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CAPITOLO QUARTO.
A fronte.
Il rombo del tuono svegliò, dopo le due, Noemi, che da pochi momenti aveva potuto prender sonno. Ella dormiva nella camera vicina a quella di Jeanne, con l’uscio aperto. Jeanne la chiamò subito. Avevano conversato fino alle due e Noemi, esausta, aveva finalmente ottenuto dall’instancabile amica, dopo molto pregare inutile, di essere lasciata in pace. Finse di non udire. Jeanne la chiamò da capo:
«Noemi! Il temporale! Ho paura!»
«Non hai paura niente!» rispose Noemi, irritata. «Taci! Dormi!»
«Ho paura! Vengo da te!»
«Proibisco!»
«Allora vieni tu!»
Noemi replicò un «vuoi finirla?» tanto risoluto che l’altra si chetò.
Per poco. La voce di bambina dolente, che Noemi conosceva bene, ricominciò:
«Non hai dormito abbastanza? Non puoi parlare, adesso? Avrai dormito tre ore!»
Noemi accese uno zolfanello e guardò l’orologio col quale alla mano aveva prima invocato il silenzio.
«Ventidue minuti!» diss’ella. «Basta!»
Jeanne tacque un momento e poi mise fuori quei piccoli hm! – hm! – hm! che son preludio al pianto di un bambino viziato. E seguì la voce sommessa:
«Non mi vuoi niente bene! – Hm! Hm! – Abbi pietà, parliamo un poco! – Hm! Hm!»
Noemi sospirò nella sua lingua nativa:
«Oh, mon Dieu!»
E si rassegnò con un secondo sospiro:
«Avanti! Cosa puoi dirmi che tu non abbia già detto in quattr’ore?»
Il tuono ruggì ma Jeanne oramai non se ne curava più.
«Domattina andremo al monastero» diss’ella.
«Ma sì, va bene!»
«Andremo noi due sole?»
«Ma sì, è già inteso!»
La voce piagnolosa tacque un momento e riprese:
«Tu non mi hai mica promesso, ancora, che qui in casa non dirai niente?»
«Dieci volte te l’ho promesso!»
«Sai, non è vero, cosa devi dire per quello svenimento di ieri sera, se ti domandano?»
«Lo so!»
«Devi dire che quel padre non è lui, che ho perduta una illusione e che mi sono sentita male per questo.»
«Ma mio Dio, Jeanne, queste son venti, delle volte!»
«Come sei cattiva, Noemi! Come non mi vuoi bene!»
Silenzio.
La voce di Jeanne riprende:
«Dimmi quello che pensi. Credi proprio che mi abbia dimenticata?»
«Non rispondo più.»
«Rispondi, invece! Una parola sola! Dopo ti lascio dormire.»
Noemi pensa un poco e poi risponde asciutta, per finirla:
«Ebbene, credo di sì. Credo che non ti abbia mai amata.»
«Questo lo dici perchè te l’ho detto io» ribatte Jeanne, aspra, senza lagrime nella voce. «Tu non puoi saperlo!»
«Bon, ça!» brontolò Noemi. «C’est elle qui me l’a dit et je ne dois pas le savoir!»
Silenzio.
La voce flebile:
«Noemi.»
Nessuna risposta.
«Noemi, ascolta.»
Niente. Jeanne si mette a piangere e Noemi cede.
«Ma, santo cielo, cosa vuoi?»
«Piero non può sapere che mio marito è morto.»
«Bene. E allora?»
«Allora non può sapere che sono libera.»
«E dunque?»
«Stupida! Mi fai venire una rabbia!»
Silenzio. Jeanne sa bene quale specie di rabbia è la sua. L’amica pensa troppo come lei stessa che vorrebbe tanto essere contraddetta nel suo presentimento doloroso, avere una parola di speranza.
Rise un riso lieve, forzato:
«Noemi, fai l’offesa, adesso, apposta, per non parlare.»
Silenzio.
Jeanne riprende, mansueta:
«Senti. Non credi che avrà delle tentazioni?»
Silenzio.
Jeanne non si cura, stavolta, che Noemi non risponda. Esclama:
«Sarebbe bella che proprio adesso non avesse più tentazioni!»
Il suo sdegno è tanto comico che Noemi, pure molto scandolezzata, non può a meno di ridere; e ride anche lei. Noemi ride; però anche la sgrida di queste sciocchezze enormi che dice senza riflettere. Perchè Noemi conosce Jeanne e sa che Jeanne in questo momento non è la vera Jeanne, conscia e signora di sè; o forse è la Jeanne più vera ma non certo quella che starà a fronte di Piero Maironi se mai s’incontrano.
Il tuono tace e Jeanne vorrebbe vedere il tempo che fa, ma le pesa di scendere dal letto, teme di sentirsi male, teme il dubbio di non poter salire fra qualche ora al monastero. Teme poi anche le difficoltà che gli ospiti farebbero se il tempo fosse troppo cattivo; le preme dunque di sapere come si dispone il cielo. Bisogna che scenda Noemi, la schiava cui ben di rado riescono vittoriose le ribellioni. Noemi scende, apre la finestra, esplora il buio con la mano distesa. Minute frettolose goccioline le titillano la mano. Il buio si varia un poco agli occhi di lei. Ella distingue, lì sotto, Santa Maria della Febbre, grigia sul campo nero. Le si rischiara la nuvolaglia pesante, vi nereggiano su le braccia della quercia imminente a destra, i profili delle montagne. Le minute frettolose goccioline titillano titillano la mano distesa, che si ritrae. Jeanne domanda:
«Dunque?»
«Piove.»
Ella sospira: «che noia!» come se avesse a piovere in eterno. E le goccioline prendono maggior voce, riempiono di sommesse parole la camera, si affiochiscono ancora. Jeanne non ha inteso le sommesse parole, non ha inteso che l’uomo di cui ha pieno il cuore giace svenuto sulla petraia deserta che la pioggia lava.
A mattina inoltrata la signora Selva, un po’ inquieta per non avere ancora veduto comparire nè l’una nè l’altra delle due signore, entrò pian piano nella camera di sua sorella. Noemi era quasi vestita e le accennò di tacere. Jeanne dormiva, finalmente. Le due sorelle uscirono insieme, si recarono nello studio di Giovanni che ve le attendeva. Dunque? Don Clemente era proprio l’uomo? Marito e moglie desideravano sapere, per regolarsi. Giovanni non dubitava più e sua moglie dubitava ancora. Noemi! Noemi doveva sapere! Giovanni chiuse l’uscio, mentre Maria, interpretando il silenzio di sua sorella per una conferma, insisteva: «ma davvero? ma davvero?»
Noemi taceva. Avrebbe forse tradito il segreto dell’amica nell’intento di cospirare con i Selva per la sua felicità, se non l’avesse trattenuta il dubbio di un disaccordo con i Selva e anche il senso di qualche cosa di malfermo in sè stessa. Probabilmente i Selva, cattolici, non desideravano che l’uomo fuggito dal mondo vi ritornasse. Lei, protestante, non poteva pensare così. Almeno non lo avrebbe dovuto. Lei doveva pensare che Iddio si serve meglio nel mondo e nel matrimonio. Lo pensava, ma non si nascondeva che se il signor Maironi adesso sposasse Jeanne non lo potrebbe stimare molto. Insomma era meglio tacere la strana verità.
«Cosa pensate?» diss’ella.» Che quell’ecclesiastico di ieri sera, che è passato davanti a noi dopo tutta quella vostra mimica, fosse l’amante antico? È quello il vostro don Clemente? Bene, non è lui.»
«Ah! Proprio no?» esclamò Giovanni fra sorpreso e incredulo. Sua moglie trionfò.
«Ecco!» diss’ella.
Ma Giovanni non si diede per vinto. Domandò a Noemi se fosse ben certa di quello che diceva, e come potesse spiegare il tramortimento della signora Dessalle. Noemi rispose che non c’era da spiegar niente. Jeanne soffriva di anemia ed era soggetta ad accessi di spossatezza mortale. Giovanni tacque, poco persuaso. Se proprio era stato così, come poteva Noemi affermare con tanta sicurezza che don Clemente non era l’uomo? Nelle parole, nel fare, nel viso di sua cognata, Giovanni sentiva qualchecosa di poco chiaro, di poco naturale. Maria s’informò della notte. Come l’aveva passata la signora Dessalle? Inquieta? Ma di quale inquietudine?
«È stata inquieta! Che vi debbo dire?» fece Noemi, un po’ seccata. E si accostò alla finestra aperta come per spiare le intenzioni delle nuvole. Giovanni fece un passo verso di lei, risoluto di venire a capo delle sue reticenze. Ella lo presentì e si affrettò ad un rifugio, a chiedergli il suo pronostico del tempo.
Il cielo era tutto coperto, grandi nuvole basse traboccavano dai dorsi di Monte Calvo sopra i Cappuccini e la Rocca. L’aria era tepida, il fragore dell’Aniene, forte. Giù in basso il curvo nastro della strada di Subiaco traspariva fosco di mota fra i fogliami degli ulivi. Giovanni rispose:
«Pioggia.»
