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CAPITOLO QUINTO.
Il Santo.
I.
La luna era già tramontata e nel vento della tarda sera l’Aniene discorreva ora forte ora piano, come colui che parlando concitato ricorda di tratto in tratto al suo interlocutore cosa da non lasciar udire ad altri. Il solo forse che in tutta la bella conca di Subiaco stesse attento al suo discorso, era Giovanni Selva. Seduto presso il parapetto della terrazza, egli vi teneva appoggiati i gomiti e guardava silenzioso nell’ombra sonora. Maria e Noemi uscite anch’esse a goder la frescura e gli aromi selvaggi del vento notturno, si tenevano in disparte. Maria sussurrò una parola all’orecchio della sorella, che uscì. Rimasta sola, si accostò pian piano al marito, gli posò un bacio sui capelli:
«Giovanni» diss’ella. Quante volte, oppressa dalla violenza dell’amore, non gli aveva ella data l’anima sua, tutta sé stessa, in questa sola parola detta sotto voce, tutte l’altre essendo manchevoli, per lei, o sciupate da troppe labbra!
Giovanni rispose mestamente, come stanco:
«Maria.»
Non sentendosi più il viso di lei sui capelli, temette di esserle parso freddo.
«Cara» diss’egli.
Ella tacque un momento e posategli ambedue le mani sul capo, prese ad accarezzarglielo lentamente, dicendo:
«Beati coloro che soffrono per la Verità.»
Egli si voltò con un sorridente fremito di affetto, guardò se Noemi fosse ancora presente, si attirò con un braccio il caro viso sulla bocca.
«Ho tanto bisogno di te,» disse «della tua forza!»
«Sono tua per questo» rispose Maria «e sono forte solo perchè tu mi ami.»
Egli le prese una mano, la baciò, riverente.
«Vedi?» esclamò poi, alzando il viso. «Forse non sai proprio il più profondo del mio soffrire, perchè è una cosa oscura anche a me che sono vecchio e non mi conosco ancora. Ci pensavo adesso. Pensavo che quando si soffre di una ferita la causa del soffrire si vede, ma quando si soffre di una febbre la causa è oscura così e non si arriva mai a conoscerla bene.»
Un mese non era ancora trascorso dalla sera della riunione in cui si era parlato di una lega fra i cattolici progressisti. Nessuna lega n’era venuta fuori ma uno strano seguito di fatti spiacevoli non poteva ragionevolmente attribuirsi ad altra origine. Il professore Dane era stato richiamato in Irlanda dal suo arcivescovo. Egli si era subito recato da un cardinale di curia, inglese, per rappresentargli le sue cattive condizioni di salute e chiedergli di appoggiare presso l’Arcivescovo una domanda di dilazione. Sua Eminenza gli aveva aperto gli occhi. Il colpo era venuto da Roma dove si era malissimo disposti verso di lui. Soltanto per un riguardo al cardinale stesso, amico del Dane, e sopra tutto per riguardo al governo inglese, non si accontenterebbero coloro che avrebbero voluto far mettere all’Indice i suoi libri e costringer lui a lasciare la cattedra. Il cardinale gli aveva consigliato di partire da Roma, dove il caldo era già molesto, e di ammalarsi un po’ più sul serio a Montecatini o a Salsomaggiore, dove lo avrebbero lasciato tranquillo. Don Clemente non si era più visto. Giovanni era andato a trovarlo a Santa Scolastica, dove il monaco gli aveva significato con le lagrime agli occhi che la loro amicizia doveva seppellirsi come un tesoro in tempo di guerra. A don Paolo Farè, che teneva in Pavia un corso di religione per gli adulti, era stato imposto di tacere. Il giovane di Leynì era stato colpito per mezzo della sua famiglia. La sua pia, eccellente madre lo aveva supplicato piangendo, in nome del morto padre suo, di rompere con i pericolosi amici Selva; ed egli credeva che il passo le fosse stato suggerito dal confessore. Aveva resistito ma a prezzo della sua pace domestica. Finalmente, un periodico clericale aveva pubblicato tre articoli sull’opera intera di Giovanni, riassumendo parziali lodi temperate e parziali biasimi aspri in un giudizio severissimo sul carattere, secondo il censore, razionalistico dell’opera stessa e sulla temerità intollerabile dell’autore, che, unicamente armato di sapere laico, aveva osato pubblicare scritture dove il difetto di scienza teologica si rivelava miseramente. In sostanza quegli articoli erano una terribile condanna preventiva proprio del libro che Giovanni stava scrivendo sui fondamenti razionali della morale cristiana, e preannunciavano, a giudizio degli esperti, l’Indice per gli altri suoi lavori.
