< Il Saggiatore (Favaro)
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Capitolo XLIII
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Ma seguitiamo innanzi. "Ego igitur multum conferre arbitror, ad maiorem minoremve calefactionem corporum attritorum, qualitates eorumdem, sint ne videlicet illa calidiora an frigidiora, remque hanc ex multis aliis pendere, de quibus statuere adeo facile non sit. Nam si ferulas duas, corpora levissima ac rarissima, mutua aut alterius ligni confricatione attriveris, ignem brevi concipient: non idem in lignis aliis accidit, durioribus ac densioribus, quamvis eadem diutius ac vehementius atteri consumique contingat. Seneca certe, "Facilius, inquit, attritu calidorum ignis existit"; ex quo fieri ait, ut æstate plurima fiant fulmina, quia plurimum calidi est. Præterea, ferreus pulvis in flammam coniectus exardescit, non vero quicumque alius pulvis e marmore. Quare si in aëre plurimum exhalationum calidarum fuerit, eumdemque ex vehementi aliquo motu atteri contigerit, non video cur calefieri atque etiam incendi non possit: tunc enim, cum rarus sit ac siccus multumque admixtum calidi habeat, ad ignem concipiendum aptissimus est."

Qui, dove pare che il Sarsi si apparecchi per produrre con dottrina più salda migliore esplicazione delle difficoltà che si trattano, non veggo né che venga apportato molto di nuovo, né di gran pregiudicio alle cose del signor Mario. Imperocché il dire che molto conferisce al maggiore o minor riscaldamento de’ corpi che si stropicciano insieme, l’essere essi di qualità calda o fredda, e che anco da molte altre cose non così ben manifeste depende questo negozio, lo credo io pur troppo; ma non mi par già di farci acquisto veruno, per esser, di questo che mi vien detto, la seconda parte troppo recondita, e la prima troppo manifesta e notoria, atteso che in sostanza non mi dice altro se non che più si scaldano quei corpi che son più caldi o più disposti allo scaldarsi, e meno quelli che son più freddi. Così parimente quello che segue appresso, che per la confricazione alcuni legni, cioè i più leggieri e rari, s’accendano più facilmente che altri più duri e densi, ancor che questi più gagliardamente e più lungo tempo s’arruotino insieme, lo credo parimente, ma ciò non veggo che faccia contro al signor Mario, che mai non ha detto in contrario; e non è adesso ch’io sapevo che più presto s’infiammava un pennecchio di stoppa in un fuoco ben che lentissimo, che un pezzo di ferro nella fucina ben ardente.

A quello ch’ei soggiunge, e fortifica col testimonio di Seneca, cioè che la state sia per aria maggior copia d’essalazioni secche, e che perciò si facciano molti fulmini, io ci presto l’assenso; ma dubito bene circa ’l modo dell’accendersi cotali essalazioni insieme coll’aria, e se ciò avvenga per l’attrizione cagionata per alcun movimento. Io reputerei vero quanto viene scritto dal Sarsi, se prima egli m’avesse accertato, non essere in natura altri modi di suscitar l’incendio fuori che questi due, cioè o col toccar la materia combustibile con un fuoco già attualmente ardente, come quando con un moccolo acceso s’accende una torcia, o vero con l’attrizion di due corpi non ardenti: ma perché altri modi ci sono, come per la reflessione de’ raggi solari in uno specchio concavo, o per la refrazzion de’ medesimi in una palla di cristallo o d’acqua, ed anco s’è veduto talvolta infiammarsi per le strade, mediante l’eccessivo caldo, le paglie ed altri corpi sottili, e questo farsi senza alcuna commozione o agitazione, anzi solamente quando l’aria è quietissima, e che per avventura s’ella fusse agitata e spirasse vento, l’incendio non ne seguirebbe; perché, dico, ci sono questi altri modi, perché non poss’io stimar che ve ne possa esser qualche altro diverso da questi, per lo quale l’essalazioni per aria e tra le nubi si accendano? E perché debbo io attribuire ciò ad un veemente movimento, se io veggo, prima, che senza l’arrotamento de’ corpi solidi, quali non si trovano tra le nuvole, non si suscita l’incendio, ed oltre a ciò niuna commozione si scorge in aria o nelle nuvole quando è maggior la frequenza de’ lampi e de’ fulmini? Io stimo che il dir questo non abbia in sé più di verità, che quando i medesimi filosofi attribuiscono il gran romor de’ tuoni allo stracciamento delle nuvole o all’urtarsi insieme l’una contro l’altra; tuttavia nello splendor de’ maggiori baleni, e quando si produce il tuono, non si scorge nelle nuvole pure un minimo movimento o mutazion di figura, il quale ad un tanto squarciamento doverebbe esser grandissimo. Lascio stare che i medesimi filosofi, quando tratteranno poi del suono, vorranno nella sua produzzione la percussione de’ corpi duri, e diranno che perciò la lana né la stoppa nel percuotersi non fanno strepito; ma poi, quando n’averanno bisogno, la nebbia e le nuvole percuotendosi renderanno il massimo di tutti i rumori. Trattabile e benigna filosofia, che così piacevolmente e con tanta agevolezza si accommoda alle nostre voglie ed alle nostre necessità!

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