Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
Questo testo fa parte della raccolta Alcuni scritti del dottor Carlo Cattaneo, volume I


IL ROMANZERO DEL CID




La nazione spagnola parla una lingua che s'appròssima all'itàlica più di parecchi dialetti dell'Italia stessa; ella vive sotto gli influssi d'un medesimo cielo, sull'altra riva d'uno stesso mare, rendendo fede al medèsimo culto, e dedicando scuole ai modelli delle stesse letterature. Nell'una e nell'altra penìsola si seguìrono con poso dissìmile vicenda il dominio romano, l'occupazione gòtica e più o meno le incursioni dei Saraceni; e in età ben vicine a noi una sola potenza si stendeva l'uno e l'altro popolo, si affettàvano gli stessi costumi, si vestiva la medèsima cappa e lo stesso austero collare. Eppure le lèttere spagnole sono poco apprezzate in Italia e quasi ignote. Per mille giòvani sollèciti di addestrarsi alla lingua francese più forse che alla stessa favella nazionale, è difficile trovarne uno, che spenda una settimana ad appianarsi le poche difficoltà e le fièvoli differenze della lingua spagnola. L'Italia colle sue imitazioni oscurò i trovatori provenzali, fece rediviva l'epopèa e la tragedia dei greci, rese sue le leggende romanzesche della cavalleria francese, si mostrò perfino invaghita delle nebbie d'Ossian, riprodusse il romanzo solitario di Goethe, e il romanzo sociale di Walter Scott; ma non si curò mai gran fatto d'àttingere inspirazioni alle fonti spagnole. Nè le tradizioni guerriere del Cid, nè le facete novelle di Don Chisciotte e di Fra Gherundio, nè le guerre degli Aràuchi, èbbero imitazione popolare fra noi. Anche i pochi ingegni irrequieti che vògliono giùngere a tutto, fùrono molte volte paghi d'informarsi delle cose spagnole nelle infide traduzioni dei francesi e nelle nebulosa estètiche dei tedeschi.

In mezzo alle tante simiglianze apparenti che il tempo diffuse sulle popolazioni dell'Italia e della Spagna, rimàsero pur sempre certe radicali e frenòlogiche differenze, che la natura primamente improntò nelle due stirpi. E forse queste irreconcilìabili dissonanze mentali e morali non lasciàrono sùrgere dal forzoso contatto delle due nazioni quelel grandi simpatìe, per virtù delle quali presso un pòpolo talora si riflette la similitùdine d'un altro pòpolo, per cui Canova potrebbe dirsi greco, Beccarìa francese, Mozart italiano.

In onta alla lunga azione del tempo e alla commistione delle stirpi straniere, il pòpolo spagnolo ricomparve tratto tratto qual si mostrò fin dai primordii delle istorie. L'assedio di Numanzia e la rivolta di Viriato sono due forme nazionali, che si raffigùrano ancora ai dì nostri nell'assedio di Saragozza e nelle imprese dei guerriglieri. Viriato e Pelagio, il Campeador e Padilla, Mina e Zumala, sono figure che hanno fra loro un sembiante di famiglia, non ostante la immensa distanza dei tempo e delle vicende, come un sembiante di famiglia d'altra maniera sembra pur còrrere tra Cèsare e Napoleone. Una profonda differenza ben tosto appare fra l'inflessìbile e circoscritta ìndole spagnola, e la varia e feconda natura della nazione italiana, la quale tratta colla stessa felicità il timone di Colombo e il compasso di Palladio, la spada di Massena e il connochiale di Galilèo, l'induzione di Vico e l'arco di Galvani, e in una delle men gloriose sue età, in mezzo alle ironìe delle naizoni malèvole, scrive ne' suoi fasti Napoleone e Lagrange, Rossini e Volta. Le popolazioni ibèriche hanno acuto e potente ingegno, ma non imprèssero finora profonde vestigia negli annali d'alcuna scienza. La lingua spagnola si distingue per certa sua pienezza e pomposità, in cui taluni vògliono si esprima l'ànimo altiero della nazione. Ma la più parte àmano attribuirla all'influenza d'un innesto straniero; e a seconda delle loro preoccupazioni, ora pàrlano di maestà romana, ora di magnanimità visigòtica, ora di splendidezza saracena. Fatto sta che fin dal tempo in cui seguì la propagazione della favella latina nell'Iberia, i Romani avèvano nnotato una certa soverchia sonorità nei Cordubæ natis poetis; ciò che palesa esser questo un distintivo della stirpe indìgena. E come mai la grandiloquenza latina avrebbe lasciato in lontana e sùddita provincia quelle vestigia che non lasciò nella nativa sede?

Molto men fondata è l'opinione di molti scrittori che ripètono dai Goti non solo l'alterezza del linguaggio, ma eziandìo quell'indomabile propòsito che sostenne il pòpolo spagnolo nella lutta contro gli invasori àrabi dal 711 al 1492, in 780 anni di continua guerra e in una sanguinosa serie di tremila e settecento battaglie. Però si potrebbe loro opporre che, se questi prodigi di costanza non sùrgono dal fondo dell'ìndole nazionale, non è possìbile che si tòlgano in prèstito a un pugno di stranieri, i quali veramente non pòrsero esempio mai di questa singolare virtù. E infatti la resistenza dei Cristiani ai Mori fu mìnima al tempo dei Goti; venne crescendo coll'allontanarsi di quell'età; e toccò l'àpice ottocento anni dopo la dispersione dei Goti, quando il gran Gonsalvo e gli altri guerrieri di Ferdinando espugnàvano l'ultimo asilo degli Arabi sulle rupi della Sierra Nevada, e il re Sebastiano di Portogallo li perseguitava a morte sulla terra d'Africa.

