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William Shakespeare - Il Re Enrico VIII (1613)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
Atto secondo
Atto primo Atto terzo

ATTO SECONDO



SCENA I.

Una strada.

Entrano due gentiluomini da diverse parti.

Gent. Dove correte così?

Gent. Oh Iddio tì salvi! Andavo alla sala del Parlamento per sapere quale sarà la sorte del gran duca di Buckingham.

Gent. Posso risparmiarvi la fatica, signore; tutto è finito, e non rimane che la cerimonia di ricondurre il prigioniero.

Gent. Eravate voi presente?

Gent. Ero.

Gent. Vi prego di dirmi che cosa avvenne.

Gent. Lo potete facilmente indovinare.

Gent. È egli stato trovato colpevole?

Gent. Sì, ed anche condannato.

Gent. Ne sono dolente.

Gent. Moltissimi lo sono.

Gent. Ma ve ne prego, come segui ciò?

Gent. Ve lo dirò in poche parole. Il nobile duca venne chiamato e sostenne con validissime ragioni la sua innocenza. L’avvocato del re lo ha tribolato colle interrogazioni, portando prove e deposizioni di vani testimonii in suo danno: il duca ha chiesto i confronti, e tosto si è fatto venire il suo intendente, il suo cancelliere sir Gilberto Peck, il suo confessore Giovanni della Corte, e quell’infernal monaco Hopkins, autore di tutto questo doloroso processo.

Gent. Era egli quel monaco che alimentava la di lui imaginazione colle sue profezie?

Gent. Quello stesso. Tutti questi testimonii lo hanno accnflato con violenza, e vani sono stati i suoi sforzi per confutarli e rigettarli. Su tali prove i Fari Than detto convinto d’alto tra* dimento, e tutto il suo discorso pieno di maschia e sentita eloquenza è stato dimenticato o non ha prodotto che una sterile pietà.

Gent. E dopo come s’è egli comportato?

Gent. Allorchè è stato ricondotto alla sbarra per udire il suo giudizio e i tocchi della funebre campana, è caduto in sì crudele agonia che è stato veduto coperto dì sudore; ed ha profferite alcune parole in un impeto di violenza, precipitate e troppa mal dette. — Ma poscia ha ripreso i sensi, e si è mostrato placido e sereno, non ismentendo più la sua virtuosa rassegnazione.

Gent. Non credo ch’egli abbia paura della morte.

Gent. Certo no, ei non fu mai molle: ma la cagione della sua morte potrebbe contristarlo.

Gent. Non v’è alcun dubbio che è il cardinale l’autore di tutto ciò.

Gent. Questo almeno sembra. Prima la sua proscrizione di Kildara allora deputato d’Irlanda: e alla sua caduta il conte di Surrey mandato a prenderne il posto per tema ch’ei non soccorresse il padre.

Gent. Fu atto di politica ben malvagio.

Gent. Al suo ritorno, non dubitate, il conte di Surrey lo farà pentire. Fu generalmente notato che chiunque riesce a captivarsi il favore del re è subito impiegato dal cardinale lungi dalla Corte.

Gent. Tutto il popolo lo detesta a morte, e sulla mia coscienza! lo desidererebbe dieci piedi sotterra; il duca invece è amatissimo ed è chiamato un modello di virtù e di cortesia.

Gent. Fermatevi, e vedrete l’illustre infelice dì cui parlate. (entra Buckingham di ritorno dal suo giudizio; uscieri colle bacchette d’argento lo precedono; la lama delle scure dei soldati sta rivolta verso di lui; due file d’alabarde lo chiudono: stanno seco sir Tomaso Lovell, sir Niccola Vaux, sir Guglielmo Sands, e molto popolo)

Gent. Accostiamoci per mirarlo.

Buch. (al popolo) Buon popolo, qui venuto per compiangermi e attestarmi la vostra pietà, ascoltate quello che debbo dirvi e poscia riparate alle vostre case e dimenticatemi. Ho subita in questo giorno la condanna dei traditori, e mi è forza morire con tal nome. Nondimeno il Cielo e la mia coscienza mi sono testimoni che io muoio innocente. Non nutro rancore colla legge per la mia morte; a tenore del processo essa doveva infliggermela: ma desidero che coloro che mi hanno accusato divengan un po’ più cristiani. Siano essi quel che vorranno, io loro perdono con tutto il cuore. Nondimeno pensino a non mettere la loro gloria nel male altrui, e per giungere alle fortune la loro malizia non iscavi ad altri la fossa. Perocchè allora l’innocente mio sangue sarà costretto ad innalzarsi contr’essi, e a gridar vendetta. Io non spero più nulla in questo mondo, e non impetrerò la mia grazia, sebbene il re sia più clemente ch’io non potessi essere colperole. Voi, eletti cuori, che mi amate, e avete il coraggio di compiangere pubblicamente Buckingham; voi suoi nobili amici, suoi fidi compagni, da cui egli stenta tanto a separarsi: sola idea che sia amara al suo cuore, sola che gli faccia trovar crudele il morire; accompagnatemi voi come buoni angeli al termine mio, e allorchè il colpo della mannaia mi dividerà da voi, pregate perchè la mia anima possa salire in Cielo. — Conducetemi in nome di Dio.

Lov. In nome della carità supplico Vostra Grazia, se mai avete celato nel vostro cuore qualche risentimento contro di me, di perdonarmi ora con schiettezza.

