< Il Saggiatore (Favaro)
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Capitolo XLVI
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"Sed quid adversus hæc afferre possit Galilæus, non dissimulabo: dicat enim fortasse, nullam unquam fuisse fundarum aut arcuum vim tantam, quæ sclopeti aut muralis tormenti impulsum æquare potuerit; quod si plumbeæ glandes hisce tormentis excussæ non liquescunt, addito etiam pulveris incendio, quo vel uno liquescere deberent, iure suspicari nos posse, poëtarum fuisse commenta illa liquefacti plumbi atque exustarum exempla sagittarum. Sed si hæc facile obiiciat Galilæus, non æque tamen facile eadem probarit. Quin potius scio, explosas maioribus bombardis plumbeas pilas in aëre liquescere aliquando. Certe Homerus Turtura, ut nuperrimus ita diligentissimus rerum Gallicarum scriptor, ait, ingentem aliquando tormentariorum globorum vim inutilem mœnibus diruendis fuisse, quod, cum illi exigui prius forent atque ex ferro, superinducto plumbo maiores effecti fuissent: "cum enim, inquit, in muros exploderentur, plumbo in aëre liquescente, solus interior globulus ex ferro, instar nuclei, abiecto cortice, murum pertingebat." Præterea, audivi ipse ex iis qui viderant, probatissimæ fidei viris, cum dicerent, globulum plumbeum rotundum sclopeto explosum, cum brachio forte alterius inhæsisset, ex eodem postea extractum fuisse non rotundum, sed oblongum et vere glandis figuram referentem: quod quotidianis etiam exemplis comprobatur, dum irrito sæpe ictu glandes plumbeæ sclopetis excussæ, inter hostium vestes implicitæ, figura non amplius qua fuerant, sed compressæ ac laciniosæ atque etiam frustatim comminutæ reperiuntur. Quod argomento est, illas, ex calore concepto rariores effectas, invalido percussisse ictu."

Continua pure il Sarsi nel cominciato stile, di voler provar coll’altrui relazioni quello che sta in fatto e che ogn’ora si può vedere per l’esperienza; e come per autorizar gli antichi arcieri e frombolatori ha trovato uomini per altro insigni, così, per render credibile il medesimo effetto di liquefarsi le moderne palle d’archibuso e d’artiglieria, ha ritrovato un moderno istorico non men degno di fede né di minore autorità di qualunque altro antico. Ma perché non punto deroga di fede né di dignità all’istorico l’arrecare d’un effetto naturale vero una ragione non vera, essendo che all’istorico appartiene il solo effetto, ma la ragione è officio del filosofo; però, credendo io al signor Omero Tortora che le palle d’artiglieria, per essere state incamiciate di piombo, facesser poco effetto nel batter la muraglia nemica, piglierò ardire di negargli la ragione ch’egli, ricevendola dalla commune filosofia, n’adduce; con isperanza che l’istesso istorico, sì come sin qui ha creduto quello che ha trovato scritto da tanti altri uomini grandi, l’autorità de’ quali è stata bastante ad acquistar fede ad ogni lor detto, così, sentendo le mie ragioni, sia per cangiare opinione, o almeno per venire in pensiero di voler vedere coll’esperienza qual sia la verità. Credo dunque al signor Tortora, che le palle di ferro covertate di piombo nella batteria di Corbel facesser poco effetto, e che di loro si ritrovasser l’anime di ferro spogliate di piombo; e questo è tutto quello ch’appartiene all’istorico: ma non credo già l’altra parte filosofica, cioè che il piombo si liquefacesse, e che perciò si trovasser nude le palle di ferro; ma credo che giungendo con quello estremo impeto che dal cannone veniva cacciata la palla sopra la muraglia, la coverta di piombo in quella parte che rimaneva compressa tra ’l muro esterno e l’interior palla di ferro si ammaccasse e sbranasse, e che l’istesso o poco meno facesse anco l’altra parte del piombo opposta, schiacciandosi sopra il ferro, e che tutto il piombo, dilaniato e trasfigurato, saltasse in diverse bande, il quale poi, imbrattato da calcinacci e perciò simile ad altri fragmenti della ruina, malagevolmente si ritrovasse, e forse anco per avventura non fusse con quella diligenza ricercato, che richiederebbe la curiosità di chi volesse venire in cognizione s’ei si fusse strutto o pur dilacerato; e così servendo il piombo quasi come riparo e guanciale alla palla di ferro, onde ella minor percossa dava e riceveva, con ingrata ricompensa ne restava egli in guisa dilacerato e guasto, che né il cadavero ancora si ritrovava tra i morti. E perché io intendo che il signor Omero si ritrova costì in Roma, se mai accadesse che s’incontrasse con V. S. Illustrissima, la prego a leggergli questo poco che ho scritto e quel resto che scriverò appresso in questo proposito; imperocché grandissima stima farei del guadagnarmi l’assenso di persona meritamente pregiata assai all’età nostra.