I Goti al loro tempo passàrono il Danubio come fuggitivi, entràrono in Italia come federati, occùparono la Linguadoca e le Spagne quasi in dote nuziale d'una sorella del romano imperatore sposata al suo capitano Alarico. Ma ogni qualvolta si trattò di combàttere, furono vinti da Stilicone, da Belisario, da Narsete, da Childeberto, da Tarif. Gli istòrici prodigàrono il valore dei pirati nromanni anche a tutti i bàrbari d'acqua dolce; ma forse i Goti non èbbero altra giornata di vera gloria militare, che quando concòrsero a dispèrdere le orde di Attila nelle pianure della Sciampagna.

Fra tutti i bàrbari, che si accasàrono nelle inermi provincie dell'imperio romano, i Visigoti erano i più proclivi alla contemplazione ed alla pietà; blandê, mansuetê, innocenterque vivunt (Orosio). Ardenti ariani dapprima, devoti catòlici dappoi, essi già lasciàvano al concilio di Toledo il sommo dell'autorità legislativa, in un tempo nel quale i Longobardi e i Franchi non conòscevano ancora altre adunanze che i malli armati e i campi di Marzo. Essi non si appartàrono, al pari degli altri bàrbari, colla legge personale, ma si lasciàrono sottoporre ad una commune legge territoriale, dettata sotto la presidenza dei vèscovi. Essi non fecero legge del duello giudiziario, nè multàrono la morte dei loro mìliti a più alto prezzo che la vita degli altri cittadini. Ciò fu notato anche da Guizot, grande approvatore dei bàrbari; e se ne può conchiùdere che il dominio sacerdotale si stabilì nelle Spagne sotto i Visigoti; poichè così non era al tempo dei Romani e dei Fenicii. Questa fu la loro eredità, non già quella della prodezza militare e della magnanimità cavalleresca.

Una sola battaglia campale rovesciò codesta fiacca dominazione dei Visigoti. Allora gli Arabi vittoriosi, col governo, col commercio, coll'industria, colle peregrinazioni, cogli studii, congiùnsero le Spagne a quello splèndido loro imperio, che dalle Indie si stendeva fin entro l'Italia, la Spagna, la Francia, e superava in ampiezza l'imperio romano.

Surgeva l'era più bella dell'aràbica civiltà, l'era dei primi Abassidi. Gli Arabi diffondèvano in occidente le nuove cifre aritmètiche; dàvano il nome all'àlgebra e alla chìmica; scoprìvano l'alambicco, gli àlcali e gli spiriti, gli àcidi e i sali metàllici; sottoponèvano all'uso mèdico i più temuti veleni; inalzàvano le spècole astronòmiche di Bagdad e di Siviglia; mentre fra i Cristiani non si avèvano quasi più libri e appena si sapeva lèggere, aprìvano nella sola Spagna settanta pùbliche librerìe, insegnàvano all'architettura a librare in alto ardite cùpole di marmo, abbellìvano di giardini, di bagni, di palazzi e di moschèe Siviglia, Còrdova, Valenza, Toledo, ed ergèvano la più suntuosa reggia del mondo, l'Alhambra di Granata.

Finchè gli Arabi rimàsero uniti sotto l'insegna dei Califfi, fu vana ogni resistenza; e Pelagio, che almeno di nome non era Goto, errante intorno all'antro di Cavadogna faceva più vita di pròfugo che di combattente. Ma quando le discordie degli Ommìadi e degli Abassidi smembràrono la Spagna dall'Oriente, e lo stesso regno di Spagna venne lacerato da Sceichi intolleranti di freno, guerrieri alcuni e turbulenti, alcuni dati a vita molle e contemplativa, tutti ambiziosi del tìtolo e della indipendenza di re, il nome àrabo cessò d'esser temuto ai sùdditi cristiani. Una moltitùdine discorde di città ricche e voluttuose, abitate da artèfici àrabi e da mercanti israeliti, si trovò sparsa fra un pòpolo d'agricultori e pastori cristiani, ridivenuto numeroso e audace all'ombra tranquilla del grande imperio, e unificato dall'antica e concorde potenza del clero. Esso doveva ogni dì farsi più impaziente al predominio d'un'altra legge e d'un'altra lingua, e invaghirsi di seguire l'esempio di quelle bande che dai monti dell'Asturia e della Cantabria scendèveano a depredare le nimiche ricchezze. I règoli maomettani èbbero eziandìo l'imprevidenza di porre le armi in pugno ai sùdditi cristiani, e associali alle loro intestine guerre.

I guerriglieri, annidati nelle sierre pietrose, spronati dal clero, secondati dalle popolazioni campestri, solcàvano le pianure con quelle veloci scorrerìe, l'esempio delle quali stupefece l'Europa anche ai nostri giorni; volàvano a sorprèndere nelle feste o nel sonno città lontane centinaia di miglia, assalìvano i convogli dei mercanti, e i campi e le rocche della frontiera. I giovani ardenti e irrequieti si lèvavano a seguire le squadre passanti, e a farsi compagni della preda e della vittoria. Il più valente e astuto prendeva naturalmente il comando, e veniva spingèndosi sempre più inanzi entro le terre inimiche; o s'era appostato come sentinella su qualche rupe solitaria, vi alzava una torre e ne prendeva il nome, e allevava i figli a combàttervi intorno, e raccògliervi prede e prigioni. Così per molti sècoli i più valorosi d'un pòpolo naturalmente valoroso venìvano successivamente ascrivèndosi a quella feudalità combattente; e serbàndosi superbamente indipendenti nei loro ricòveri, si tenèvano sempre fidi al capo al quale si èrano pienamente associati, e che solo poteva recare in loro soccorso la pienezza delle forze collegate. Il nome di fedele, o di fidalgo, divenne grado di nobiltà, e le antiche onoranze gentilizie e le scarse superposizioni gòtiche, sveve e alàniche, si confusero in questa sola1.