Noemi domandò subito quanta strada ci fosse dal villino ai Conventi. A Santa Scolastica venti minuti. Perchè lo domandava? Udito che Jeanne intendeva andarvi con Noemi quella mattina stessa, Maria protestò. Con un tempo simile? L’ultimo tratto bisognava farlo a piedi. Non potevano aspettare, rimandare a domani, a dopo domani?
«Quando te l’ha detto?» chiese Giovanni, quasi brusco.
Noemi esitò e poi rispose:
«Stanotte.»
Comprese, nel dire la parola, che suggeriva sospetti, specie dopo quell’attimo di esitazione; e attese un assalto, incerta se resistere o cedere.
«Noemi!» esclamò Giovanni, severo.
Ella lo guardò, soffusa il viso di un lieve rossore. Non disse neppure — che c’è? — ; tacque.
«Non negare!» ripigliò suo cognato. «Questa signora ha riconosciuto don Clemente. Non negare, dillo, è un dovere di coscienza per te! Non è possibile di permettere che s’incontrino!»
«Quello che ho detto è vero» rispose Noemi, ferma oramai della via che terrebbe. Nella sua voce senza sdegno, quasi sommessa, era una implicita confessione di non aver detto la verità intera.
«Non lo ha riconosciuto? Però tu, qualche cosa sai!»
«So qualchecosa» rispose Noemi «sì, ma non posso dire quello che so. Vi dico solo di far avvertire subito don Clemente che la signora Dessalle e io si va stamane a visitare i Conventi. Altro non vi dico e vado a vedere se Jeanne si è svegliata.»
Ella uscì di volo. I Selva si guardarono. Che significava questo voler avvertire don Clemente? Maria lesse nel pensiero di suo marito qualchecosa che le dispiacque, che non avrebbe voluto gli venisse alle labbra.
«Scrivi questo biglietto a don Clemente, intanto» diss’ella.
Ma Giovanni, prima di scrivere, volle pur dire quello che pensava. Per lui vi era una sola spiegazione possibile. Don Clemente era veramente l’uomo. Noemi aveva promesso alla signora Dessalle di non dirlo ma voleva impedire l’incontro. Maria esclamò vivacemente: «oh Noemi, mentire, no!» e poi arrossì, sorrise, abbracciò suo marito come se temesse di averlo offeso. Perchè appunto Giovanni si era offeso una volta di certe parole sfuggite a lei sulla poca sincerità degl’italiani e adesso un’ombra di quella nube poteva forse ritornare per effetto della sua esclamazione. Egli fu punto infatti, più dall’abbraccio che dalla protesta, e arrossì pure, ricordando, e sostenne che al posto di Noemi anche Maria avrebbe negato. Maria tacque, uscì dallo studio, brillandole negli occhi una lagrima importuna. Giovanni si compiacque, in principio, di avere rintuzzata una tenerezza offensiva e si mise a scrivere il biglietto per don Clemente. Non l’aveva finito di scrivere e il suo corruccio gli era già diventato rimorso. Si alzò, uscì in cerca della moglie. Era nel corridoio con Noemi che discorreva piano. Volse tosto il viso a lui, lo intese, gli sorrise con gli occhi ancora umidi, gli fè cenno di accostarsi e di parlar sotto voce. Che c’era? C’era che Jeanne voleva partire subito per Santa Scolastica. Noemi avvertì ch’era appena svegliata e che questo subito significava un’ora e mezzo, almeno. Ma bisognava mandare a Subiaco per una carrozza, poichè Jeanne non era in grado di fare a piedi che lo stretto necessario, l’ultimo tratto di via.
Un tocco di campanello richiamò Noemi. Jeanne l’aspettava, impaziente.
«Che cameriera pettegola!» diss’ella, tra sorridente e crucciata. «Cosa sei andata a raccontare a tua sorella?»
Noemi la minacciò di andarsene. Jeanne giunse le mani, supplichevole. E le domandò fissandola negli occhi, scrutandone l’anima:
«Come mi pettino? Come mi vesto?»
Noemi rispose sbadatamente:
«Ma come vuoi!»
L’altra battè il piede a terra, sbuffando. Allora Noemi capì.
«Da contadina» diss’ella.
«Sciocchissima creatura!»
Noemi rise.
Jeanne gemette il solito ritornello:
«Non mi vuoi bene! Non mi vuoi bene!»
Allora Noemi si fece seria, le domandò se volesse proprio riprenderselo, il suo Maironi.
«Voglio esser bella!» esclamò Jeanne. «Ecco!»
Ella era veramente bella così, nella sua veste da camera di un giallo ardente, con il suo fiume di capelli bruni, cadenti un palmo sotto la cintura. Era molto più bella e più giovine che la sera prima. Aveva negli occhi quella intensità di vita che prendevano un tempo quando Maironi entrava nella stanza dov’era lei, quando anche solo ella ne udiva il passo nell’anticamera.
«Vorrei la mia toilette di Praglia» diss’ella. «Vorrei comparirgli davanti col mio mantello verde foderato di pelliccia, adesso in maggio. Vorrei che vedesse subito quanto sono ancora la stessa e quanto voglio essere la stessa. – Oh Dio Dio!»
Gettò le braccia, con un subito slancio, al collo di Noemi, le impresse la bocca sulla spalla, soffocando un singhiozzo, mormorò parole che Noemi non poteva distinguere.
«No no no» diceva «sono pazza, sono cattiva, andiamo via, andiamo via.»
Alzò il viso lagrimoso. «Andiamo a Roma» diss’ella.
«Sì sì» rispose Noemi, commossa «andiamo a Roma, partiamo subito. Adesso domando a che ora c’è un treno.»
Jeanne l’afferrò di colpo, la trattenne. No, no, era una pazzia, cos’avrebbe detto sua sorella? Cos'avrebbe detto suo cognato? Era una pazzia, era una cosa impossibile. E poi, e poi, e poi... Si coperse il viso, si mormorò dentro le mani che le bastava di vederlo, di vederlo un solo momento, ma che partire senza vederlo non poteva, non poteva, non poteva.
«Andiamo!» diss’ella, dopo un lungo silenzio, scoprendosi il viso. «Vestiamoci! Mi vestirò come vorrai tu; di sacco, se vorrai, di cilicio.»
Ell’aveva ricuperato il suo sorriso cruccioso di prima.
«Chi sa?» disse. «Forse mi farà bene di vederlo vestito da contadino.»
«Io guarirei subito» mormorò Noemi; e arrossì, sentendo di aver detto una grossa falsità.
Quando la signora Selva bussò all’uscio per avvertire che la carrozza era pronta, Jeanne pregò Noemi, con umiltà comica, di lasciarle mettere il grande cappello Rembrandt che prediligeva. Le nere ali piumate, curve sul viso pallido, sui neri fuochi degli occhi, sull’alta persona avvolta in un mantello scuro, parevan vive dell’anima stessa di lei, cupa, appassionata e altera. Ella sentì, nel dare il buongiorno a Maria Selva, l’ammirazione che destava. La sentì anche negli occhi di Giovanni, ma diversa, non simpatica. Appena lasciatolo per scendere con Noemi al cancello dove la carrozza aspettava, le domandò se avesse detto niente, proprio niente, a suo cognato. Avutane una risposta rassicurante, mormorò:
«Mi pareva.»
Fatti pochi passi, le strinse forte il braccio, esclamò lieta come per una scoperta improvvisa:
«Però sono ancora bella!»
Noemi non le dava retta. Noemi si domandava: il nome Dessalle avrà detto qualchecosa a quel frate? Lo avrà egli udito da Maironi? Se Maironi gli ha raccontato di questo amore, non potrebbe avere taciuto il nome della signora? In fondo ell’aveva un’acuta curiosità di conoscere l’uomo che aveva ispirato a Jeanne un sentimento così forte ed era scomparso dal mondo in un modo così strano. Ma lo avrebbe voluto vedere da sola. Era uno sgomento di pensare che i due s’incontrassero senza qualche preparazione. Almeno poter prima parlare a questo frate, a questo don Clemente, accertarsi che sa, informarlo se non sa, apprendere da lui qualchecosa di quell’altro, il suo stato d’animo, le sue intenzioni! Basta, pensò salendo in carrozza, faccia la Provvidenza! E assista questa povera creatura!
Nel metter piede a terra dove comincia la mulattiera, Jeanne propose timidamente, come chi prevede un rifiuto e lo riconosce ragionevole, di salire ai Conventi sola, colla guida di un monello corso da Subiaco dietro la carrozza. Il rifiuto venne infatti e vivacissimo. Non era possibile! Che mai le veniva in mente? Allora Jeanne supplicò di essere almeno lasciata sola con lui, se lo avesse trovato. Noemi non seppe che rispondere.
«E se ti precedessi?» diss’ella. «Se domandassi del padre Clemente? Se cercassi di capire cos’è, cosa fa e cosa pensa il tuo…»
Jeanne la interruppe, esterrefatta.