Dico dunque, che se noi considereremo in quanto tempo va la palla dal cannone alla muraglia, e quello che dentro a tal tempo deve operare per far la fusione del piombo, gran meraviglia sarà ch’altri voglia persistere in opinione che pur tal effetto segua. Il tempo è assai meno d’una battuta di polso, dentro al quale si ha da fare l’attrizione dell’aria, si ha poi d’accendere, ed in ultimo si deve liquefare il piombo; ma se noi metteremo la medesima palla di piombo nel mezo d’una fornace ardente, ei non si struggerà né anco in venti battute: resterà ora al Sarsi di persuader altrui, che l’aria attrita e accesa sia uno ardore incomparabilmente maggiore di quel d’una fornace. Di più, ci mostra l’esperienza come una palla di cera tirata coll’archibuso passa una tavola, ch’è argomento ch’ella non si strugga per aria: bisognerà dunque che il medesimo Sarsi renda ragione, perché si liquefaccia il piombo, ma non la cera. Di più, se il piombo si liquefà, sicuramente, arrivando sopra un corsaletto, poca botta potrà fare; onde gran meraviglia mi resta che questi moschettieri non abbiano ancor pensato di far le palle di ferro, acciò non così facilmente si struggano; ma tirano pur con palle di piombo, alle quali poche piastre di ferro sono che resistano, ed in quelle che reggono si trova una ben profonda ammaccatura e la palla schiacciata, ma non già liquefatta. Negli uccelli ammazzati con le migliaruole si ritrovano i grani di piombo dell’istessa figura per l’appunto: toccherà al Sarsi a render ragione come si liquefacciano i pezzi di piombo di quindici o venti libre l’uno, ma non quelli che ne va trentamila alla libra. Che tutto il giorno si trovino tra i vestimenti de’ nemici le palle diversificate di figura, crederò che alcune si sieno schiacciate nell’armadura, e tali rimaste tra i panni; altre possono avere urtato per iscancìo in una celata e perciò allungatesi, e, giungendo stracche ne’ panni di un altro, restatevi senza offenderlo: ed in somma possono in una scaramuccia accadere mille accidenti, dico senza liquefazione; la quale quando fusse, bisognerebbe che il piombo, disperdendosi in più minute stille che non fa l’acqua (come sa il Sarsi), da luoghi altissimi, e però con gran velocità, cadendo, si perdesse del tutto, sì che niente d’esso si ritrovasse. Lascio star di dire che la freccia e la palla accompagnate dall’aria ardente doverebbono, la notte in particolare, mostrar nel lor viaggio una strada risplendente, come quella d’un razo, giusto nella maniera che scrive Virgilio della freccia di Aceste, che segnò il suo cammino colle fiamme; tuttavia tal effetto non si vede se non poeticamente, ben che gli altri accidenti notturni, come di baleni, di stelle discorrenti, per gran lume si facciano molto cospicuamente vedere.

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