Una rete di castella divenne un regno di questo nome, che noi pronunciamo Castiglia, e si stese nel cuore della penìsola, sopra un'ampiezza di forse quattrocento miglia, dal mare d'Asturia alla Sierra Morena. Altre leghe di fidalghi fondàrono i regni di Navarra, d'Aragona, di Galizia, di Portogallo; i montanari baschi, che soli conservàvano il vanto della primitiva lingua ibèrica, ed èrano sfuggiti all'uniformità romana, combattèvano ad un tempo gli Arabi e il nemico degli Arabi, Carlomagno. I principati ora si dividèvano, ora si riunìvano; talvolta guerregiàvano fra loro; talvolta si chiamàvano vassalli di qualche emiro saraceno per ottenere il soccorso de' suoi tesori; o viceversa costringèvano i re àrabi a dirsi vassalli ed alleati; e le discordi civili delle due stirpi s'intrecciàvano e s'innestàvano a vicenda. Questo bellicoso caos durò per trenta generazioni; al termine delle quali la nazione spagnuola si trovò la più agguerrita, valorosa, austera nazione d'Europa; perocchè tutti i suoi pensieri erano per lunga eredità concentrati in un solo: combàttere pel trionfo della sua fede. E non era dubio il trionfo di questa feudalità progressiva e giovanile, che surgeva dalla terra a risuscitare e ricostruire la nazione spagnuola, a fronte della feudalità retrògrada e senile, in cui si sfasciava, frammezzo ad un pòpolo nemico, il troppo vasto imperio dei Califfi, che la sua stessa cultura ed eleganza disviava troppo dall'assiduo pensiero della guerra.

Domati i Mori, la penìsola ibèrica si trovò per la prima volta troppo angusta allo spìrito cavalleresco ed esaltato delle sue popolazioni. nella loro patria, che per tutto il sècolo XVI fu il terrore e la meraviglia del mondo.

L'unità del clero e lo zelo di religione era il sussidio con quale la Spagna aveva potuto risùrgere dall'avvilimento in cui l'aveva lasciata il fiacco dominio dei Goti. Quel principio, già radicato dapprima si svolse sempre più vigoroso, e acquistò il predominio sugli altri tutti; perlochè i diversi òrdini della nazione non potèrono svòlgersi tutti con quella pienezza ed equabilità che assicura il trionfo dell'incivilimento. Questo predominio addusse poi l'espulsione delle famiglie moresche e israelìtiche, le quale facèvano la maggioranza nelle città, prese il luogo della polìtica, ristrinse i commerci e le industrìe, empì di nemici i mari circostanti; e quando il settentrione d'Europa ebbe adottata la riforma, pose la Spagna fra due fede irreconcilìabili che la combattèrono da tramonatana a mezzodì. In questa lutta essa esaurì le sue forze, e per tutto il sècolo XVII vide minorarsi gradatamente la sua potenza. IL XVIII secolo la trovò stanca, dèbole, divenuta retaggio secondario dei regnanti della Francia.

Frattanto però la popolazione della penìsola si era diffusa oltre l'òceano in terre forse cinquanta volte più vaste della madre patria; il Mèssico, la Colombia, il Perù, il Chìli, il Paraguài, il Brasile, Cuba, le Filippine, Goa, il Congo, sono possessi di codesta stirpe. E in questi pochi anni del sècolo XIX vi si è d'improviso disciolta in più corpi, ha spezzato le tradizioni de' suoi avi, si è ingolfata in un tempestoso avvenire; ma intanto è uscita dal languore e dalla nullità degli scorsi tempi, e si trova associata al moto universale del mondo, e ricomincia su più largo e vario principio un nuovo stadio di civiltà. Se tra le lingue figlie del nostro antico latino, la italiana e la francese hanno meglio servito ai gloriosi offici dell'incivilimento, la portoghese e la spagnola sono però le più vastamente diffuse. E quando il tempo avrà svolto quei novelli tralci di popolazione, e avrà empiute le vaste e fertili lande su cui stanno ancora ben raramente sparsi, quelle due lingue saranno strumento ai pensieri d'uno sterminato nùmero d'intelligenze. Ciò che furono finora, deve riescir nulla in confronto a ciò che saranno. Non è però che le lèttere spagnole non sìano già ben degne di fervoroso studio anche nel loro presente stato. Anzi dobbamo onore ai pochi che, secondo le forze loro, danno in Italia l'esempio di coltivarle. E tra questi si vògliono annoverare i due traduttori che pubblicàrono non ha guari le Antiche Romanze Spagnuole, e il Romanzero del Cid. E di quest'ùltimo intendiamo dir qualche cosa per ora. E ciò che abbiam qui premesso fu nella mira di porre nel suo miglior aspetto il libro spagnuolo.