«Il padre? Parlare al padre?» esclamò squadernandole ambedue le mani sul viso come per turarle la bocca. «Guai a te se parli al padre!»
S’incamminarono lentamente per la sassosa mulattiera. Jeanne si fermava spesso, presa da tremiti, vibrando come un filo teso al vento. Porgeva allora in silenzio a Noemi le mani gelate perchè sentisse e le sorrideva. Nel mare delle nebbie correnti a monte comparve, curioso anche lui, l’occhio smorto del sole.
II.
Don Clemente celebrò messa verso le sette, parlò coll’Abate e poi si recò all’Ospizio dei pellegrini. Trovò Benedetto addormentato con le braccia in croce sul petto, le labbra socchiuse, il viso composto a una visione interna di beatitudine. Gli accarezzò i capelli, lo chiamò sottovoce. Il giovine si scosse, alzò, smarrito, il capo, balzò dal letto, afferrò e baciò la mano a don Clemente che la ritrasse con un impeto di umiltà frenato subito dal suo pudore d’anima, dalla coscienza dignitosa del suo ministero.
«Dunque?» diss’egli. «Il Signore ti ha parlato?»
«Sono nella Sua volontà» rispose Benedetto «come una foglia nel vento. Come una foglia che non sa niente.»
Il monaco gli prese il capo a due mani, lo attirò a sè, gli posò le labbra sui capelli, ve le tenne a lungo in una silenziosa comunicazione di spirito.
«Devi andare dall’Abate» diss’egli. «Dopo verrai da me.»
Benedetto lo fissò, lo interrogò senza parole: perchè questa visita? Gli occhi di don Clemente si velarono di silenzio e il discepolo si umiliò in uno slancio muto ma visibile di obbedienza.
«Subito?» diss’egli.
«Subito.»
«Posso lavarmi al torrente?»
Il Maestro sorrise:
«Va, lavati al torrente.»
Lavarsi all’acqua che talvolta, per abbondanza di pioggie, suona nella valle Pucceia a levante del monastero e taglia di rigagnoli la via del Sacro Speco sotto Santa Crocella, era il solo piacere fisico che Benedetto si concedesse. Piovigginava; nebbie fumavano lente nel vallone alto, le tremole acque tenui si dolevano a Benedetto fuggendo attraverso la via, gli tacevano contente nel cavo delle mani, gl’infondevano per la fronte, gli occhi, le guance, il collo, fino al cuore, un senso della loro anima casta, dolce, un senso di bontà Divina. Benedetto si versò l’acqua sul capo largamente, e lo spirito dell’acqua gli alitò nel pensiero. Sentì che il Padre lo avviava per novo cammino, che ve lo avrebbe portato nella Sua mano potente. Benedisse riverente la creatura per la quale gli si era infuso tanto lume di grazia, l’acqua purissima; e ritornò all’Ospizio. Don Clemente, che lo attendeva nel cortile, trasalì al vederlo; tanto gli parve trasfigurato. Sotto la selva umida dei capelli in disordine gli occhi avevano una quieta gioia celestiale, e lo scarno viso di avorio una spiritualità occulta quale fluiva dai pennelli del Quattrocento. Come poteva quel volto accordarsi con gli abiti contadineschi? Don Clemente si applaudì in cuor suo di un pensiero concepito nella notte e già espresso all’Abate: dare a Benedetto un vecchio abito di converso. Prima di concedere o rifiutare il proprio consenso, l’Abate voleva vedere Benedetto, parlargli.
L’Abate aspettava Benedetto suonando un pezzo di sua composizione con le nocche delle dita, e accompagnando il suono con diabolici storcimenti delle labbra, delle narici, delle sopracciglia. Udito bussar discretamente all’uscio, non rispose nè tralasciò di suonare. Terminato il pezzo, lo ricominciò, lo suonò una seconda volta da capo a fondo. Poi stette in ascolto. Fu bussato ancora, più lievemente di prima. L’Abate esclamò:
«Seccatore!»
E, strappati alcuni accordi, si pose a fare delle scale cromatiche. Dalle scale cromatiche passò agli arpeggi. Poi stette ancora in ascolto, per tre o quattro minuti. Non udendo più nulla, andò ad aprire, vide Benedetto che s’inginocchiò.
«Chi è costui?» diss’egli, ruvido.
«Il mio nome è Piero Maironi» rispose Benedetto «ma qui al monastero mi chiamano Benedetto.»
E fece l’atto di prender la mano dell’Abate per baciarla.
«Un momento!» disse l’Abate, accigliato, ritraendo e alzando la mano. «Cosa fate qui?»
«Lavoro nell’orto del monastero» rispose Benedetto.
«Sciocco!» esclamò l’Abate. «Domando cosa state facendo qui davanti alla mia porta!»
«Ero per venire da Vostra Paternità.»
«Chi vi ha detto di venire da me?»
«Don Clemente.»
L’Abate tacque, considerò lungamente l’uomo inginocchiato, poi brontolò qualche cosa d’incomprensibile e finalmente gli porse la mano a baciare.
«Alzatevi!» diss’egli ancora brusco. «Entrate! Chiudete l’uscio!»
L’Abate, entrato che fu Benedetto, parve dimenticarlo. Inforcò gli occhiali, si pose a sfogliare libri e a leggere carte, voltandogli le spalle. Benedetto aspettava diritto in piedi, con ossequio militare, ch’egli parlasse.
«Maironi di Brescia?» disse l’Abate, con la voce ostile di prima e senza voltarsi.
Avuta la risposta, continuò a sfogliare e a leggere. Finalmente si levò gli occhiali e si voltò.
«Cosa siete venuto a fare» diss’egli «qui a Santa Scolastica?»
«Sono stato un gran peccatore» rispose Benedetto. «Iddio mi ha chiamato fuori del mondo e fuori ne son venuto.»
L’Abate tacque un momento, guardò fisso il giovine, disse con dolcezza ironica:
«No, caro.»
Trasse la tabacchiera, la scosse ripetendo dei piccoli «no – no – no» quasi sotto voce, guardò nel tabacco, vi piantò le dita e levati gli occhi da capo su Benedetto, gli disse articolando lentamente le parole:
«Questo non è vero.»
Ghermita la presa con il pollice, l’indice e il medio, alzò la mano rapidamente come per gettar il tabacco in aria e proseguì con il braccio alzato:
«Sarà vero che siete stato un gran peccatore, ma non è vero che siate venuto fuori del mondo. Non siete nè fuori nè dentro.»
Fiutò rumorosamente la sua presa e ripetè:
«Nè fuori nè dentro.»
Benedetto lo guardava senza rispondere. Vi era in quegli occhi qualchecosa di tanto grave e di tanto dolce che l’Abate riabbassò i suoi alla tabacchiera aperta, tornò a frugarvi, a giocherellare col tabacco.
«Non vi capisco» diss’egli. «Siete nel mondo e non siete nel mondo. Siete nel monastero e non siete nel monastero. Ho paura che la testa vi serva come a vostro bisnonno, a vostro nonno e a vostro padre. Belle teste!»
Il viso di avorio di Benedetto si colorò lievemente.
«Sono anime in Dio» diss’egli «superiori a noi; e le parole Sue vanno contro un comandamento di Dio.»
«Fate silenzio!» esclamò l’Abate. «Dite di avere lasciato il mondo e siete pieno del suo orgoglio. Se volevate lasciare il mondo sul serio, dovevate cercare di farvi novizio! Perchè non l’avete cercato? Avete voluto venir qua in villeggiatura, ecco la storia. O forse avevate degl’impegni a casa vostra, dei pasticci, mi capite! Nec nominentur in nobis. E avete voluto liberarvi per farne poi degli altri. E contate delle frottole a quel buon don Clemente, prendete il posto a un povero pellegrino, eh dite su, magari cercando di darla a intendere ai frati, che è facile, e a Domeneddio, che è difficile, con orazioni e sacramenti. Non dite di no!»
Il lieve rossore si era dileguato dal viso di avorio, le labbra apertesi un momento a parole pacatamente severe non si muovevano più, gli occhi penetranti fissavano l’Abate con la dolce gravità di prima. E l’Abate parve inasprito da quel silenzio tranquillo.
«Parlate, dunque!» diss’egli «Confessate! Non vi siete anche vantato di doni speciali, di visioni, che so io, di miracoli forse anche? Siete stato un gran peccatore? Mostrate che non lo siete ancora! Scolpatevi, se potete. Dite come avete vissuto, spiegate la vostra pretensione che Iddio vi abbia chiamato, giustificatevi di essere venuto a mangiare il pane dei frati a ufo, perchè frate non avete voluto essere e quanto a lavorare avete lavorato ben poco!»