Buck. Sir Tommaso Lovell, io vi perdono così sinceramente quanto desidero che a me venga perdonato: a tutti perdono. Non possono esservi offese contro di me, fossero anche innumerevoli, ch’io non sapessi dimenticare: niun sentimento d’odio entrerà con me nel mio sepolcro, — Raccomandatemi a Sua Maestà, e s’ei vi parla di Buckingham ditegli, ve ne prego, che l’avete veduto a metà in Cielo: i miei voti e le mie preghiere s’innalzano ancora pel re, e fino a che la mia anima non mi abbandoni, non cesseranno d’implorare su di lui le benedizioni celesti. Possa egli vivere più anni ch’io non potrei annoverarne nel tempo che mi rimane da stare su questa terra! Amare e farsi amare gli siano norma e guida; e allorchè la vecchiaia lo condurrà al suo fine, la bontà ed esso occupino un medesimo sepolcro!

Lov. Son io che debbo condurre Vostra Grazia sino alla sponda del fiume: là finisce il mio ufficio, e cedo quindi il posto a sir Niccola Vaux, che ha obbligo di accompagnarvi pel resto che vi rimane.

Vaux. Si apparecchi tutto; il duca s’avanza; abbiate cura che la barca sia pronta (ad alcuni del seguito), e che venga decorata con tutta la pompa che si addice alla sua persona.

Buck. No, Vaux: non pensate a tali apparecchi. Le pompe non potrebbero ora che insultare alla mia sorte; allorchè io qui venni ero lord contestabile e duca di Buckingham: ora non sono che il povero Eduardo Bouhn. E nondimeno son più ricco de’ miei accusatori che mai non conobbero il prezzo della verità. Questa verità io ora suggello col mio sangue, e tal sangue sarà un dì espiato dai loro gemiti. Il mio nobile padre Enrico di Buckingham, che primo levò la testa contro l’usurpatore Riccardo, sendo fuggito, e avendo cercato ricovero presso un sno vassallo, fu nel suo infortunio tradito da quel vile e morì senza essere giudicato. La pace di Dio sia con lui! Enrico VII succedendo al trono e tocco di pietà per la morte del padre mio, da re generoso mi rintegrò ne’ miei titoli, e rese al mio nome tutto il lustro antico. Oggi suo figlio Enrico VIII mi ha tolto a un tratto la vita, l’onore e il nome, tuttociò che mi rendeva felice, e gli ha annullati per sempre. Ho subito un giudizio, e debbo confessarlo un giudizio colle forme più solenni, nel che sono stato un po’ più avventurato di mio padre, sebbene moriamo entrambi della medesima morte. Entrambi soccombiamo vittime dei nostri vassalli, d’uomini che abbiamo tanto amati; atto indegno di un servo fedele e contro natura! Ma il Cielo ha i suoi disegni in tutto, e voi che mi ascoltate accogliete per certa questa sentenza che vi detta la bocca di un moribondo. Pensate a non affidarvi con intero abbandono in colui al quale prodigate il vostro amore e i vostri secreti. Perocchè quelli che voi credete vostri amici e nei quali versate vostro cuore, dacchè intraveggono il più lieve ostacolo al corso della vostra fortuna, si allontanano da voi e più non li trovate che all’orlo dell’abisso in cui vogliono precipitarvi. Buon popolo, ve ne scongiuro, pregate per me! Forza è ch’io vi abbandoni. L’ultima ora della mia lunga e penosa vita è suonata. Addio. E quando vorrete raccontare qualche trista istoria, dite in qual guisa io morii..... Così Iddio voglia perdonarmi!

(esce col suo seguito)


Gent. Oh doloroso spettacolo! Io credo che tal morte farà cadere molte maledizioni sulla testa di chi ne è l’autore.

Gent. Se il duca è innocente è un’empietà senza nome; e nondimeno potrei mostrarvi un male avvenire che, ove si avveri, sarà più grande di questo.

Gent. I buoni angeli ce ne preservino! Quale può essere? Voi non dubiterete già della mia fedeltà?

Gent. Questo segreto è così importante che esige la più inviolabile fede.

Gent. Ponetemene a parte; io nol rivelerò.

Gent. In voi confido, e lo saprete. Non avete udito mormorare di un divorzio fra il re e Caterina?

Gent. Sì, ma fu una voce vaga: perocchè quando il re la udi mandò sdegnato ordine al lord Prefetto di smentir tosto quella novella, e di reprimere le lingue che avevano osato spargerla.

Gent. Ma quella falsa voce, signore, è ora diventa una verità e torna a diffondersi più di prima, e sembra certo che il re vorrà questo divorzio. È il cardinale o qualcun altro di quelli che gli stan presso che, per odio contro la buona regina, han gettato nell’anima di Enrico uno scrupolo che finirà per rovinarlo. Quello che vieppiù lo conferma è l’arrivo del Cardinal Campejus, venuto, credo, per questo negozio.

Gent. Oh! fu Wolsey, senza dubbio, che l’avrà fatto per vendicarsi dell’imperatore che non volle concedergli l’arcivescovado di Toledo.

Gent. Credo v’apponiate: ma non è cosa crudele che quella sfortunata regina debba essere vittima di tal rifiuto? il cardinale riescirà a quanto agogna, ed ella sarà immolata.