Il Romanzero del Cid è la materia-prima d'un poema, è una tradizione antica, che ha preso nelle fantasìe del pòpolo la tinta ideale, e sulle labbra la forma cantàbile, e alla quale mancò solo che vi ponesse l'ùltima mano un altissimo ingegno, e ne traesse uno splèndido poema nazionale. E l'Omero della dottrina di Vico, prima che l'ùltimo degli Omeri fondesse le sparse e vetuste rapsodìe in una forma àrmonica ed una; è il Turpino d'Ariosto, l'Ossian di Macpherson; ma ci pervenne nella nativa e rude sua purità. I costumi sono aspri, la lingua è dura, l'àrmonia poètica è appena adombrata nel tetro monòtono e nelle fioche assonanze che vi tèngono il luogo della rima. Ma queste rùvide cantilene sono la memoria d'una intera nazione, sono il tesoro de' suoi sentimenti, lo specchio in cui si riflèttono i vizi e le virtù d'una gente guerriera.

Rodrigo figlio di Diego, detto alla spagnuola Rui Diaz, fu sopranominato il Campeador, perchè il più ardito a scèndere dalle castella montane e affrontare la cavallerìa moresca nell'aperta pianua. Vuolsi che gli Arabi stessi, ùomini generosi che sapevano ammirare anche un nemico, lo choiamàssero il Cid, nome che in loro lingua suonerebbe il prode; e con questo nome egli pervenne all'ammirazione della tarda posterità. Viveva nella seconda metà del secolo XI, quando le sorti della Spagna si bilanciàvano ancora tra la mezzaluna e la croce, e le due insegne si contendèvano ancora con dubio successo il sanguinoso terreno. Era un tempo in cui la natura umana riprendeva in tutta l'Europa inusitato vigore; il tempo in cui Guglielmo fondava il regno d'Inghilterra e Ruggero il regno di Sicilia; in cui la Francia prendeva alla Spagna e all'Italia il pensiero delle prima crociata; il sècolo che si compieva colla presa di Gerusalemme. Cent'anni prima le popolazioni europèe, allaevare in una diuturna viltà, fùggivano ancora avanti agli Arabi, agli Ungari, ai Normanni, che dal mezzodì, dall'oriente, dal settentrione, penetràvano col ferro e col foco sino agli indifesi recessi delle Alpi.

Pare che codesto Rodrigo fosse la meraviglia del tempo; prima campione del Regno di Castiglia, poi èsule e perseguitato, amico del re àrabo di Molina, òspite del re àrabo di Saragozza e tutore del suo figlio Muetaman, pareva avere errato per le Spagne a radunare quanto di cavalleresco avèvano le due nazioni. Alcuni vògliono che le prime memorie del Cid fossero composte in àrabo da due suoi paggi; poichè nelle corti di quel tempo le due stirpi vivèvano compagne, e si prestàvano mutuamente i poètici loro costumi. E pare che le prime poèsie dell'Europa romanza fossero traduzioni di canti moreschi, fatte per accompagnarsi ai medèsimi strumenti. Lìàrabo, ad onta del suono gutturale, era a quel tempo la lingua musicale del mondo civile, come l'italiano ai nostri giorni. Le raffinate galanterie delle città moresche, imitate dai cavalieri provenzali, èbbero poi l'ultimo tocco di soavità nei versi del Petrarca. Le canzoni del Romanzero erràrono a lungo fra il pòpolo, che forse accumulò com'è suo stile, sopra un solo nome le memorie di molti guerrieri. Esse non si fissàrono in iscritto se non nel secolo XVI per opera di Ferdinando del Castillo; e pòrtano qua e là le vestigia dei quattro sècoli, ch'erano corsi frattanto dalla morte del Campeador.

Questa Odissèa guerriera, tutta piena delle fiere passioni del medio evo, comincia col dipìngere la tristezza del padre di Rodrigo, cui la vecchiaia toglie di poter vendicare un'ingiuria fattagli dal conte Lozano. Il giòvane Rodrigo sfida a morte Lozano, recide il capo del cadàvere, e comparso con esso avanti al padre, gli piega inanzi con fliale sudditanza il ginocchio. Il vecchio sedeva a mensa solingo e gemente, volgendo in cuore l'onta sofferta, e covando mille fantasmi d'onore, quando Rodrigo, col mozzo teschio del conte impugnato pei capelli e stillante sangue, prende il braccio del padre, e lo scuote dal suo cupo letargo, e gli grida che vendicato è l'onore e asterso l'insulto. Il vecchio crede di sognare, e a stento riconosce il suo nemico sfigurato dalla morte, e prega Rodrigo, il figlio dell'anima sua, di velare quel teschio tremendo che prima di averlo rimeritato della sua prodezza, il cuore gli si fenda per gioia! E vuole che il figlio prenda alla mensa il primo seggio, il seggio del padre; perchè chi ha salvato l'onore della famiglia debb'èssere il primo in casa. Questi sono costumi tremendi; e il pòpolo, che trasceglieva a' suoi canti codeste memorie e le serbava tenaci, con ciò solo dipingeva la sua naturale fierezza.

Donna Ximena, figlia del conte Lozano, vestita con lungo stràscico a bruno, scortata da trenta scudieri, si reca alla corte di Burgos, e prostrata sui tappeti dell'àula reale chiede al re Fernando vendetta della morte del padre, e con baldanza concessa alle dame d'una età cavalleresca, dice che re il quale nega giustizia, non dovrìa porta corona, nè cinger arme di cavaliere. Ma Rodrigo frattanto ha sparso ampiamente la sua fama, ha vinti e fatto prigioni cinque re mori, e poi gli ha sciolti, e fatti vassalli. Ximena, abbagliata dalla gloria del suo nemico, gli perdona la morte del padre. E quando Rodrigo ritorna coi trecento suoi vittoriosi compagni, il re Ferdinando gli dà in nozze Donna Ximena, e vi aggiunge un dono di terre e castella. Il Campeador nel darle la mano le dice, che le ha bensì ucciso il padre ma non a torto, ma a faccia a faccia, e per vendicare un'ingiusta offesa; e che per un padre le rende un marito. La vendetta era a quei tempi duri ed eslegi un dovere di sangue, un atto di domèstica pietà.