«Padre» rispose Benedetto e il tôno severo della voce, la severa dignità del volto mal si accordavano con la mansuetudine umile delle parole, «questo è buono per me peccatore che da tre anni vivo, per lo spirito, nella mollezza e nelle delizie, vivo nella pace, vivo nell’affetto di persone sante, vivo in un’aria piena di Dio. Le Sue parole sono buone e dolcissime all’anima mia, sono una grazia del Signore, mi hanno fatto sentire con le loro punte quanto orgoglio vi è ancora in me che non lo sapevo, perchè nel disprezzarmi da me sentivo piacere. Come servo, poi, della santa Verità, le dico che la durezza non è buona neppure con uno che inganna, perchè forse la soavità lo farebbe pentire del suo inganno; e che nelle parole della Paternità Vostra non è lo spirito del nostro Padre solo e vero, al quale sia gloria.»
Nel dire «al quale sia gloria» Benedetto cadde ginocchioni, acceso in viso da un fervore augusto.
«Sei tu, peccatore tristo, che vuoi fare il maestro?» esclamò l’Abate.
«Ha ragione, ha ragione» rispose Benedetto di slancio, affannosamente e giungendo le mani. «Ora Le dico il mio peccato. Desiderai l’amore illecito, mi compiacqui della passione di una donna ch’era d’altri come d’altri ero io e l’accettai. Lasciai ogni pratica di religione, non curai di dare scandalo. Questa donna non credeva in Dio e io disonorai Dio presso di lei colla mia fede morta, mostrandomi sensuale, egoista, debole, falso. Iddio mi richiamò colla voce dei miei morti, di mio padre e di mia madre. Mi allontanai allora dalla donna che mi amava, ma senza vigore di volontà, ondeggiando nel mio cuore fra il bene e il male. In breve ritornai a lei, tutto ardente di peccato, conoscendo di perdermi e risoluto a perdermi. Non vi era più un atomo di volontà buona nell’anima mia quando una mano morente, cara, santa, mi afferrò e mi salvò.»
«Guardatemi bene» disse allora l’Abate senza farlo alzare. «Avete mai fatto sapere a nessuno ch’eravate qui?»
«A nessuno. Mai.»
L’Abate rispose secco:
«Non vi credo.»
Benedetto non battè ciglio.
«Voi sapete» ripigliò l’Abate «perchè non vi credo.»
«Lo suppongo» rispose Benedetto piegando il viso. «Peccatum meum contra me est semper.»
«Alzatevi!» comandò l’inflessibile Abate. «Io vi caccio dal monastero. Ora vi recherete a salutare don Clemente nella sua cella e poi partirete per non ritornare mai più. Avete inteso?»
Benedetto assentì del capo, ed era per piegare il ginocchio all’omaggio di rito quando l’Abate lo trattenne con un gesto.
«Aspettate» diss’egli.
Rinforcò gli occhiali, prese un foglio di carta e vi scrisse, stando in piedi, alcune parole.
«Cosa farete» disse scrivendo «quando sarete fuori?»
Benedetto rispose piano:
«Il bambino preso in braccia dal padre mentre dormiva, sa egli cosa il padre farà di lui?»
L’Abate non replicò niente, finì di scrivere, pose il foglio in una busta, la chiuse, la tese, senza voltare il capo, a Benedetto che gli stava dietro le spalle.
«Prendete» disse «portate a don Clemente.»
Benedetto gli chiese il permesso di baciargli la mano.
«No, no, andate via, andate via!»
La voce dell’Abate tremava di collera. Benedetto ubbidì. Appena fu nel corridoio udì l’uomo incollerito strepitare sul piano.
Prima di entrare nella celletta di don Clemente, Benedetto si fermò davanti alla grande finestra che termina il corridoio. Ivi si era trattenuto, poche ore prima, il Maestro a contemplare i lumi di Subiaco pensando la nemica, la creatura di bellezza, d’ingegno, di naturale bontà, venuta forse a contendergli il suo figliuolo spirituale, a contenderlo a Dio. Ora il figliuolo spirituale era misteriosamente certo che la donna male amata da lui nel tempo del suo gravitare cieco e ardente sulle cose inferiori, aveva scoperto la sua presenza nel monastero e sarebbe venuta a cercarlo. Disceso dentro lo Spirito interno al proprio cuore, egli vi attingeva un pio sentimento del Divino ch’era pure in lei, ascoso a lei stessa, una mistica speranza che per qualche oscura via ella pure arriverebbe un giorno al mare di verità eterna e di amore, che attende tante povere anime erranti.
Don Clemente lo aveva udito venire e aperse a mezzo l’uscio della cella. Benedetto entrò, gli porse la lettera dell’Abate.
«Debbo lasciare il monastero» diss’egli, sereno. «Subito e per sempre.»
Don Clemente non rispose, aperse la lettera. Letta che l’ebbe, osservò a Benedetto, sorridendo, che la sua partenza per Jenne era stata decisa fin dalla sera precedente. Vero, ma l’Abate aveva detto: per non ritornare mai più. Don Clemente aveva le lagrime agli occhi e sorrideva ancora.
«Lei è contento?» disse Benedetto, quasi dolente.
Oh, contento! Come avrebbe potuto dire il suo Maestro, quel che sentiva? Partiva il discepolo diletto, partiva per sempre, dopo tre anni di dolce unione spirituale; ma ecco, l’ascosa Volontà si era manifestata, Iddio lo toglieva dal monastero, lo chiamava per altre vie. Contento! Sì, afflitto e contento, ma della sua contentezza non poteva dire il perchè a Benedetto. La parola divina non avrebbe avuto valore per Benedetto s’egli non la intendeva da sè.
«Contento, no» diss’egli. «In pace, sì. Noi c’intendiamo, vero? E adesso raccogliti per le mie parole ultime, che spero ti saranno care.»
Don Clemente, nel dir così a voce bassa, si colorò tutto di rossore.
Benedetto piegò il capo a lui che gl’impose ambo le mani con dignità soave.
«Desideri» disse la virile voce piana «dare tutto te stesso alla Verità Suprema, alla sua Chiesa visibile e invisibile?»
Come se si fosse atteso a quell’atto e a quella domanda, Benedetto rispose pronto con voce ferma:
«Sì.»
La voce piana:
«Prometti tu, da uomo a uomo, vivere senza nozze e povero fino a che io ti sciolga della tua promessa?»
La voce ferma:
«Sì.»
La voce piana:
«Prometti tu essere sempre obbediente all’autorità della Santa Chiesa esercitata secondo le sue leggi?»
La voce ferma:
«Sì.»
Don Clemente attirò a sè il capo del discepolo e gli parlò sulla fronte:
«Ho chiesto all’Abate di poterti dare un abito di converso, perchè uscendo di qua tu porti sopra di te almeno il segno di un umile ministero religioso. L’Abate, prima di decidere, ha voluto parlarti.»
Qui don Clemente baciò il discepolo in fronte, significando così il giudizio dell’Abate dopo il colloquio, chiudendo in quel bacio silenzioso parole di lode, non credute convenienti al suo carattere paterno nè alla umiltà del discepolo. E non si avvide che il discepolo tremava da capo a piedi.
«Ecco» diss’egli «quel che l’Abate scrive dopo averti parlato.»
Mostrò a Benedetto il foglio dove l’Abate aveva scritto:
«Concedo. Fatelo partire subito perchè io non sia tentato di trattenerlo.»
Benedetto abbracciò di slancio il suo Maestro e gli appoggiò la fronte a una spalla, senza parlare. Don Clemente mormorò:
«Sei contento? Adesso te lo domando io.»
Ripetè due volte la domanda senza ottenere risposta. Venne finalmente un sussurro:
«Posso non rispondere? Posso pregare un momento?»
«Sì, caro, sì.»
Accanto al lettuccio del monaco, alta sopra l’inginocchiatoio, una grande croce nuda diceva: Cristo è risorto, configgi ora tu a me l’anima tua. Infatti qualcuno, forse don Clemente, forse un suo predecessore, vi aveva scritto sotto: «omnes superbiae motus ligno crucis affigat.» Benedetto si stese bocconi a terra, posò la fronte ov’eran da posare le ginocchia. Per la finestra aperta della cella uno scialbo lume del cielo piovoso batteva, di sghembo, sul dorso dell’uomo prosteso e dell’uomo ritto in piedi con la faccia levata verso la croce grande. Il mormorio della pioggia, il rombo dell’Aniene profondo avrebbero detto a Jeanne uno sconsolato compianto di tutto che vive sulla terra e ama. A don Clemente dicevano un consenso pio della creatura inferiore con la creatura supplice al Padre comune. Benedetto non li udiva.
Egli si alzò, pacato in viso, vestì, a un cenno del Maestro, la tonaca di converso stesa sul letto, cinse la cintura di cuoio. Vestito che fu, si mostrò, aprendo le braccia e sorridendo, al Maestro, che si compiacque di vederlo così dignitoso, così spiritualmente bello in quell’abito.
«Lei non ha inteso?» disse Benedetto. «Non ha pensato una cosa?»
No, don Clemente aveva pensato che quella gran commozione di Benedetto fosse stata effetto di umiltà. Adesso capiva che altro gli sarebbe dovuto venire in mente; ma cosa?
