito un elemento tempratore della opposizione troppo spinta, e d’aver tal fiata servito di stimolo e di freno al potere, il quale, anche allorquando e posto fra le mani degli uomini più intraprendenti e più accorti, ha pur sempre d’uopo d’utili avvertimenti e di sagaci consigli.

In quest’ultima sessione Urbano Rattazzi, occupando quasi ogni dì il seggio presidenziale, non ebbe occasione di prendere la parola come oratore del suo partito. Però anche que’ deputati che per la prima volta ebbero l’onore d’essere chiamati a rappresentare la nazione, per poco che conoscessero la nostra storia parlamentare, non avevano certo d’uopo di nuovi saggi per sapere qual valente oratore sia il deputato d’Alessandria. Di rara nitidezza di concetti e di esposizione, sottile nell’argomentare, incalzante nel conchiudere, destro nel cogliere l’avversario dal lato più debole, dotato di quella facondia positiva e sostanziosa che si dirige più alla mente che al cuore, più a persuadere che ad appassionare e a commuovere, non v’ebbe mai un suo discorso che non fosse accollo con quella viva attenzione che solo una singolare abilità accompagnala da grande autorità morale sa comandare.

E le qualità del suo ingegno, calmo e profondo, che lo fanno così sottile oratore, sono pur quelle che gli conferiscono tale altitudine alle cose amministrative, da levarlo anche in questa parte al dissopra di molti altri. Ond’è che sempre, quando trattossi di chiamarlo nei consigli della Corona, il posto a lui designato dalla pubblica opinione fu sempre quello del ministero dell’interno, che per l’indole sua richiede più prontezza di spedienti, maggior pratica degli uomini e degli affari, risolutezza di carattere ed applicazione più costante.

Urbano Rattazzi nasceva nel 1810 da una delle famiglie borghesi più onorate dell’Alessandrino. Nella famiglia ebbe esempio di patriotismo e di specchiate virtù. Compieva i suoi studi universitari nel collegio delle Provincie, e pochi anni dopo, assunta la laurea in ambe le leggi, veniva aggregalo, dietro concorso, alla facoltà di giurisprudenza di Torino, quale dottor collegiato.

Nell’aringo forense ebbe a maestri ed esemplari que’ due giureconsulti che furono l’onore della curia torinese e dell’astigiana. Giovanni Battista Carnero e Vittorio Fraschini.

Esile ed aggraziato della persona, ei ti parrebbe a vederlo, un giovinotto, se la tinta grigiastra dei capelli non t’avvertisse che ha passato la cinquantina.



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