Cinque re mori màndano a Rodrigo un dono di cento cavalli da battaglia, e gioie e veli per donna Ximena e per le figlie e splèndide vesti ai gentiluòmini della sua casa. Ma il leale fidalgo risponde agli inviati, che erràrono l'ambasciata, e che dove Ferdinand è re, Rodrigo è vassallo.

La continua vita di campeggiamenti e di battaglie, che quei cavalieri conducèvano lungi dai loro focolari, vien dipinta da Ximena stessa, che solinga, incinta, pròssima ad esser madre, si abbandona alle lagrime; e scrive al re Fernando, e si lagna ch'ei le desse uno sposo come per rìdersi di lei; e gli dimanda quale legge di Dio gl'insegna:

Tanta stagione a scompagnar gli sposo,
Producendo le guerre? E quan consente
Ragion, che un dolce, graziato, umile
Garzontetto adusiate esser leone
Feroce? Giorno e notte ov'evvi a grado
Col guinzaglio il traete, e in tutto un anno
Solo una volta a me il sciogliete. E pure
Quest'una volta ei riede a me sì lordo
Di sangue, fino al piè del suo cavallo,
Che ho paura a vederlo. E quando tocca
Le mie braccia, di botto egli in mie braccia
S'addorme, e in sonno geme, e fieramente
Si scuote, perchè sogna essere in guerra.
Appena spunta l'albra, e già le scolte
E i capitani, perchè rieda al campo,
Stimolando lo vanno. A voi piangendo
Nella mia trista vedovanza il chiesi,
Pensando riaver padre e marito.
Nè tengo l'un, nè l'altro aggiungo; e quando
Non posseggo altro bene, oc ch'ei mi venne
Per voi rapito, in guisa vivo il piango
Come fosse sepolto

Trad. di P. Monti 77.

Questo lagno di Ximena spira omèrica naturalezza, evidenza e semplicità. La risposta di Fernando è pinea di festività e di garbo cortigiano.

Ximena divenuta madre si presenta alla messa del parto nella chiesa di Leone, seguita da eleganti scudieri, vestita di scarlatto e di velluto, con ricca cintura d'argento, e veli d'alto prezzo, e inanellate le chiome sulle spalle. Il re Ferdinando s'avviene in lei sulla soglie del tempio, e le porge la mano, e le dice: «Gentile Ximena, poichè il vostro marito, che sta fra le battaglie, oggi non può servirvi del suo braccio alla chiesa, io vi presto il mio, e dono alla vostra bella fanciulla mille monete e il mio più leggiadro pennacchio». E così la conduce in chiesa, e le fa scorta alla casa. Eleganze queste che tèmprano la crudezza della feroce età.

Colla morte di Ferdinando il regno si divide a tre figli e due figlie; la discordia si accende nella real famiglia; una delle principesse viene assediata da suo fratello in Zamora; gli avversi cavalieri combàttono sfide mortali sotto le mura della città; dame e donzelle stanno sulle torri a mirar le loro prodezze. È una scena di modo ariostesco. Ma il traditor Bellido s'insinua dalla città nel campo, e ferisce a morte il re Sancio. Invano l'onorato vecchio Gonzalo, tuttochè nemico, ha gridato dalle mura al re ed a' suoi Castigliani di guardarsi dal traditore, e non imputare il tradimento a cavalieri onorati. Questo orrore del tradimento è una delle poche virtù che si ponno invidiare a quelle semibàrbare generazioni, seppure questa lealtà cavalleresca non fu dono ideale dei pòsteri alla memoria degli ammirati campioni.

Il Campeador costringe il re Alfonso erede del tradito Sancio, a giurare con dòdici suoi cavalieri al cospetto dei Grandi di non aver avuta parte in quella perfidia; e dice loro sul viso che se mai v'èbbero parte, pòssano avere la stessa miserabil morte. E tutti i Grandi rispòndono: così sia. Il re, vergognando e fremendo lo giura. Allora rodrigo mette un ginocchio a terra, gli bacia la mano, e afferma non avergli voluto far onta, ma soltanto sciògliere il suo dèbito di fedele vassallo al re tradito, il che non facendo sarebbe stato spergiuro, e vile agli occhi del vulgo. Ma Alfonso prende profondo rancore contro l'audace cavaliero; e quando questi, senza suo comando, invade le terre del re moro di Toledo, e ne trae settemila prigioni e molti armenti, gli scrive d'andar fra nove giorni in bando dal suo regno; e i Grandi invidiosi applàudono alla caduta del valoroso.

Rodrigo va èsule co' suoi compagni d'arme. La sua sposa e le figlie, Donna Elvira e Donna Sol, lo accòmpagnano al tempio di Cardegna, dove i sacerdoti benedìcono la sua bandiera, ch'egli tutto armato abbraccia, dicendo:

O insegna benedetta, un Castigliano
Iniquamente dal suo re bandito,
Ma compianto, ti leva.

E giura di rispòndere da fedele vassallo alla sconoscenza del suo re, e di tributargli tutte le conquiste che farà sui Mori; e abbracciata la sposa e le figlie le abbandona mute e lagrimose. Entra adunque con cinquecento prodi nelle terre dei Mori, e vince battaglie, e prende castella e città; e manda all'ingrato Alfonso cento superbi destrieri, e cento schiavi che li guìdano a mano, e le chiavi di cento castella, e quattro re prigionieri.