«Ah!» esclamò a un tratto. «Forse la tua Visione?»
Certo. Benedetto si era visto morire sulla nuda terra, all’ombra di un grande albero, nell’abito benedettino; e argomento di non credere nella Visione giusta i consigli di don Giuseppe Flores e di don Clemente gli era stata la contraddizione di ciò con la sua ripugnanza strana per i voti monastici, venutagli sempre crescendo da quando aveva lasciato il mondo. Ora questa contraddizione pareva dileguarsi; pareva quindi risorgere la credibilità di un carattere profetico della Visione. Don Clemente ne conosceva questa parte e avrebbe potuto leggere nel cuore di Benedetto il suo sbigottimento al riaffacciarsi di un misterioso disegno Divino sopra di lui, il suo terrore di cadere in peccato di superbia. Non ci aveva pensato.
«Non pensarci neppure tu» diss’egli. E si affrettò a mutar discorso. Gli diede una lettera e dei libri per l’arciprete di Jenne. Intanto l’arciprete lo avrebbe ospitato. Se dovesse restare a Jenne o no, ritornare, in questo caso, a Subiaco o recarsi altrove, glielo farebbe sapere la Divina Provvidenza.
«Padre mio» disse Benedetto «proprio non penso cosa sarà di me domani. Penso unicamente questo: «magister adest et vocat me» ma non come una voce sovrannaturale. Ho avuto torto di non capire che il Maestro è presente sempre e chiama sempre: me, Lei, tutti. Basta farsi un po’ di silenzio nell’anima, la sua voce si sente.»
Un raggio fioco di sole entrò nella cella. Don Clemente pensò subito che, se cessasse di piovere, la signora Dessalle verrebbe probabilmente a visitare il monastero. Non disse niente ma la sua inquietudine interna si tradì con un trasalire della persona, con un’occhiata al cielo, che significarono a Benedetto come fosse tempo di partire. Egli domandò in grazia di poter pregare, prima nella chiesa di Santa Scolastica e poi al Sacro Speco. Il sole si nascose, ricominciò a piovere, Maestro e discepolo scesero insieme nella chiesa, vi si trattennero in preghiera l’uno accanto all’altro e fu quello il loro solo addio. Benedetto prese la via del Sacro Speco alle nove. Uscì di Santa Scolastica inosservato, mentre fra Antonio stava confabulando col messo di Giovanni Selva. In quel momento, il lume del sole redivivo riaccese rapidamente i vecchi muri, la via, il monte; acuto gioire, ali veloci di uccelletti ruppero in ogni parte il verde, e alle sue labbra salì spontanea la parola:
«Vengo.»
III.
Jeanne e Noemi arrivarono al monastero alle dieci. A pochi passi dal cancello Jeanne fu presa da una palpitazione violenta. Avrebbe desiderato visitare l’orto prima del Convento, poichè il monello di Subiaco le aveva detto che i frati di Santa Scolastica ci avevano un bell’orto e gente loro che vi lavorava: un vecchio di Subiaco e un giovine forestiere. Non era più da parlarne. Pallida, sfinita, si trascinò male, al braccio di Noemi, fino alla porta dove un accattone aspettava la minestra. Per fortuna fra Antonio aperse prima ancora che Noemi suonasse e Noemi lo pregò di una sedia, di un bicchier d’acqua per la signora che si sentiva male. Sgomentato alla vista di Jeanne, smorta smorta, cadente sul fianco della sua compagna, il vecchio umile fraticello pose in mano a Noemi la scodella di zuppa che aveva portata per l’accattone, corse per la sedia e per l’acqua. Un po’ la comicità di quella scodella fra le mani di Noemi sbalordita, un po’ il riposo, un po’ l’acqua, un po’ la visione del chiostro antico dormiente in pace, un po’ il reagire della volontà ristorarono sufficientemente Jeanne in pochi minuti. Fra Antonio andò in cerca del Padre foresterario che guidasse le visitatrici.
«Gli dica le due signore di casa Selva» fece Noemi.
Don Clemente si presentò arrossendo, nel suo verginale candore d’animo, di conoscere i casi di Jeanne all’insaputa di lei, come avrebbe arrossito di un inganno. Scambiò Noemi, che prima gli si fece incontro, per la Dessalle. Alta, snella, elegante, Noemi rappresentava bene una seduttrice; però non mostrava più di venticinque anni, non poteva essere, per questo verso, la donna di cui Benedetto gli aveva raccontate le vicende. Ma il benedettino non seppe fare di questi calcoli. A Noemi premeva di assicurarsi che fra Antonio avesse adempiuto bene il suo incarico.
«Buon giorno, padre» diss’ella con la sua bella voce cui l’accento straniero aggiungeva grazia. «Ci siamo visti iersera. Lei usciva di casa Selva.»
Don Clemente fece un lievissimo cenno del capo. Veramente Noemi lo aveva appena intravvisto. Era però rimasta colpita dalla sua bellezza e aveva pensato che se quello era il signor Maironi si capiva la passione di Jeanne. Nella coscienza della propria fresca gioventù non le passò per la mente che i suoi venticinque anni fossero stati scambiati per i trentadue di Jeanne. Jeanne, intanto, meditava di trar partito dal suo malessere.
«Non erano aspettate, iersera» disse don Clemente a Noemi. «Lei viene dal Veneto?»
Dal Veneto? Noemi parve sorpresa.
«I signori Selva mi hanno detto» soggiunse il padre «che Lei abita nel Veneto.»
Allora Noemi capì, sorrise, rispose con un monosillabo che non era nè un sì nè un no, e pensò ella pure di trar partito dal caso, di prepararsi, grazie a questo equivoco, un colloquio particolare con don Clemente, per istruirlo se fosse necessario. Le parve anche divertente di conversare con quel bel frate essendo creduta Jeanne. Avvertì con un’occhiata quest’ultima che guardava ora lei, ora il frate, imbarazzata, avendo capito l’errore di lui, non sapendo se tacere o parlare.
«La mia amica» diss’ella «conosce già Santa Scolastica, naturalmente. Io invece non ci sono stata mai.»
Si volse a Jeanne:
«Se il padre» disse «ha la bontà di accompagnarmi, mi pare che tu, poichè non ti senti bene, potresti restare.»
Jeanne acconsentì tanto prontamente che Noemi dubitò di qualche suo segreto disegno, si domandò se non commettesse un errore. A ogni modo adesso era troppo tardi. Don Clemente, poco soddisfatto di aver ad accompagnare una signora sola, propose di attendere. Forse l’altra signora, fra poco, si sentirebbe meglio. Jeanne protestò. No, non dovevano attendere, ella era contentissima di rimaner lì.
Nel passare dal primo al secondo chiostro Noemi ricordò nuovamente al padre l’incontro della sera precedente.
«Lei aveva un compagno?» diss’ella e subito vergognò del suo simulare, di non aver tratto il monaco dall’inganno in cui era caduto. Don Clemente rispose quasi sotto voce;
«Sì signora, un ortolano del monastero.»
Erano rossi in viso tutt’e due ma non si guardarono, ciascuno sentì solo il rossore proprio.
«Lei sa chi siamo?» riprese Noemi.
Don Clemente rispose che supponeva di saperlo. Dovevano essere le due signore aspettate dalla signora Selva. Gli pareva che la signora Selva gli avesse nominata sua sorella e la signora Dessalle.
«Ah Lei lo ha saputo da mia sorella?»
A queste parole di Noemi don Clemente non potè trattenersi dall’esclamare:
«Dunque la signora Dessalle non è Lei?»
Noemi comprese che l’uomo sapeva. Quindi aveva provveduto, certo; un improvviso incontro non era possibile. Respirò, e il suo cuore femminile, vôto d’inquietudine, si riempì di curiosità.
Don Clemente le parlava della torre, delle arcate antiche, degli affreschi presso la porta della chiesa ed ella pensava: come farlo parlare di Maironi? Lo interruppe spensieratamente mentre le mostrava la processione dei fraticelli di sasso, per domandargli se capitassero spesso al monastero anime stanche del mondo, disilluse, avide di darsi a Dio.
«Sono protestante» diss’ella. «Questo mi interessa molto.»
Don Clemente pensò in cuor suo che questo le interessasse molto non per il suo protestantesimo ma per la sua amicizia colla signora Dessalle.
«Spesso no» rispose «Qualche volta. Di solito quelle anime preferiscono altri Ordini. Ah, Lei è protestante? Non Le rincrescerà, però, di entrare nella nostra chiesa? Non dico nella Chiesa cattolica» soggiunse sorridendo e arrossendo «dico nella chiesa del nostro monastero.»
E raccontò di un inglese, protestante, innamorato di San Benedetto, che faceva lunghi soggiorni a Subiaco, frequentava Santa Scolastica e il Sacro Speco.
«È un’anima bellissima» diss’egli.