«Dubiti delle tue idee?» disse Maria.
La domanda non era sincera. Ell’aveva, malgrado il suo grande amore, una conoscenza profonda e chiara dell’animo di suo marito. Pensava che soffrisse nel suo interno per il presentimento di una condanna ecclesiastica. Giovanni poteva parlare con disistima di certe sentenze della Congregazione dell’Indice, ma la sua coscienza, riverente verso l’autorità più ch’egli stesso non pensasse, si turbava, secondo Maria, più ch’egli stesso non volesse, del minacciato colpo. E Maria, temendo di ferirlo se dicesse «hai paura?» aveva simulato un altro dubbio per aprirgli la via di confessare spontaneamente il vero. La risposta di Giovanni la sorprese.
«Sì» diss’egli. «Dubito di me. Non però nel modo che tu credi. Dubito di essere puramente un intellettuale e di esagerarmi l’importanza, davanti a Dio, delle mie idee. Dubito di non viverle, le mie idee. Dubito di sentire troppo sdegno contro coloro che non le dividono, contro dei persecutori che dobbiamo amare, contro quell’abate svizzero che venne qua con Dane e poi ha probabilmente parlato di ciò che si è detto allora tra noi, dove e come non doveva. Dubito di condurre una vita troppo inoperosa, troppo facile, troppo piacevole, perchè a me lo studio è piacevole. Dubito del mio stesso amore di Dio perchè sento troppo poco l’amore del prossimo. Mi viene in mente che le dolcezze mistiche mi possono addormentare circa questo punto. Tu, Maria, tu vivi la tua fede! Tu visiti gl’infermi, tu lavori per i poveri, tu conforti, tu istruisci. Io non faccio niente.»
«Io sono tu» mormorò Maria. «Sei tu che mi hai fatta così. E poi tu eserciti la carità intellettuale.»
«No no, questa è per me una parola presuntuosa!»
Egli ricadde a contemplare in silenzio l’ombra sonora.
Maria sapeva che veramente il sentimento affettuoso della fraternità umana non era vivace in lui. Sentiva, non volendolo quasi confessare a sè stessa, che questa deficienza toglieva a suo marito di esercitare con successo il grande apostolato religioso che avrebbe dovuto rispondere alle sue disposizioni intellettuali, a quella fede profonda e luminosa ch’era in lui frutto d’ingegno, di studio, di amor divino più che di tradizione e di abitudine. Si rimproverava di essersi qualche volta compiaciuta della freddezza di Giovanni verso gli uomini, per il prezioso sapore che ne prendevano i tesori di affetto dati a lei. Egli aveva però la coscienza del dovere fraterno e mai ella non lo aveva conosciuto sordo alla preghiera, duro al dolore altrui. Non sentiva e quindi non amava Dio negli uomini, ch’è il più sublime fuoco della carità; sentiva e amava gli uomini in Dio, ch’è freddo amore, come di un fratello buono al fratello soltanto per compiacere al padre. Ma quest’ultima è la tempra comune anche dei cuori umani migliori. Quello di Giovanni era temprato così, non poteva dare la carità sublime di cui umilmente, tristemente si conosceva vôto. Maria, accarezzandogli i capelli con infinita tenerezza pia, sognava che fluisse per il proprio cuore, per le proprie mani a quel capo la soave indulgenza Divina.
«Sai» diss’ella «ti offro subito io un’opera di carità che avrà molto merito. C’è Noemi che ha ricevuto una lettera della sua amica Dessalle e dice di aver bisogno del tuo aiuto.»
«Chiamala» diss’egli.
Noemi venne. Una leggera nube era passata quel giorno fra lei e Giovanni. Caso raro, avevano conversato insieme di religione. Noemi si teneva ciecamente aggrappata alla propria e non amava discuterne. Malgrado la sua tenerezza per Maria, il suo affettuoso rispetto per Giovanni, temeva di piegare, se esaminasse le ragioni e la natura del proprio credere, piuttosto verso lo scetticismo di Jeanne che verso il cattolicismo liberale e progressista dei Selva. Questo cattolicismo le pareva una cosa ibrida e forse aveva appreso da Jeanne a giudicarlo così, perchè Jeanne, in qualche momento di cattiveria nervosa, difendeva con acrimonia il proprio scetticismo da quella fede che per essere luminosa di spirito e verità poteva riuscirgli formidabile. Ell’era poi anche sempre in sospetto, non di sua sorella, ma di Giovanni che meditasse di convertirla; e il sospetto era trapelato, quel giorno, discorrendo i due della confessione, nella vivacità di qualche risposta. Allora Giovanni le aveva dolcemente e gravemente ricordato che l’errore accolto senz’averne coscienza, col desiderio sincero e puro della verità, era incolpevole davanti a Dio; ma che se un sentimento estraneo a quel desiderio avesse parte nella ripulsa della verità, ne sorgeva il peccato.