In altro canto, l'èsule stesso dipinge la dura sua vita: «Io sono il Cid Campeador, che nelle battaglie precorro coll'arco e colla lancia ogni guerriero, e non dormo sotto tende, e mango sulla nuda terra, e non veglio la notte a meditare inganni per espugnare i regni altùi; ma li conquisto col mio valore. E se espugno un castello, fo tosto scolpirvi in pietra le armi del mio re». Ma poi soggiunge:

Io piango,
Quando rimango sol, la mia Ximena,
Tortorella solinga in terra altrùi.

Dopo la vittoria egli comanda a' suoi d'aver cura dei feriti e dar sepolcro agli estinti, e dire in suo nome ai prigioni, ch'egli è terribile in guerra ma clemente in pace, e affidarli ch'ei non intende lasciar loro le figlie in preda a' suoi guerrieri.

Presa ai Mori la ricca città di Valenza, egli ne manda le spoglie al re Alfonso, e gli scrive d'avergli in due anni in d'esilio conquistate colla sua spada più terre che non gliene lasciasse in retaggio il re Fernando, e che non è ventura d'altri che del re alfonso, se inanzi ai vessilli del Campeador le migliaia di nemici sono tènebre che saetta il sole. Quei che in corte lo calùnniano or sìeno tranquilli, perchè il cuor di Rodrigo è salda muraglia a loro terre e loro vite; e bàdino di non irritarlo, perchè, s'egli aprisse il varco allo stormo dei Mori, e quella piena inondasse il regno, allora si vedrebbe se i suoi persecutori vàlgano tanto a salvar l'onor loro, come ad insidiare l'altrùi. Egli chiede solo, che in mercede di Valenza il re gli renda la sua sposa e le sue figlie, affinchè vèngano a veder la sua gloria.

L'Emir-al-Moumenim, ossia Principe de' Credenti, che i Cristiani dicèvano li Miramolino, viene con cinquantamila cavalli e infinito numero di fanti ad assalir Rodrigo in Valenza. Ximena e le figlie, salite sulla torre del palazzo, vèdono le tende degli Arabi biancheggiar tutto il verde piano, òdono i tamburi e le alte grida, e restano atterrite, poichè non vìdero mai tanta agente accampata. Rodrigo le rassicura, perchè nulla è a temere fin ch'ei vive; e le ricchezze dei Mori saranno la dote delle sue figlie, e saranno tanto maggiori, quanto più numerose sono le turbe nemiche. E comanda ad alvarro Salvadorez d'irròmpere sopra quei Saraceni, che penetràrono fra gli orti della città, a fine che le sue donne vèdano quant'egli è ardito. Alvaro disperde i Mori, ma trascorre troppo nell'inseguirli, e vien preso, Il dì seguente Rodrigo vince in battaglia tutto l'esèrcito, ferisce l'emiro, e nella più ricca tenda del campo vinto incontra l'amico prigioniero.

Rodrigo si reca alle Cortes, adunate dal re Alfonso in Toledo, e vi chiede giustizia dei vili insulti fatti alle sue figlie dai loro mariti, i conti di Carrione. Egli fa recare nella sala del palazzo di Galiana uno scanno, che ha preso nella reggia moresca di Valenza, e ch'è tutto adorno di gemme e d'oro; una guardia di suoi fidi rimane a custodirlo. Ne frèmono i Grandi, ma il re li riprende, e dice che il solo Cid è degno di sedere su quello scanno, e quanto più il vassallo è temuto e grande più onore ne torna al regno.

I conti di Carrione accusati accèttano la prova del duello, ma sono vinti dai campioni del Cid e gridati infami e traditori; e le figlie di Rodrigo vanno a regie nozze con Sancio d'Aragona e Ramiro di Navarra. Tutta la istoria dei gèneri del Cid è sparsa di fatti ignòbili e piena di ciclopèa rozzezza; è il rovescio della medaglia; è la istoria prosàica che da di fodera alla poesìa.

Il Campeador, pròssimo a morire, presentando l'assalto del re àrabo Bukar contro Valenza, chiama a sè la sua famiglia ed i suoi fidi; e vieta loro di piàngere la sua morte, perchè i Mori non ne prèndano baldanza. Vuole che il suo cadàvere, imbalsamato colle essenze che gli mandò in dono d'ammirazione il sultano di Persia, vestito dell'arme e colla spada nuda in pugno, sia posto sul diletto suo palafreno; e gli si spieghi inanzi il suo vessillo, come quando vinceva le battaglie; e si proceda come per combàttere l'esèrcito saraceno. Egli morendo si consola di non esser più èsule:

Non moro in terre estrane; in mio paese
Io moro.

Fra quelle parole entra Ximena. Vedùtala in grande affanno, gli astanti rattèngono il pianto, e il Cid si tace.

Il fedele Gil Diaz imbàlsama il cadàvere del Campeggiatore, lo assicura a cavallo, vestito di tutte armi, e seguìto da seicento cavalieri, i quali per mirabil visione sèmbrano al nemico settantamila.

Settantamila cavalier cristiani
Biancovestiti come neve, e a guida
Di tal che fea terror, sovrano a tutti,
Si càndido destrier, fregiato il petto
Di rossa croce. E bianca insegna ha in mano,
Simile a fiamma ha il brando.