Gent. È un orrore. Noi siamo qui troppo all’aperto per ragionare di tali cose; entriamo in luogo più sicuro e ne favelleremo con libertà.

(escono)


SCENA II.

Un’anticamera nel palazzo.

Entra il lord Ciambellano, leggendo una lettera.

Ciam. Milord, ho posto tutta la cura in bene scegliere i cavalli che mi dimandavate. Erano giovani e belli e d’una delle migliori razze del nord. Quando stavano ammaniti per venire a Londra, un uomo di milord cardinale, munito di una commissione e di un potere assoluto, li prese dicendomi che il suo signore doveva esser servito a preferenea d’ogni altro suddito, se anche nol doveva essere prima del re: la qual risposta ei chiuse la bocca. — Temo infatti ch’ei ben nol voglia. Faccia il suo senno e se li tenga; ei vorrà aver tutto, io penso.

(entrano i duchi di Norfolk e di Suffolk)


Nor. Ben trovato, mio buon lord Ciambellano.

Ciam. Buon giorno a entrambi, signori.

Suff. Di che si intrattiene ora il re?

Ciam. Lo lasciai solo e ingombro di tristi pensieri e di turbamento.

Nor. Qual n’è la causa?

Ciam. Sembra che il matrimonio colla moglie di suo fratello agiti la sua coscienza.

Suff. No; è la sua coscienza che si è avvicinata troppo ad un’altra signora.

Nor. Può essere; e questa è opera del cardinale, del cardinale re. Quel prete, cieco come il figlio primogenito della fortuna, volge e snatura tutto quello che ascolta; il re un giorno lo saprà, e imparerà a conoscerlo.

Suff. Prego Dio che ciò avvenga: altrimenti ei non conoscerà mai se stesso.

Nor. Come santamente adopera in tutte le sue cose! e con quale zelo! Ora che ha rotta l’alleanza che s’era formata fra noi e l’imperatore, l’illustre nipote della regina, ei s’insinua nell’anima del suo signore, e vi sparge il dubbio, i rimorsi, la crudeltà, la disperazione; e tuttociò a motivo del suo matrimonio. Poscia per ricomprarlo da siffatti tormenti gli consiglia il divorzio e l’abbandono di colei che come gioiello prezioso rimase per venti anni sospesa al suo collo senza nulla perdere del suo prezzo, del suo splendore; di colei che lo ama di quell’amor puro e celeste che sentono gii angeli per gli uomini probi di quella donna che, anche quando le più grandi sciagure l’abbattessero, benedirebbe al suo re: ora questa è ella opera pietosa?

Ciam.. Il Cielo mi guardi dal crederlo! Ma è vero che questa novella corre per tutte le bocche, e non v’è alcuno che non ne parli, non alcuno che non ne gema. Tutti quelli che osano scandagliare questi misteri, veggono il suo principale intento... e nominano la sorella del re di Francia. Pure il Cielo aprirà un giorno gli occhi di questo re, che da tanto tempo stan chiusi sulla condotta di quell’audace e perverso uomo.

Suff. E allora saremo redenti da tanta schiavitù.

Nor. Gran bisogno avremo di pregare, e di cuore, per la nostra liberazione; altrimenti quell’uomo imperioso ne ridurrà da principi a schiavi, avvegnachè tutti gli onori, tutte le dignità dei grandi sono innanzi a lui come un volume di creta, ch’ei modella e informa a suo senno.

Suff. Per me, miei lórdi, io non l’amo nè lo temo, ecco la mia dichiarazione; essendo stato fatto quello che sono senza di lui, tale resterò ancora suo malgrado, se ciò piace al mio sovrano. Le sue maledizioni o le sue grazie, il suo odio o la sua amicizia, sono eguali per me. Oracoli sono a cui non credo. L’ho conosciuto, lo conosco, e lo abbandono a quegli che l’ha reso sì vano, al pontefice.

Nor. Entriamo, e cerchiamo con qualche altro oggetto di distrarre il re dalle cupe riflessioni che troppo lo assorbono. Milord, ci volete accompagnare?

Ciam. Perdonatemi, Enrico mi ha dato ordini che mi chiamano altrove; oltre che scegliereste un tristo momento per parlargli. Salute a voi, signori.

Nor. Grazie, mio buon lord Ciambellano. (esce il Ciam.)

(Norfolk apre una porta, e si vede il re seduto che legge con attenzione.)

Suff. Come è mesto! Certo ha qualche affanno.

Enr. Chi è là?

Nor. Preghiamo Dio ch’ei non sia in collera.

Enr. Chi è là? dico. Come osate voi turbarmi nelle mie meditazioni? Chi sono io dunque?

Nor. Un buon re che perdona tutte le offese in cui la volontà non ha parte. Ciò che ne fa mancare al rispetto che vi è dovuto è un bisogno di Stato in cui noi veniamo a prendere gli ordini di Vostra Maestà.

Enr. Siete troppo audaci; ritiratevi; vi farò conoscere quand’è il tempo per gli affari. Ora ciò è disdicevole (entrano Wolsey e Campejus). Chi è là? Mio buon lord cardinale! oh mio Wolsey, che sapete riporre in calma la mia agitata coscienza; voi siete nato per guarire il cuore dei re. — Voi pure siete il ben venuto nel nostro regno, dotto e reverendo signore (a Cam.) disponetene a vostro senno. — Caro signore, abbiate cura che non suoni vana la mia parola (a Wol).