Questo argomento ferì Noemi ancora più addentro. Ella fu per domandare al cognato i suoi titoli di vice-giudice divino. Si contenne e lasciò cadere il discorso.
Più tardi, ripensandoci, ebbe rimorso del suo silenzio imbronciato; non tanto perchè le ultime parole di Giovanni avessero fatto cammino nella sua mente, quanto perchè sapeva dei dispiaceri che le opinioni religiose da lui professate gli fruttavano, perchè lo vedeva abbattuto di spirito. Anche per questo, richiamata da lui, pregata da sua sorella d’essergli molto affettuosa, ella si risolse a una infedeltà verso Jeanne. Di quanto Jeanne le aveva scritto sotto il suggello del segreto, si era aperta con Maria solo fino al confine dello stretto necessario. Jeanne, sempre malata di corpo e di spirito, aveva udito parlare del Santo di Jenne che guariva i corpi e le anime, la pregava di recarsi a Jenne, di vedere questo Santo, di scrivergliene qualche cosa. Ora Noemi non poteva andare a Jenne tutta sola, doveva pur chiedere a Giovanni di accompagnarla. La sua prima confidenza si era fermata qui. Adesso ruppe tutti i suggelli dell’amicizia e parlò.
La povera Dessalle era più infelice che mai. Nel breve soggiorno a Subiaco aveva incontrato l’antico amante. Esclamazione di Giovanni: era dunque proprio don Clemente? No, era l’uomo venuto alla villa col padre la sera dell’arrivo di Jeanne, il garzone ortolano di Santa Scolastica, colui che non era più al monastero, colui del quale si parlava già in tutta la valle dell’Aniene, e anche a Roma, come del Santo di Jenne. Noemi si scusò di non averlo detto subito, allora. Guai se Jeanne fosse venuta a saperlo, dopo le sue proibizioni di parlare! E poi non serviva. Giovanni prese quasi furtivamente una mano di sua moglie e se la recò alle labbra. Maria intese e sorrise. Ambedue assalirono Noemi di domande.
Sì, lo aveva riconosciuto la sera dell’arrivo e adesso Giovanni e Maria potevano intendere il perchè di quel tramortimento che si era visto. L’incontro era poi avvenuto l’indomani al Sacro Speco. Noemi ne sapeva soltanto che le speranze di lei n’erano state distrutte, ch’egli vestiva da monaco e aveva parlato come un uomo datosi a Dio per sempre, ch’ella gli aveva promesso di dedicarsi ad opere di carità e che nessuna relazione diretta era più possibile fra loro.
Adesso la Dessalle scriveva da villa Diedo, il soggiorno veneto dove si era ricondotta col fratello da Roma, due giorni dopo aver lasciato Subiaco. Scriveva in un’ora di amarissimo sconforto. Il fratello, sorpreso ch’ella si occupasse tanto de’ poveri, s’irritava di questa novità nei suoi pensieri e nella sua vita. Largheggiasse di denaro, se le piaceva, quanto le piaceva! Farsi venire una fila di pezzenti in casa, visitarli nei loro tugurii, no! Questo era sciocco, era inutile, era noioso, era ridicolo, era pazzesco, era clericale. C’erano altre difficoltà. Ell’avrebbe desiderato entrare nelle associazioni femminili caritatevoli della città. Al contatto della signora che aveva tanto fatto parlare di sè per Maironi, che se pure andava qualche volta in chiesa la domenica però non adempiva il precetto pasquale, esse indietreggiavano chiudendosi in sè stesse come sensitive. E finalmente anche le sue abitudini di dama oziosa si ricomponevano via via dopo il primo strappo a impedirle il nuovo cammino, tanto più pronte quanto più il cammino si faceva difficile. Sentiva di dover soccombere se non le venisse una parola di consiglio, di aiuto da lui. Vederlo non poteva, scrivere non osava perchè certamente egli aveva inteso vietare anche questo ed ella sarebbe morta piuttosto che fargli cosa sgradita, potendo evitarlo. Aveva letto una corrispondenza romana del Corriere sul «Santo di Jenne» dove si diceva che il Santo era giovine e aveva lavorato da bracciante nell’orto di Santa Scolastica. Era lui, dunque! Supplicava Noemi di andare a Jenne, di chiedergli per lei l’elemosina di un conforto.
Noemi era risoluta di andare. Vorrebbe Giovanni accompagnarla? Nel tôno umile col quale lo chiese Giovanni sentì una tacita offerta di scuse e di pace, le stese la mano.