I Mori fùggono alle navi; diecimila ne inghiotte il mare; muòiono venti re, i Castigliano onusti di prèda riprèndono la via, e depòngono il vittorioso cadàvere nel tempio di Cardegna. Così queste cantilene racchiùdono tutti gli elementi della poesìa, il prodigioso e il vero, i costumi della vita e le visioni della fantasìa. Siamo ben lungi dalla gravità istòrica; eppure forse più che nell'istoria vediamo la confusione del governo, le prede incessanti, la turbulenza dei GRandi, le vendette ereditarie, il duello posto al luogo della ragione, l'orrore del tradimento, la vita venturosa e vagabonda dei combattenti, e tutta la disciplina militare ridutta a questo solo, che ciascun vassallo combatte a suo talento, ma in nome del re, e solo pel re si tiene congiunto al corpo della nazione. Ma soprattutto dòmina lo zelo guerriero, che spinge tutte queste forze lìbere e tumultuanti a continuo danno dei Mori. Ed ogni volta che si parla di questi, si parla di gemme e d'oro e di profumi e di sete e di bagni e di fontane zampillanti e di giardini ombrosi. La industre splendidezza delle loro tende, dei loro palazzi e dei loro bazari, fa contrasto alla severa povertà delle castella cristiane.

Nello stile sèmplice e schietto di queste canzoni si dipinge tutta la vera ìndole ibèrica, e ben si vede che lo sfarzoso stile dei gongoristi non venne da fonte antica, nè scaturì dall'ìndole nativa dello Spagnuolo, o dai Goti, o dai Mori. Esso nacque nello stesso tempo in Ispagna e in Italia da una perversa educazione collegiale, che tradiva il giòvane, celàndogli artificiosamnte i grandi e puri modelli, e lo preparava da lontano alla nullità della vita civile. Le menti vuote si pascèvano di pompa e d'arguzie; l'Italia ebbe i barocchi e i seiecentisi, e la Spagna il gongorismo. Se mai ritornasse la stessa educazione, avremmo lo stesso depravamento dell'intelletto e dei costumi.

Dai pochi tratti, che recammo della traduzione, si vede ch'ella riesce bastevolmente espressiva. È in verso sciolto; mentre l'originale è in rozzi ottonarii, senza rima e senza strofe, e alternati colla mera assonanza dell'ùltima vocale. Un maggiore studio di eleganza forse si trascurò per non disvisare il testo, il quale, o per incuria dei tempi, o per minore varietà e ricchezza di quella lingua, riesce al nostro gusto talvolta assai rùvdo e disadorno. Non è con fioriture da melodrama che vi si dipinge la tristezza di Diego; ma si dice dimessamente, che vedendo fallirgli le forze della vendetta, non può dormir di notte, nè gustar vivande, nè alzar dal suolo gli occhi, nè uscir di casa, nè favellar cogli amici:

Y viendo que le fallecen
fuerzas para la venganza,
non puede dormir de noche,
nin gustar de las viandas,
ni alzar del suelo los ojos,
ni osa salir de su casa,
ni fablar con sus amigos.

Inoltre il verso sciolto può seguire davvicino il testo, al pari della prosa e forse assai meglio, perchè la prosa poètica ha sempre un sentore d'affettazione. Tutte queste versioni di poesìe giòvano assài nella via di commenti perpetui del testo, il quale dovrebbe sempre trovàrvisi a fronte. Se si seguisse un tal uso, lo studio delle lingue straniere si propagherebbe assài; perchè il vicino confronto e l'allettamento della materia vincerèbbero le più salde pigrizie. E noi abbiamo gran bisogno d'allargare il cerchio, e uscir dalle abitùdini tìmide e superstiziose, che rèndono fredda e dèbole la nostra presente letteratura; dobbiamo guardarci intorno, e tornare europèi, per essere italiani al modo che lo fùrono Petrarca ed Ariosto.

È però a desiderarsi che a queste versioni prime, le quali stabiliscono per così dire un testo nostrale, una vulgata, seguìssero poi le traduzioni imitative, le quali si conformano all'originale per quanto può tollerarlo la diversa lingua. Giova fare lo sforzo di piegar questa alle idèe straniere; giova prepararla anzi tempo malleàbile e dùttile, come l'oro, il quale segue tutti gli allungamenti del filo d'argento che riveste, e si contorce seco in ogni maniera di ricami e di broccati. L'uomo che deve esprìmere pensieri proprii e nuovi, ha bisogno di trovare una lingua già snodata e doma dall'industria dei traduttori. Questi hanno agio d'andar provando e riprovando i varii modi, con cui si può meglio riprodurre un'idèa già felicemente espressa in altra lingua, e che sta fissa e immòbile nel testo ad aspettare che il traduttore la raggiunga e ritragga. Ma chi vuol esporre le novità del proprio ingegno, non può aver questo agio; poichè le idèe male adombrate e incerte sfùggono come un lampo alla mente, per poco ch'ella si divaghi a cercare una parola o tentare una frase. Le traduzioni imitative stanno alla letteratura, come i solfeggi alla voce, i quali la rèndono larga, flessìbile, intonata, pronta a colpire al volo le fugaci inspirazioni che riceve nell'onda stessa del canto.