Wol. Sire, ella non può esserlo mai. Vorrei che Vostra Grazia ne concedesse un’ora di conferenza privata.

Enr. (a Nor. e a Suff.) Abbiamo affari; ritiratevi.

Nor. (a parte) Quel prelato non è orgoglioso?

Suff. No affè, io non vorrei essere malato come egli è superbo: ma ciò non può durare.

Nor. Se continua, mi arrischierò a vibrargli un gran colpo.

Suff. Ed io un altro. (esce con Nor.)

Wol. Vostra Maestà ha dato un esempio di saviezza al disopra di tutti i principi dell’Europa, confidando liberamente il vostro scrupolo all’arbitrio ed al giudicio della cristianità. Chi potrebbe offendersene ora? qual rimprovero potrebbe farvi la più maligna invidia? Lo spagnuolo, congiunto alla regina con vìncoli di sangue e di affezione, deve confessare, se sincero è, la giustizia e la nobiltà di questo solenne dibattimento. Tutti gli ecclesiastici istruiti dei regni cristiani han diritto e libertà di dare il loro voto: Roma, madre della scienza e delle savie decisioni, dopo il vostro illustre invito, ne ha mandato un interprete universale in questo onesto prelato, in quest’uomo integro e profondo, il cardinal Campejus che presento per la seconda volta a Vostra Maestà.

Enr. Ed è con piacere che, stringendolo fra le mie braccia, io l’assicuro che egli è il ben venuto, e ringrazio il santo conclave della bontà che mi ha dimostra, inviandomi un uomo quale io lo desiderava.

Cam. Vostra Maestà merita a giusto titolo l’amore di tutti gli stranieri per la grandezza e la nobiltà de’ suoi procedimeati. Io vi porgo il brevetto della mia commissione, in virtù del quale (per autorità della corte di Roma) voi, milord Cardinale di York, siete unito a me suo umile ministro nell’esame e giudizio imparziale di questa controversia.

Enr. Due giudici equi! La regina sarà tosto istruita del motivo della vostra missione. Dov’è Gardiner?

Wol. Io so che Vostra Maestà l’ha sempre troppo teneramente amata, per rifiutarle ciò che la legge accorderebbe a una donna d’un grado inferiore al suo, cioè giureconsulti e un consiglio che possano liberamente difendere la sua causa.

Enr. Sì, essa gli avrà e scelti fra i più dotti; il mio favore sarà per quegli che la difenderà meglio: Dio mi guardi da ogni altro sentimento! Cardinale, ve ne prego, fate venire il mio nuovo segretario Gardìner: lo reputo un uomo di senno che ben mi giova. (Wolsey esce e rientra con Gardiner)

Wol. Datemi la vostra mano; vi auguro felicità e fortuna; voi siete ora tutta cosa del re.

Gar. (a parte) Per restar sempre agli ordini di Vostra Grazia, la di cui mano mi ha innalzato.

Enr. Avvicinatevi, Gardiner. (conversano commessamente)

Cam. Milord di York, non era il teologo Pace quello che occupava prima il posto di quest’uomo?

Wol. Sì.

Cam. Non era un dotto uomo?

Wol. Certamente.

Cam. Credete che si spargeranno cattive opinioni anche mi conto vostro, lord Cardinale?

Wol. Come! in qual modo?

Cam. Non mancherà chi dica che siete stato geloso di lui, e che, temendo che egli non s’innalzasse per la sua virtù e pel suo merito, voi l’avete tenuto lontano in negoziati stranieri; ciò che lo ha tanto afflitto ch’ei ne ha perduto la ragione, ed è morto.

Wol. La pace sia con lui! È tutto quello che un cristiano può augurargli. Pei malcontenti che mormorano sonvi luoghi di reclusione e di castigo! Colui era un insensato che voleva esser per forza virtuoso. — Quest’uomo che ne occupa il posto obbedisce a miei comandi senza far motto. Io non so tollerare che altri voglia cattivarsi al par di me la confidenza di Sua Altezza. Abbiate per ferma una cosa, mio caro collega; è che noi non siam fatti per esser sempre tribolati dai nostri inferiori.

Enr. Ditele ciò con moderazione e dolcezza. (Gard. esce) Il luogo più opportuno ch’io possa imaginare per radunare tanti savi dottori, è Black-Friars. È là che voi verrete per esaminare questo dubbio importante. Mio caro Wolsey, abbiate cura che tutto quello che è necessario si trovi in quel luogo. — Oh! milord, qual è l’uomo giusto e sensibile che non sarebbe afflitto, dovendo lasciare una così virtuosa compagna! Ma la coscienza è ben delicata... e forza mi sarà, il veggo, ch’io l’abbandoni.

(escono)


SCENA III.

Un'anticamera negli appartamenti della Regina.

Entrano Anna Bolena e una vecchia dama.

An. Nè a questo prezzo pure. — Ecco ciò che v’è di doloroso e di crudele: dopo che Sua Maestà è stato con lei tanto tempo..... con lei sì buona, sì virtuosa, che la lingua dell’invidia non saprebbe dove investirla; perchè, sulla vita mia ella non ha mai saputo che sia il far male ad altri. Oh dopo aver veduto sul trono tanti soli a compiere il loro corso, sempre attorniata dallo splendore e dalla pompa della maestà... che è mille volte più doloroso il lasciare, che dolce non sia il sentimento del suo primo possedimento... dopo tanto tempo di grandezza ripudiarla! ... Oh! è una sventura atroce che commuoverebbe a pietà il cuore più selvaggio.