Ma Noemi voleva ritornare al primo soggetto, sapere se qualcuno venisse mai dal mondo a servire il monastero per spirito di penitenza, senza vestire l’abito. Non ebbe risposta perchè don Clemente, veduto un colossale monaco entrare nel chiostro, le si scusò, andò a parlargli e ritornato a lei con il maestoso compagno, Le presentò in don Leone una guida superiore a lui di gran lunga per copia e profondità di dottrina; e, con molto dispetto di lei, si allontanò.
Rimasta sola, Jeanne fu ripresa dalla palpitazione violenta. Dio, come riviveva il passato, come riviveva Praglia! Pensare ch’egli andava e veniva per quell’ingresso, per quei chiostri, chi sa quante volte al giorno, che aveva tanto dovuto ricordare Praglia, quell’ora disposta dal destino, quell’acqua versata, quell’ebbrezza, quelle mani strette, nel ritorno, sotto la coperta di pelliccia! Pensare ch’egli era libero e che anche lei lo era! Che febbre, che febbre!
Fra Antonio, sgomentato sulle prime di trovarsi lì questa signora che pareva senza fiato, rimase poi sbalordito della rapida loquela con la quale, a un tratto, ella lo assalì di domande. Il monastero, non aveva un orto vicino? — Sì, vicinissimo, a tramontana. Di mezzo non c’era che una stradicciuola. — E chi lo coltivava? — Un ortolano. — Giovane? Vecchio? Di Subiaco? Forestiere? — Vecchio. Di Subiaco. — E nessun altro? — Sì, Benedetto. — Benedetto? Chi era Benedetto? — Un giovane, del paese del Padre foresterario. — Di dov’era il Padre foresterario? — Di Brescia. — E questo giovine si chiamava Benedetto? — Tutti lo chiamavano Benedetto; se fosse proprio il suo vero nome fra Antonio non lo poteva dire. — Ma che uomo era? — Oh, questo sì, fra Antonio lo poteva dire. Era quasi più santo dei frati. Si capiva dalla faccia che doveva essere di buona famiglia e alloggiava come un cane, non mangiava che pane, frutta ed erba, qualche notte la passava in preghiere, magari sulla montagna. Lavorava la terra e anche studiava in biblioteca col Padre foresterario. E un cuore, un cuore grande! Tante volte aveva dato ai poveri anche quel magro vitto del convento. — E dove lo si potrebbe vedere adesso? — Eh, nell’orto certamente. Fra Antonio supponeva che stesse amministrando il solfato di rame alle viti.
A Jeanne batte il cuore tanto forte che la vista le si oscura. Ella tace e non si move. Fra Antonio crede che non pensi più a Benedetto. «Ah signora» dice «Santa Scolastica è un bel monastero, ma bisogna vedere Praglia!» Perchè fra Antonio nella sua giovinezza, prima della soppressione dell’Abbazia di Praglia, vi ha passato alcuni anni, e ne parla come di una madre venerata. — Ah, la chiesa di Praglia! I chiostri! Il chiostro pensile, il refettorio! — Alle inattese parole Jeanne si esalta. Esse le dicono: va, va, va subito! Ella scatta dalla seggiola.
«Quest’orto? Per qual parte ci si va?»
Fra Antonio, un po’ sorpreso, le risponde che può recarvisi attraversando il monastero oppure girandolo di fuori. Jeanne esce, chiusa nel suo pensiero ardente, passa il cancello, gira a destra, entra nella galleria sotto la biblioteca, vi si ferma un momento stringendosi le mani sul cuore e procede.
Il vaccaro del convento, fermo sull’entrata del cortile dov’è l’Ospizio dei pellegrini, le mostra sull’opposto fianco della viuzza chiusa fra due muri, l’uscio dell’orto. Ella gli domanda se avrebbe trovato nell’orto un tale Benedetto. Malgrado lo sforzo di dominarsi, le trema la voce nell’attesa di un sì. Il vaccaro risponde che non sa, si offre di andar a vedere, bussa più volte, chiama: «Benedè! Benedè!»
Un passo, finalmente. Jeanne si appoggia allo stipite, per non cadere. Dio, se è Piero, cosa gli dirà? L’uscio si apre, non è Piero, è un vecchio. Jeanne respira, contenta, per un momento. Il vecchio la guarda, meravigliato, dice al vaccaro:
«Benedetto non c’è.»
La contentezza di lei è già svanita, ella si sente gelare; quei due la guardano curiosi, in silenzio.
«È questa signora» disse il vecchio «che cerca di Benedetto?»
Jeanne non rispose. Rispose per lei il vaccaro; e poi raccontò che Benedetto aveva passato la notte fuori, ch’egli lo aveva trovato all’alba, tutto molle di pioggia, nel bosco del Sacro Speco, che gli aveva offerto del latte e che Benedetto aveva bevuto come un moribondo in cui rifluisca la vita.
«Udite, Giovacchino» soggiunse il vaccaro, fattosi a un tratto solenne. «Quell’omo bevuto ch’ebbe, mi abbracciò così. Io stavo male, non avevo dormito, mi doleva il capo, mi dolevano tutte l’ossa. Ebbene, dalle sue braccia mi vennero come tanti piccoli brividi e poi come un calore buono, un piacere, un sentirmi così bene che mi pareva avere nello stomaco due sorsi di acquavite, la più fina. Via il mal di capo, via il male d’ossa, via tutto. E mi sono detto: per Caterina, quest’omo è un Santo. E un Santo è.»
Passò, mentr’egli parlava, un povero sciancato, un accattone di Subiaco. Vista la signora, si fermò, le tese il cappello. Jeanne, tutta in quel che il vaccaro diceva, non si avvide di lui nè lo udì quando, avendo il vaccaro finito di parlare, le chiese l’elemosina per l’amore di Dio. Ella domandò all’ortolano dove questo Benedetto si potesse trovare. L’ortolano si cercò una risposta nella nuca. Allora la voce flebile dell’accattone gemette:
«Cercate Benedetto? Sta al Sacro Speco, sta al Sacro Speco.»
Jeanne gli si voltò avida.
«Al Sacro Speco?» diss’ella. E l’ortolano domandò all’accattone se ce l’avesse veduto lui.
L’accattone raccontò, lagrimoso più che mai, come si fosse trovato più di un’ora prima sulla strada del Sacro Speco, oltre il bosco dei lecci, proprio a due passi dal Convento con un fastello di legna; come fosse caduto malamente e rimasto a giacere sotto il fastello.
«Iddio e san Benedetto» diss’egli «fecero che passasse un monaco. Questo monaco mi rialzò, mi confortò, mi prese a braccio, mi accompagnò al Convento dove gli altri monaci mi ristorarono. Io me ne venni via e il monaco rimase al Sacro Speco.»
«E che c’entra?» fece l’ortolano.
«C’entra che prima, vestito com’era, non lo riconobbi, ma poi lo riconobbi. Era lui.»
«Chi, lui?»
«Benedetto.»
«Ma chi era Benedetto?»
«Il monaco.»
«Ma che sei pazzo! – Scemo che sei!» fecero l’ortolano e il vaccaro.
Jeanne diede allo sciancato una moneta d’argento.
«Pensate bene» diss’ella. «Dite la verità.»
Lo sciancato si sdilinquì in benedizioni, intercalandovi degli umili «quello che volete, quello che volete, — mi sarò sbagliato, mi sarò sbagliato,» e se ne andò con la sequela di pii borbottamenti. Jeanne interrogò ancora il vaccaro e l’ortolano. Possibile che Benedetto avesse vestito l’abito? Ma che! L’accattone era un povero scemo.
Se n’andò anche il vaccaro e Jeanne entrò nell’orto, sedette sotto un ulivo, pensando che Noemi avrebbe facilmente saputo del portinaio dove trovarla. Il vecchio ortolano, curioso la sua parte, le domandò con molte scuse se fosse parente di Benedetto.
«Perchè si sa ch’è un signore» diss’egli. «Un signore grande.»
Jeanne non rispose alla domanda. Volle invece sapere perchè si avesse quell’opinione della ricchezza di Piero. Ecco, si capiva dai modi, e anche dalla faccia; una faccia da signore, proprio. E non s’era fatto monaco? Eh, no. E perchè non s’era fatto monaco? Non si sapeva, di certo. Se ne dicevano tante. Si diceva persino che avesse moglie e che la moglie gli avesse fatto ciò che l’ortolano chiamava un brutto gioco. Jeanne tacque e all’ortolano balenò che quella lì fosse la moglie appunto, la donna del brutto gioco, che venisse, pentita, a implorar perdono.
«Se questo fatto della moglie è vero» diss’egli allora «la ci avrà avuto le sue ragioni, non dico, ma però come bontà d’uomo, la non ne avrà trovato di certo uno migliore. Guardi, signora, questi padri sono persone sante, non c’è che dire, ma uno buono come lui, nè a Santa Scolastica nè al Sacro Speco, glielo giuro io, non ci sta, benchè c’è don Clemente ch’è santissimo! Però come questo Benedetto, no.»