Alcuni pensàrono che codeste reliquie delle tradizioni popolari, sian esse spagnuole, o gallesi, o illìriche, o scandinave, non dovrèbbero mai tradursi colla pompa di Cesarotti o colla nobiltà di Vincenzo Monti; vorrèbbero che le cose antiche si traducèssero in lingua antiquata, e che fra le leggende balbettanti del duecento si cercàssero le goffe rime e le rùvide frasi che sole pòssono rappresentare la grezza forma delle tradizioni antiche. Veramente noi ammiriamo nelle gallerìe di Venezia i Tiziani, tuttochè offuscati dal tempo; e abbiamo più cara quella inculta loro verginità, che i temerari rappezzi e il belloetto mereticio dei ristauratori. Ma se alcun prendesse a copiare la Vènere o la Maddalena, dovrebbe egli cercar sulla tavolozza un color di presciutto affumicato? Quella non sarebbe già copia del nativo Tiziano, ma una contrafazione dell'òpera odiosa del tempo, che va divorando l'òpera dell'arte. Meglio poi lasciare quali sono la Vènere e la Maddalena, e provi allato una copia splèndida di tutta la gioventù del colorito; la quale dica al riguardante ciò che la pittura originale non può più dirgli; cosicchè mirando e rimirando alternamente l'una e l'altra, egli possa a poco a poco intravedere sotto al velo che la vetustà diffuse sull'originale; e perciò chi ebbe a dire troppo vivace e fresca l'Iliade del Monti, si lagnò d'un difetto che ogni anno andrà fatalmente minorando, e che, sino a quando duri, eluderà per noi gli effetti maligni del tempo. Possiamo essere certi che quello qualunque sìasi che mise insieme le parole originali d'Omero, cercò le più belle e armòniche e luminose che la lingua greca a quel tempo gli porgeva; e fece nè più nè meno di ciò che Vincenzo Monti fece ai nostri dì colla lingua nostra, quando volle farci una visione di quell'antica bellezza. E se nel frattempo la lingua greca si andò mutando, cosicchè la locuzione omèrica perdette il suo fiore giovanile, e apparve ai pòsteri veneranda e rugosa, noi colle nostre versioni dobbiamo piuttosto cercare di collocarci al punto di mira in cui furono i contemporanei d'Omero, che non in quello delle età posteriori, le quali non hanno diritto di frapporsi fra Omero e noi.

V'è in castigliano un'altra poesia sul Campeador, e il traduttore parrebbe crèderla più antica delle romanze ch'egli stesso tradusse. Si chiama propriamente il Poema del Cid; e alcuni lo attrìbuiscono a Pietro cantore della Chiesa di Sivilia, altri ne lo fanno solamente copiatore; e così risurge sempre il dubbio omèrico. Si trovò manoscritto in Vivar, patria del Cid; ma la mano sembra del sècolo XIV.Le assonanze in questo poema divèngono spesso vera rima; ma gli eruditi soli potranno chiarire con minuto paragone questi equìvoci segnali dell'età. Vuolsi però aver sempre in mente, che fin quando un poema non si rende immòbile nel manoscritto, fino a quando rimane esposnto all'arbitrio dei ripetitori popolari, può sempre contrar modi d'un'età posteriore a quella in cui venne primamente composto. E inoltre il verso del Poema è più lungo, meno lirico e più eròico che gli sparsi frammenti del Romanzero. Appena si troverebbe in Omero uno spondaìco più maestoso di questo:

«Tu eres Rey de lo Reyes, y de todo el mundo padre.»

Pare che i cenni fugaci della romanza lìrica nel Poema si distèndano in più robusta ed èpica forma. Èccone un esempio:

«I Mori lo affrontàno per torgli la bandiera; gli avvèntano gran colpi, ma nol posson ferire. Disse il Campeadore: Per un Dio, salvàtelo. Imbràcciano gli scudi sul cuore; arrèstano le lance adorne di pennoni; chinàno sugli arcioni la faccia, e vòlano a ferirli da prodi. Il ben nato grida loro ad alta voce: Ferìteli, cavalieri, per carità. Io sono Rui Diaz, il Cid, il Campeadore di Vivar. Tutti della schiera di Bermudez fan colpo. Sono trecento lance, tutte col pennone; ogni colpo trafìgge un Moro, ed altretanti ne abbatte il secondo assalto. Vedreste tante lance alzarsi e abbassarsi, tante targhe forate e fesse, tante false corazze sanguinanti, tanti cavalli vaganti senza cavaliero. Grazie a Dio che regna in alto, poichè vincemmo sì fiera battaglia»

«Quando tal batalla avemos arrancado.»

Uno studio sagace di questi monumenti poètici, a cui mancàrono solo gli adornamenti d'una più elegante età, illustrerebbe assi la gran questione aperta da Vico sulle poesìe nazionali. Siccome poi sono qualche cosa di mezzo fra le cròniche e i poemi, forse qualche animoso ingegno potrebbe còglierne il secreto, e conquistare alla nostra poesìa alcuna di quelle belle imprese, che contro quei medèsimi Arabi e Turchi fècero i nostri vecchi Pisani e Sìculi e Lìguri e Vèneti per terra e per mare, e che giàcquero sempre obliate nelle cròniche municipali. Ma le imaginazioni dei nostri presenti scrittori non sèmbrano aggirarsi volontieri se non su quelle parti delle nostre istori, che brutte e squàllide di contagi e di càrceri e di stupri, spìrano avvilimento e depravazione.

Tanto maggior lode adunque a chi, secondo il suo ingegno, cerca variare e ravvivare la nostra vita letteraria colla luce di queste virìli fantasie, che il senso commune dei pòpoli si compiace di conservar gelosamente, e che alìmentano la dignità nazionale. Il traduttore già da qualche anno addietro si annunciò amico delle lèttere spagnuole, ch'egli va coltivando nella sua parochiale solìtudine sul dorso d'un alto monte; possa il suo esempio destare imitatori in mezzo alla tanta gioventù, che nelle città nostre va divorando fra la noia una vita ignòbile e nulla.

  1. Fidalgo in portoghese diviene hidalgo in castigliano. È il fèal dei francesi.
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