Dam. È per ciò che anche i meno sensibili s’inteneriscono e deplorano la di lei sorte.

An. Oh volontà dì Dio! meglio sarebbe che ella non avesse mai conosciute le pompe di questo mondo. Quantunque siano passeggiere, nondimeno lo staccarsene è più tristo che non sia la separazione dell’anima dal corpo.

Dam. Oimè, infelice! ella è ora come straniera pel re.

An. E la sua sorte non merita che maggiormente lagrime; sì, giuro che è meglio esser nati in uno stato oscuro e viver contenti fra il volgo, che salire alla cima delle grandezze per mostrarvi un monumento di sventura, e gemere sotto la porpora.

Dam. Il contento è la nostra miglior ricchezza.

An. Sull’onor mio! non Torrei essere regina.

Dam. Sciagura a me, se non volessi esserlo, e se non rischiassi l’onor mio a tal prezzo; come voi lo avventarereste, gittando lontano questo velo d’ipocrisia. Voi che possedete tutte le doti del vostro sesso, ne avrete anche il cuore, ed è cuore che ambi sempre l’elevazione, l’opulenza e la sovranità, doldci e celesti godimenti che, malgrado i vostri affettati dispregi, la vostra delicata coscienza accoglierebbe con gioia, se vi piacesse di stendere la mano per afferrarli.

An. No, in verità.

Dam. Ed io vi dico di sì. Come? non vorreste essere regina?

An. No, per tutti i tesori che stan sotto il cielo.

Dam. È strano: per me, quantunque vecchia, per una moneta da tre soldi accetterei il titolo di regina. Ma ditemi, ve ne prego, del titolo di duchessa che ne pensate? Vi sentireste la forza di sopportarlo?

An. No, neppure.

Dam. Allora siete di costituzione ben debole. Sollevate un po’ quella maschera: a prezzo di ciò che non oserebbe nominare il pudore, io non vorrei essere un giovine conte, e trovarmi sulla vostra via. Oh! se voi non avete la forza di portar tal fardello, sarete anche troppo debole per poter divenir madre.

An. Come vi piace di ricrearvi! Vi giuro una seconda volta, che non vorrei divenir regina per tutto il mondo.

Dam. In verità, soltanto per la piccola isola d’Inghilterra dovreste arrischiarvi a ricevere la corona sulla testa. Ed anche per la piccola provincia di Caernarvon, se pure non vi fosse che quel breve dominio congiunto alla corona. Oh! chi s’avanza?

(entra il lord Ciambellano)


Dam. Buon giorno, signore. A qual prezzo si potrebbe sapere il soggetto della vostra conferenza?

An. Mio buon lord, esso non vale la vostra dimanda. Noi gemevamo sulle sventure della signora nostra.

Ciam. Generosa occupazione, e ben degna di donne che hanno un buon cuore. Ma giova sperare che tutto andrà bene.

An. Prego il Cielo che ciò avvenga!

Ciam. Voi avete una bell’anima, e le benedizioni del Cielo accompagnano i cuori sensibili come i vostri. Per provarvi, bella dama, ch’io son schietto, e che in gran pregio si tengono le vostre rare virtù, Sua Maestà vi dichiara col mio mezzo tutta la sua stima, e intende ornarvi del titolo di marchesa di Pembroke, a sostenere il quale vi concede mille sterline all’anno.

An. Non so che cosa potrebbe offrirgli la mia riconoscenza. Quel ch’io sono e molto più ancora, è nulla. Le mie preghiere non sono abbastanza sante, nè i miei voti abbastanza efficaci, nondimeno le mie preghiere e i miei voti son quanto io gli posso dare in cambio. Oso supplicare Vostra Grazia di essere l’interprete di tutti i sentimenti che può esprimere a Sua Maestà una fanciulla timida. Prego il Cielo per la conservazione de’ suoi giorni e della sua sovranità.

Ciam. Bella signora, non mancherò di convalidare la vantaggiosa opinione che il re ha concepita di voi. (a parte) Io l’ho ben esaminata, e l’onore e la bellezza, sono così felicemente accoppiati in lei, che sedotto hanno il cuore di Sua Altezza. Chi sa che da questa vaga donzella non derivi una gemma che rischiarar possa tutta quest’isola col suo splendore1. (ad aita voce) Vado dal re per dirgli che vi ho parlato.

(esce il Ciam.)

An. Mio amorevole lord.

Dam. Ecco, ecco il mondo: miratelo! Ho anelato per sessanta anni ai favori della Corte (e sto ancora in Corte per mendicarli), e non ho mai potuto trovar l’ora propizia per chiedere con buon successo il più piccolo benefizio; ora voi (apprendete cos’è il destino!) che siete da poco venuta qui... maledetta sia la bizzarra fortuna! la vostra bocca è colma di beni, prima che aperta si sia per dimandarli.

An. Cotesto pare strano a me pure.

Dam. Ebbene, qual diletto trovate nelle grandezze? Vi sembrano esse amare? Scommetto che no. T’ebbe già una dama (è storia vecchia) che non voleva essere regina; che essere non lo voleva per tutte le fertili messi dell’Egitto. Avete inteso parlare di tal racconto!

  • Dam. Voi siete in voglia di celiare.