A Jeanne tornarono subitamente in cuore le parole dell’accattone: Benedetto, fatto monaco. Perchè mai? Si sgomentò che le tornassero in cuore senza una ragione. Non avevan detto quei due ch’era una stoltezza e che l’accattone era uno scimunito? Sì, una stoltezza, lo capiva anche lei; sì, uno scimunito, era parso tale anche a lei; ma le parole stolte battevano e ribattevano al suo cuore, sinistre come maschere dalle facce assurde che battessero al vostro uscio in altro tempo che di carnevale.
«Se si trattiene, signora» disse l’ortolano «non passa una mezz’ora che capita. Che! Un quarto d’ora! Sta forse in biblioteca con don Clemente a studiare, o forse in chiesa.»
Dalla biblioteca che cavalca la stradicciuola si esce direttamente nell’orto.
«Eccolo!» esclamò il vecchio.
Jeanne balzò in piedi. L’uscio che mette dalla biblioteca nell’orto si aperse lentamente. Invece di Piero comparve Noemi seguita da un gran frate. Noemi vide l’amica fra gli ulivi e si arrestò di botto, sorpresa. Jeanne nell’orto? Possibile che...? No, il vecchio che le stava accanto non poteva essere Maironi e nessun altro era con lei. Sorrise, la minacciò col dito. Don Leone, inteso da Noemi che quella era la signora della quale gli aveva detto durante la visita del monastero ch’era rimasta in portineria, prese congedo. Naturalmente le signore salirebbero al Sacro Speco e la passeggiata del Sacro Speco non conveniva più alla sua mole.
Erano quasi le undici, la carrozza doveva trovarsi alle dodici e mezzo dove l’avevano lasciata, perchè a casa Selva si pranzava al tocco; se Jeanne voleva vedere il Sacro Speco non c’era tempo da perdere, posto che il suo malessere si fosse dileguato, come pareva. Noemi consigliava così e non s’indugiò a chiedere spiegazioni, in presenza dell’ortolano, dell’aver piantato fra Antonio per correre a esplorare l’orto. Si accontentò di sussurrare: «fingevi, eh?» Jeanne rispose che al Sacro Speco ci doveva andar lei, Noemi, e subito, appunto. Ella intendeva di stare ad aspettarla nell’orto. Noemi indovinò un’altra commedia.
«Oh no!» diss’ella. «O vieni al Sacro Speco o, se non stai bene, scendiamo subito a Subiaco!»
Jeanne obbiettò che scendere subito era inutile perchè non si sarebbe trovata la carrozza; ma Noemi non si arrese. Avrebbero fatto la discesa a grande agio, sarebbero state pronte a salire in carrozza appena venisse. Jeanne rifiutò ancora, più vivacemente, non avendo altre ragioni a opporre. Allora Noemi la guardò in silenzio, cercando leggerle negli occhi un disegno nascosto. In quell’attimo di silenzio Jeanne fu rimorsa nel cuore dalle parole dell’accattone. Prese impetuosamente il braccio dell’amica.
«Vuoi che venga al Sacro Speco?» diss’ella. «Bene, andiamo. Tu credi una cosa e non sai. Faccia il destino!»
Ma prima ancora di muovere un passo si sciolse da Noemi, che la guardava trasognata, scrisse a matita nel suo portafogli: «Sono al Sacro Speco. In nome di don Giuseppe Flores, mi aspetti.» Non firmò, stracciò la paginetta, la diede all’ortolano «per quell’uomo, se ritornava» riprese il braccio dell’amica, dicendo:
«Andiamo!»
Il sole ardeva sulla petraia fumante umidi odori di erbe e di sasso, inargentava i cirri di nebbione erranti lungo i fianchi della stretta valle selvaggia fino al cumulo enorme assiso là sul fondo, a cappello delle cime di Jenne; la voce grande dell’Aniene empiendo le solitudini. Jeanne saliva senza dir parola, senza rispondere alle domande di Noemi più e più sgomentata del suo silenzio, del suo pallore, del vederle le labbra strette a comprimere il pianto, del sentir sussultare il suo braccio. Perchè? Nella notte e fino all’entrata di Santa Scolastica la povera creatura aveva ondeggiato fra il timore e la speranza, in una febbre di aspettazione. Adesso era un’altra febbre. Almeno pareva. Pareva che avesse saputo, là nell’orto, qualche cosa di cui non volesse parlare, qualche cosa di penoso, di pauroso. Cosa poteva essere? Il tragico pianto delle acque invisibili, il tremare silenzioso dei fili d’erba per la petraia, lo stesso calore ardente stringevano il cuore. Pochi passi prima dell’Arco ritto a contenere la folla nereggiante dei lecci, Noemi ebbe il conforto di udire voci umane. Erano Dane, a cavallo, Marinier e l’Abate a piedi, che scendevano insieme dal Sacro Speco.
Dane mostrò molto piacere dell’incontro, trattenne la sua cavalcatura, presentò le signore all’Abate, parlò con entusiasmo del Sacro Speco. Jeanne, scambiata qualche parola coll’Abate, gli domandò se qualcuno avesse pronunciato i voti solenni, o almeno vestito l’abito, di recente. L’Abate rispose ch’era venuto a Santa Scolastica da pochi giorni e non era in grado di risponderle lì per lì; ma non credeva che da un anno, a dir poco, nessuno a Santa Scolastica avesse fatto la professione solenne nè vestito l’abito di novizio. Jeanne s’illuminò di gioia. Adesso lo capiva, era stata una stupida di dubitare possibile, anche per un solo momento, che Piero fosse diventato frate, da contadino, in dodici ore. Avrebbe voluto ritornare subito all’orto di Santa Scolastica; ma come fare? Quale pretesto prendere? Proseguì, ansiosa di sbrigarsi presto del Sacro Speco. Noemi propose di sostare un poco all’ombra dei lecci che là sulla via delle anime agitate dall’amor divino paiono torti anch’essi da un interno furore ascetico, da un frenetico sforzo di svellersi dalla terra per avventar le braccia nel cielo. Jeanne rifiutò, impaziente. Aveva ripreso colore nel volto e luce negli occhi. Si mise spedita per la scaletta che termina il breve cammino e malgrado le proteste di Noemi, che non capiva il perchè di tanto mutamento, non volle neppure riprender fiato in capo alla scala, ove improvvisamente si scopre la scena cupa, profonda della vallea, e alto, a sinistra, l’orrido sasso caro ai falchi e ai corvi, rigonfio sopra le murature squallide, bucate di fori disadorni, che vi s’incrostano per traverso sugli anfratti nudi e sono il monastero del Sacro Speco. Sotto il monastero, nel profondo, pende il roseto di san Benedetto e sotto il roseto pendono gli orti, pendono gli uliveti al ruggente Aniene scoperto. Il cumulo assiso sui monti di Jenne saliva invadendo il cielo. Una ondata d’ombra passò sul sasso enorme, sul monastero, sul parapetto cui Noemi aveva appoggiato i gomiti, contemplando.
«Questo è magnifico» diss’ella. «Lasciami fermare un po’ qui almeno, ora che c’è ombra!»
Ma in quel momento, a due passi da loro, si apriva la porticina del monastero e ne usciva una compagnia di stranieri, signori e signore. Il monaco che li aveva guidati, vedendo Jeanne e Noemi, tenne aperto l’uscio in atto di aspettazione. Jeanne si affrettò a entrare e Noemi, mal suo grado, la seguì.
«Affreschi del Trecento» disse il benedettino nell’oscuro corridoio di entrata, con voce indifferente e passando. Noemi si fermò, curiosa delle pitture antiche. Jeanne tenne dietro al benedettino, senza guardare nè a destra nè a sinistra, distratta, tentata da un dubbio. Se l’Abate non avesse detto il vero? Se lo avesse detto l’accattone? La fantasia le rappresentò l’incontro felice nel cortile di Praglia, il viso pallidissimo di lui, il «grazie» che l’aveva fatta tremar di gioia. Le correvano brividi nel sangue e, come per una strappata di redini all’immaginazione, si voltò a Noemi:
«Vieni» diss’ella.
Seguì il monaco nulla udendo di quello ch’egli diceva, nulla guardando di quello che indicava. Noemi dissimulava a fatica le proprie inquietudini. Presentiva un pericolo nel ritorno. Il punto pericoloso era l’orto di Santa Scolastica dove Jeanne intendeva rientrare, secondo aveva detto al vecchio ortolano. Adesso le era passato il desiderio di vedere questo famoso Maironi. Non desiderava che di ritornare con Jeanne a casa Selva senz’aver fatto incontri e avrebbe voluto indugiarsi al Sacro Speco il più possibile perchè poi mancasse loro il tempo di sostare a Santa Scolastica. Perciò fingeva prendere alle viscere preziose del monastero dalla squallida pelle un interesse continuo, mentre invece sentiva solamente desiderio di ritornarvi un’altra volta, con sua sorella o con suo cognato, in pace.