Dam. Sopra sì bel soggetto potrei divertirmi, ed innalzarmi più dell’allodola. Marchesa di Pembroke! Mille lire all’anno! e tutto ciò per istima? per niun altro titolo? Oh, sull’anima mia! tal principio promette ben molte altre migliaia di lire. Nella veste della fortuna la coda è assai più lunga che non il drappo che sta dinanzi. Ora comincio a vedere che avrete la lena per sopportare una duchèa. Ditemi, non siete più forte che non eravate?

An. Cara signora, cercate nella vostra imaginazione qualche altro soggetto che vi allieti; e degnatevi lasciarmi in pace. Vo’ non esser nulla, se questo onore produce in me la più piccola sensazione. Il mio cuore soffre pensando alle conseguenze. La regina è sconsolata, e noi la dimentichiamo con questa nostra lunga lontananza. Vi prego di non parlarle di quello che avete inteso qui.

Dam. In conto di chi mi avete?

(escono)


SCENA IV.

Una sala in Black-Friars.

Squillo di trombe e di corni. Entrano due uscieri colle verghe d’argento; poi due Segretarii in abito da dottori; dopo essi l'Arcivescovo di Canterbury solo; quindi il Vescovo di Lincoln, Ely, Rochester e Sant-Asaf; dopo di loro a qualche piccola distanza viene un gentiluomo colla borsa, il gran sigillo e un cappello da cardinale; quindi due preti, ciascuno con una croce d’argento; poscia un gentiluomo col capo scoperto, accompagnato da un sergente che tiene una massa; poi due gentiluomini che portano due colonnette, insegne di dignità cardinalizie; poi Wolsey e Campejus seguiti da due nobili colle spade; per ultimo il Re e la Regina col loro seguito. Il Re va ad assidersi sul trono; i due cardinali nella loro qualità di giudici stanno al disotto di lui. La Regina prende posto a qualche distanza dal Re. I Vescovi si schierano a concistoro; fra essi i Segretarii. I lordi siedono dietro ai Vescovi. Il Banditore e tutti gli altri si collocano in ragione del loro ufficio.

Wol. Intantochè verrà letta l’istruzione che ne fu data da Roma, s’imponga ad ognuno il silenzio.

Enr. Qual bisogno abbiamo di tal lettura? Essa fu già fatta pubblicamente, e tutti consentono che sarebbe inutile il ripeterla.

Wol. Come volete. (al segretario) Continuate.

Segr. (ai banditore) Chiamate Enrico d’Inghilterra dinanzi a questa Corte.

Band. Enrico d’Inghilterra, ecc.

Enr. Son qui.

Segr. Chiamate Caterina regina d’Inghilterra.

Band. Caterina d’Inghilterra, ecc.

(la Regina non risponde, ma si alza; va ad inginocchiarsi dinanzi al re, e quindi così parla)

Cat. Sire, vi chieggo di farmi giustizia, quella giustizia che mi è dovuta, e vi scongiuro di concedermi la vostra compassione. Perocchè io sono una donna infelice, nata lungi da quest’impero, e non ho qui alcun giudice imparziale, nè alcuna sicurezza di un equo procedimento. Oimè! Sire, in che vi ho offeso? Qual fallo nella mia condotta ha potuto attirarmi il vostro sdegno perchè veniate a questo giudizio, per ripudiarmi e ritogliermi le vostre grazie? Il Cielo mi è testimonio che io sono stata per voi una sposa fedele e sottomessa; che in tutti i tempi mi sono piegata al voler vostro; che sempre ho temuto di causarvi il più lieve cruccio; e che ho spinta l’obbedienza fino a conformarmi all’umor vostro tristo o gaio, sereno o malinconico. Quand’è mai avvenuto ch’io mi sia opposta ai vostri desiderii, o ch’essi non siano divenuti i miei? Quale uomo vi era amico, ch’io non m’industriassi di amare, anche quando sapeva che nemico mi era? Chi fra i miei clienti ha conservato il mio favore dopo aver perduto il vostro? A chi non ho io fatto conoscere che perdendo la vostra amicizia perdeva anche la mia? Sire, rammentate che sono stata vostra sposa, costante in un’obbedienza illimitata per l’intervallo di più di venti anni, e che il Cielo mi ha concesso di esser madre di molti figli vostri. Se in tutto il corso di questa lunga seguenza di giorni voi potete ricordare qualche rimprovero contro il mio cuore, contro il nodo coniugale; qualche circostanza in cui io abbia mancato di amore e di rispetto verso la vostra sacra persona; in nome di Dio! respingetemi da voi vergognosamente, e il disprezzo più ignominioso serri la porta su di me, e ch’io sia abbandonata a’ rigori della più severa giustizia. Permettete ch’io ve lo dica, sire: il re, vostro padre, era riputato uno dei principi più savi e più sagaci; Ferdinando, mio padre, re di Spagna, credevasi ancora l’uomo più illuminato che occupato avesse quel trono da molti anni: non si può mettere in dubbio che essi non abbiano radunato un Consiglio scelto nel regno, che ha discussa e ventilata questa quistione, e ha giudicato il nostro matrimonio legittimo. Vi scongiuro dunque umilmente, sire, di voler differire questo giudizio fino a che io abbia mandato a consultare i miei amici in Spagna, di cui implorerò il consiglio. Se ciò rifiutate, si compia in nome di Dio la vostra volontà!

Wol. Vi stanno innanzi, signora, per vostra scelta questi rispettabili prelati, uomini di un sapere e di un’integrità rara, parte eletta del regno, che sonosi qui radunati per difendere la vostra causa. Sarebbe inutile il differirne di più la decisione: e un sollecito giudizio concerne del pari il vostro riposo e quello del re, la di cui coscienza è turbata.

Cam. Quello che Sua Grazia vi dice è sensato; mestieri è signora, che questa regia assemblea proceda senza indugi all’esame della causa.

Cat. Lord Cardinale (a Wol.), è con voi ch’io parlo.

Wol. Io vi ascolto, signora.

Cat. Cardinale, vorrei piangere: ma colla idea che son regina (o almeno ho sognato lungo tempo di esserlo), e la certezza che son figlia di un re, cangerò le mie lagrime in lampi di collera.

Wol. Vogliate essere paziente.

Cat. Tale sarò quando voi vi mostrerete umile, o piuttosto lo sarò ben prima, se non voglio che Iddio mi punisca. Credo, ed ho molti motivi per ciò, che voi mi siate nemico, e invoco la legge per ricusarvi la qualità di mio giudice. Siete voi che avete accesa la discordia fra me e il mio sposo. Iddio voglia estinguerla! Ve lo ripeto, ve lo ripeto con ardore, la mia anima vi ripudia, ed io vi ho in conto del mio peggiore nemico, e dell’uomo più mendace e avverso alla verità.

Wol. Dichiaro che questo discorso è indegno di voi, signora, di voi che fin qui non vi eravate mai allontanata da’ sentieri della carità, e mostrato avevate sempre un’anima piena di dolcezza, e un intelletto superiore al vostro sesso. Signora, voi m’insultate: io non ho alcun cruccio contro di voi, nè nutro rancore contro alcuno: tutta la mia condotta fin qui, e quella che seguirà, hanno per garanzia una istruzione emanata dal Concistoro intero di Roma. Voi mi accusate di aver accesa questa vampa di discordia? Io lo nego: il re è qui: s’ei sa che le mie parole contraddicano le mie opere, quanto gli è facile di confondere, e giustamente, la mia fallacia! Egli lo può così bene, come voi avete potuto far onta alla schiettezza mia; e se è convinto ch’io sia innocente della taccia che mi date, saprà egualmente che offese sono dalla vostra ingiustizia. Perciò da lui dipende il risanamente della piaga fatta al mio onore; e il rimedio che imploro da lui è di dileguare tai pensieri dal vostro spirito. Prima che Sua Maestà si sia su di ciò spiegata, io vi scongiuro, signora, d’abiurare colla vostr’anima il vostro discorso, e di non aggiungervi nulla di più.

Cat. Milord, milord, sono una donna semplice troppo per poter combattere contro l’acume del vostro spirito. Voi sembrate pieno di dolcezza, e la modestia sta nei vostri discorsi; voi mostrate nel vostro sembiante l’umiltà e il candore del vostro sante ministero: ma il vostro cuore è pieno d’arroganza, d’orgoglio e di risentimento. Voi vi siete agilmente innalzato al disopra della vostra umile nascita coi favori della fortuna e i benefizii di Sua Maestà, ed oggi toccate alla cima, onde è forza che il potere vi rimanga soggetto: le vostre parole servono la vostra volontà come uno schiavo il suo padrone, e riempiono l’ufficio che a questa piace d’impor loro. Io sono astretta a dirvi che voi amate molto più lo splendore e le grandezze della vostra persona, che i doveri della vocazion vostra sacra e sublime; persisto quindi a ricusarvi per mio giudice, e in presenza di tutti mi appello al papa, e vo’ che la mia causa sia giudicata da Sua Santità. {{A destra|(ella s'inchina al re e s’avvia per escire) Cam. La regina è tenace, ribelle alla giustizia, pronta ad accusare, e avversa a sottomettersi alle decisioni dei tribunali: ella sta per abbandonar la Corte, e tal condotta non è lodevole.

Enr. Richiamatela.

Band. Caterina, regina d’Inghilterra, rientrate nella Corte.

Un usciere. Signora, siete richiamata.

Cat. Qual bisogno ho che voi me lo diciate? Vi prego di attendere ai vostri uffici sino a quando vi sarà mestieri della vostra opera: andate. Dio voglia soccorrermi! Adoperano così severamente con me, da farmi perdere ogni mansuetudine. Vi prego, allontanatevi: non vo’ più restare. No, non mai mi si vedrà ricomparire ad un giudizio di tal fatta. (esce col suo seguito)

Enr. Va, Caterina, segui la tua via. Se vi è nel mondo un uomo che osi dire che si può trovare una sposa migliore di te, ch’ei non sia mai più in nulla creduto, per aver mentito in tal cosa. Se le tue egregie qualità, la tua amabile dolcezza, la tua angelica rassegnazione, la tua arte di comandare coll’obbedienza e coll’insensibile impero di una sposa virtuosa, se tutte le tue virtù potessero rivelarsi e mostrarti nella tua vera luce, dichiarata saresti la regina di tutte le regine della terra. La sua nascita è illustre, e la nobiltà della sua origine si è sempre data a conoscere nella nobiltà de’ suoi procedimenti con me.