Nel discendere in quella miniera della santità, nè l’una nè l’altra sapevano qual via facessero per l’aria morta e fredda, per le ombre mistiche, per i chiarori giallognoli pioventi dall’alto, per gli odori di sasso umido, di lucignoli fumosi, di arredi vecchioni, per le visioni di cappelle, di grotte, di croci negli sfondi bui di scale perdentisi in fuga, a paro con le loro volte acute, giù verso caverne inferiori, di marmi color di sangue, color di notte, color di neve, di rigide folle pie dalle facce bizantine ingombranti le pareti, i timpani delle arcate, di monacelle e di fraticelli ritti nelle strombature delle finestre, nei pennacchi delle vôlte, lungo il giro degli archivolti, ciascuno con la sua venerabile aureola. Non sapevano quale cammino vi facessero e Jeanne appena ne sentiva la realtà.
Nello scendere la Scala Santa, precedendo il monaco seguito immediatamente da Jeanne e Noemi venendo ultima a cinque o sei gradini di distanza, Jeanne, improvvisamente, gittò le mani alle spalle della guida e subito, vergognando dell’atto involontario, le ritolse mentre il monaco, fermatosi, le volgeva il capo, attonito.
«Scusi» diss’ella. «Chi è quel padre?»
Fra due ripiani della Scala, dietro un risalto della parete di sinistra, una figura tutta nera nella tonaca benedettina si teneva ritta nell’angolo oscuro, appoggiando la fronte al marmo. Jeanne l’aveva oltrepassata di quattro o cinque gradini senza vederla. S’era voltata a guardare per caso, l’aveva veduta, un istintivo sospetto le era lampeggiato nel cuor tremante.
Il monaco rispose:
«Non è un padre, signora.»
Si chinò ad aprire con la chiave la cancellata di una cappella.
«Cosa c’è?» chiese Noemi, sopraggiungendo.
«Non è un padre?» ripetè Jeanne.
Nell’udire la voce strana dell’amica, Noemi trasalì. Neppure lei aveva notato la figura ritta nell’ombra della parete.
«Chi?» diss’ella.
Il monaco, che intanto aveva aperto, intese «qui?» e riferì la parola a un discorso di prima.
«No» disse «il ritratto autentico di san Francesco non è qui. Più abbasso c’è un san Francesco dipinto dal cavalier Manente. Lo vedranno dopo. Se vogliono passare...»
Noemi disse piano a Jeanne «cos’hai?» e avendo l’altra risposto con voce più tranquilla «niente» le passò avanti, entrò nella cappella, ascoltando le spiegazioni del monaco. Allora la figura nera si staccò dalla parete. Jeanne la vide salire lenta nell’ombra sotto le arcate ogivali. Toccato il ripiano superiore, la figura sparve a destra e subito ricomparve in un braccio di scala attraversato dall’obliquo sfondo della scena, luminoso nel raggio di una finestra invisibile. La figura saliva lenta, quasi faticosamente. Prima di sparire dietro il fianco enorme di un’arcata, piegò il capo a guardare in basso. Jeanne la riconobbe.
Sull’attimo, quasi obbedendo a una fulminea volontà impostasi a lei, quasi portata dal turbine del suo destino, pallida, risoluta, senza sapere cos’avrebbe detto, cos’avrebbe fatto, ella prese l’ascesa. Attraversato il ripiano superiore, nel metter piede sulla scala chiara, traboccò a terra, vi giacque un momento; sì che Noemi, uscita della cappella, non la vide, la credette discesa in cerca del ritratto di san Francesco. Si rialzò, riprese la via, povera creatura di passione, richiamata invano dalle immagini di celeste pace, irrigidite sulle mura sacre. Tutto era davanti a lei silenzio e vuoto. Ell’andava per vie ignote a lei, veloce, sicura, come nella chiaroveggenza dell’ipnosi. Passava per buie stretture, per chiarori larghi, senza esitar mai, senza guardare nè a destra nè a sinistra, chiusi e acuiti tutti i sensi nell’udito, seguendo attimi di sussurri lontani, il dolersi lieve di un uscio, il vento di un altro, lo sfiorar di un abito a uno stipite. Così dai due spinti battenti dell’ultima porta ella emerse rapida in faccia a lui.
Anch’egli l’aveva riconosciuta sulla Scala Santa, all’ultimo momento. Si tenne quasi certo di non essere stato riconosciuto alla sua volta; cercò tuttavia di togliersi dal solito cammino dei visitatori. Quando udì giungere a quella recondita sala un fruscìo rapido di vesti femminili, comprese, aspettò, a fronte della porta.
Ella lo vide e impietrò sull’atto fra i battenti aperti, fissi gli occhi negli occhi di lui, che non avevano più lo sguardo di Piero Maironi.
Era trasfigurato. La persona, forse per le vesti nere, pareva più sottile. Il viso pallido, scarno, spirava dalla fronte, fatta più alta, una dignità, una gravità, una dolcezza triste, che Jeanne non gli aveva conosciute mai. E gli occhi erano del tutto altri occhi, avevano un inesprimibile divino, tanta umiltà e tanto impero, l’impero di un amore trascendente, originario non del suo cuore ma di una mistica fonte ad esso interna, di un amore oltrepassante il cuore di lei, ricercantele più addentro una recondita regione dell’anima, ignota a lei stessa. Ella giunse lenta lenta le mani e piegò i ginocchi a terra.
Benedetto si recò alle labbra l’indice della sinistra e tese l’altro alla parete fronteggiante il balcone aperto sui carpineti del Francolano e sul fragore del fiume profondo. Nel mezzo della parete nereggiava, grande, la parola
SILENTIUM.
Per secoli, da quando la parola era stata scritta, mai voce umana si era udita là dentro. Jeanne non guardò, non vide. A lei bastò quell’indice alle labbra di Piero per serrar le sue. Ma non bastò per costringerle il pianto in gola. Guardava guardava lui con le labbra strette e le sdrucciolavano grosse sul viso lagrime silenziose. Immobile, pendenti le braccia lungo la persona, Benedetto chinò un poco il capo e chiuse gli occhi, assorto nello spirito. La grande, nera parola imperatoria, grave di ombre e di morte, trionfava sulle due anime umane, ruggendo contro a lei dal balcone lucente le anime belluine dell’Aniene e del vento.
A un tratto, pochi secondi dopo che gli occhi di Benedetto si erano chiusi allo sguardo di lei, ella balenò e si spezzò, dalle spalle alle ginocchia, in un singhiozzo amaro di tutta l’amara sua sorte. Egli aperse allora gli occhi, la guardò dolcemente, ed ella ribevve avida il suo sguardo, ebbe ancora due singhiozzi, quasi di dolorosa gratitudine. E perchè l’amato si recò nuovamente l’indice alla bocca, gli accennò del capo di sì, di sì, che avrebbe taciuto, che si sarebbe chetata. Obbedendo sempre al suo gesto, al suo sguardo, si alzò in piedi, si fece da banda, lo lasciò passare per i battenti aperti, lo seguì umile, con la sua speranza morta nel petto, con tanti dolci fantasmi morti nella mente, con il suo amore fatto tremore e venerazione.
Lo seguì fino alla cappella che chiamano la chiesa superiore. Colà, di fronte alle tre piccole ogive che chiudono interne ombre dove si disegna un altare e una croce di argento brilla su parvenze fosche di pitture antiche, Jeanne s’inginocchiò, com’egli accennolle, sull’inginocchiatoio appoggiato al fianco destro della grande arcata che gira sulla volta acuta, mentr’egli s’inginocchiava su quello appoggiato al fianco sinistro. Sul timpano dell’arcata un pittore del secolo XIV ha dipinto il poema del massimo Dolore. Da un’alta finestra di sinistra scendeva la luce alla Dolorosa; Benedetto era nell’ombra.
La voce di lui mormorò appena udibilmente:
«Senza fede ancora?»
Sommesso come aveva parlato egli e senza volgere il capo, ella rispose:
«Sì.»
Egli tacque un momento e poi riprese con la stessa voce:
«La desidera? Potrebbe operare come se credesse in Dio?»
«Se non è necessario di mentire, sì.»
«Promette di vivere per i miseri e per gli afflitti, come se ciascuno di essi fosse una parte dell’anima da Lei amata?»
Jeanne non rispose. Era troppo veggente e troppo leale per affermare che lo poteva.
«Promette di farlo» riprese Benedetto «se io prometto di chiamarla presso di me in un’ora fissa dell’avvenire?»
Ella non sapeva quale ora solenne, non lontana, egli pensasse, parlando così. Rispose palpitante:
«Sì sì.»
«In quell’ora La chiamerò» disse la voce nell’ombra. «Però non cerchi mai rivedermi prima.»
Jeanne si strinse le mani sugli occhi, rispose un «no» soffocato. Le pareva di turbinare negli angosciosi sogni di una febbre mortale. Piero non parlava più. Passarono due, tre minuti. Ella si levò le mani dagli occhi lagrimosi, li fissò sulla croce che brillava là in faccia, oltre gli archetti ogivali, sulle fosche parvenze di pitture antiche. Mormorò:
«Sa che don Giuseppe Flores è morto?»
Silenzio.
Jeanne volse il capo. Nessuno era più nella chiesa.