Wol. Grazioso sovrano, io indirizzo la mia umile preghiera a Vostra Maestà, e vi chieggo di voler dichiarare alla presenza di questa numerosa assemblea (perocchè è giusto ch’io sia scolpato nel luogo stesso in cui accusato fui, sebbene debole sia ancora tale giustificazione), se mai ho emesse proposizioni intorno a questa bisogna; se ho gettato in voi qualche dubbiezza che potesse forvi vacillare in ciò; se mai vi ho parlato di lei in altro modo che con azioni di grazia a Dio per averne dato una regina così buona; se ho pronunziata una sola parola che ledere potesse il suo carattere virtuoso, o nuocere in nulla alla stima che ella gode.

Enr. Milord cardinale, vi lavo di tal rimprovero, e ve ne assolvo pienamente. Inutile è ammonirvi che avete molti nemici che ignorano il perchè lo siano, ma che come i mastini del villaggio latrano contro la vostra fama perchè odono i clamori dei loro simili: sarà qualcuno di essi che avrà incitata la regina contro di voi. Eccovi scolpato: ma volete più ampia giustificazione? Dirò che avete sempre desiderato che si obbliasse questo negozio; che non avete mai cercato occasione per metterlo in campo, e che vi siete opposto sempre a chiunque voleva favellarne. Sull’onor mio, milord cardinale, io vi dichiaro i miei veri sentimenti, e vi mondo di ogni macchia. Ora ciò che mi ha condotto a questo passo l’esporrò alla vostra attenzione. Udite i miei motivi, poscia giudicate. Prima la mia coscienza è stata tocca da scrupolo a certe parole profferite dal vescovo dì Bajona, allora ambasciatore di Francia, che fu mandato qui per trattare un matrimonio fra il duca d’Orleans e la nostra figlia Maria. Accudendo a quell’ufficio, innanzi di venirne ad una decisa risoluzione, egli chiese un indugio onde avvertire il re suo signore che convocasse il suo clero per sapere se la nostra figlia era legittima, essendo essa nata dal nostro maritaggio con quella che fu un tempo sposa di nostro fratello. Tal dubbio mi agitò vivamente e commosse tutta la mia anima. Quell’impressione divenne sì forte e stabile, che una folla di riflessioni nate da essa cominciarono ad investirmi senza più darmi riposo. Prima imaginai ch’io non godevo più i favori del Cielo, che ordinato aveva alla natura che il seno della mia regina, se un fanciullo maschio concepiva, non gl’infondesse maggior vita, che il sepolcro non ne dia a’ morti. Avvegnachè i suoi figli maschi si son spenti nel seno che gli aveva formati, o poco tempo dopo che respirato aveano l’aere di questo mondo. Da ciò argomentai fosse un giudizio dell’Altissimo sopra di me, e che il mio regno, che merita il più degno erede del mondo, non dovesse essere da me arricchito di un sì bel dono. Per natural conseguenza ho librato il pericolo a cui esponevo i miei popoli per questo difetto di miglior prole, e un tal pensiero mi ha fatto soffrire crudelmente. Così la mia coscienza ondeggiante in un mare d’incertezza mi ha spinto a questo riparo, a qui congregarvi, e io volli placarla colla decisione di tutti i venerabili padri e dei savi dottori della Chiesa d’Inghilterra. Questo statuito, io ebbi una prima conferenza segreta con voi, milord di Lincoln, e voi rammenterete da qual peso fossi oppresso allorchè cominciai a tenervene discorso.

Lin. Me ne ricordo assai bene, mio sovrano.

Enr. Parlai lungamente; piacciavi di dire in qual guisa mi soddisfaceste.

Lin. Se Vostra Maestà vuol sovvenirsene, il dubbio mi colpì tanto forte per l’estrema sua importanza, e per le terribili conseguenze che avrebbe recato, che i miei consigli più arditi non seppero affrontarlo, ed esortai Vostra Maestà a cominciare la procedura che oggi avete intrapresa.

Enr. Io mi addirizzai poscia a voi, milord di Canterbury, e ne ebbi lo stesso suggerimento. Non mancai di sollecitare alcuno dei rispettabili membri di questa Corte, e procedei col vostro consenso particolare di tutti, segnato di vostra mano e suggellato col vostro suggello. Perciò ite oltre: arvegnachè non fu alcun disgusto contro la nostra virtuosa regina, ma i motivi incalsanti che vi ho esposti, e le aspre punture della coscienza che indotto mi hanno a questo passo. Provate che il nostro matrimonio è legittimo, e sulla mia vita, sulla mia dignità reale, saremo contenti di poter terminare il corso della nostra mortal vita con lei, con Caterina nostra sposa, che preferiamo a tutte le altre creature di questo mondo.

Cam. Vostra Maestà mi concederà di rappresentarle che la regina sendo assente è forza aggiornare questa discussione. Intanto bisogna imporre a Sua Altezza di desistere dall’appello ch’ella si propone di fare a Sua Santità.

(i prelati si alzano per partire)

Enr. (a parte) M’avveggo che questi cardinali si fan giuoco di me: abborro tanti indugi e tutte le arti di Roma. — Oh! Cranmer, mio fido servo, uomo pieno di saviezza, torna, te ne scongiuro. A grado a grado che tu ti ravvicini a me, sento che la consolazione rientra nella mia anima. — L’assemblea è disciolta: ognuno si ritiri.

(tutti escono, seguendo l'ordine con cui sono entrati)



  1. Allude a Elisabetta.

Note

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