«Di tutto cuore» diss’egli.
Maria si offerse per terza compagna. Fu stabilito di andare l’indomani, a piedi, e di partire alle cinque del mattino per non avere il sole ardente sulla costa di Jenne, nuda e scoscesa. Poi si parlò del Santo.
Tutta la valle ne era piena. La corrispondenza letta dalla Dessalle diceva che una quantità di gente affluiva a Jenne per vedere e udire il Santo, che si proclamavano guarigioni miracolose operate da lui, che i benedettini raccontavano con ammirazione la vita di penitenza e di preghiera ch’egli aveva condotto per tre anni lavorando nell’orto di Santa Scolastica. A Subiaco si raccontava ben altro. Un tale Torquato, guardaboschi, brav’uomo, parente della domestica dei Selva, aveva detto a costei di essere andato a Jenne con un forestiere, una specie di poeta, venuto da Roma per parlare al Santo. Nell’andata e nel ritorno aveva veduto, tutt’assieme, forse una cinquantina di persone che si recavano a Jenne per lo stesso scopo. Fior di signori, anche; sulla costa di Jenne una processione di donne che cantavano le litanie. A Jenne aveva saputo tutta la storia. Una notte l’arciprete di Jenne aveva sognato un globo di fuoco sulla grande croce piantata a sommo della costa e questo globo di fuoco aveva acceso la croce che ardeva e splendeva senza consumarsi, illuminava tutte le montagne e le valli. Il giorno di poi egli si era visto capitare un giovine vestito da converso benedettino, che aveva l’incarico di recargli una lettera. Questa lettera era dell’Abate di Santa Scolastica e diceva: «Vi mando un angelo di fuoco ardente che farà parlare di Jenne in tutto l’universo mondo.» Anche vi era scritto che questo giovine era nato principe grande di sangue di re, e che per servire Dio in umiltà si era fatto ortolano per tre anni a Santa Scolastica. E l’arciprete si era come impazzito per la commozione di questo fuoco sognato e di questo fuoco arrivato, e gli era venuta una grandissima febbre. L’indomani era giorno di festa. Degli altri due preti che stanno a Jenne uno era infermo e l’altro se n’era andato a Filettino due giorni prima per vedere sua madre inferma. La fantesca del parroco aveva raccontato nel paese di questo benedettino e del sogno e ogni cosa. La gente del paese era andata in chiesa per udir la messa del benedettino che avean veduto entrarvi, e non voleva credere che il benedettino non dicesse messa. Volevano che almeno predicasse, malgrado le sue proteste di non averne il diritto in chiesa; e, presolo in mezzo, gli facevano tanta ressa intorno ch’egli aveva accennato con la mano di uscire della chiesa promettendo ai vicini di parlare fuori. E fuori aveva parlato. Che avesse propriamente detto, la fantesca non l’aveva saputo dire a Maria, nè Maria l’aveva poi potuto cavar bene a Torquato. Un po’ interrogando, un po’ immaginando, ella si ricostituì il suo discorso così:
Potete voi entrare in chiesa? Siete voi riconciliati con i vostri fratelli? Sapete cosa Vi dice il Signore Gesù con questa parola che non si può avvicinarsi all’altare senza essersi riconciliati con i fratelli? Sapete che non potete entrare in chiesa se avete mancato contro la carità e la giustizia e non ne avete fatto ammenda, o non ne siete pentiti quando nessuna ammenda è possibile? Sapete che non Vi è lecito di entrare in chiesa se nutrite qualche rancore verso i fratelli vostri non solo, ma pure se avete fatto torto loro in qualunque modo, negl’interessi o nel’onore, se avete detto loro ingiuria, se portate nel cuore desiderii disonesti contro i loro corpi e le loro anime? Sapete che tutte le messe, le benedizioni, i rosarii, le litanie contano meno che niente se voi prima non vi purificate il cuore secondo la parola di Gesù? Siete voi immondi di odio, d’impurità? Andate, Gesù non vi vuole in chiesa!
Ma che! diceva Torquato. Il discorso era niente, era la voce, era il viso, erano gli occhi! Il buon uomo ne parlava come se vi ci fosse trovato. Allora la gente, giù, in ginocchio, e pianti; e certe donne, nemiche fra loro, ad abbracciarsi. Già non c’erano che donne e vecchi perchè gli uomini di Jenne son tutti pecorai a Nettuno e ad Anzio, e prima della fine di giugno non ritornano alla montagna. Il Santo, vedutili così contriti, aveva detto: entrate, inginocchiatevi, Iddio è dentro di voi, adoratelo in silenzio. La gente era entrata, una moltitudine. Eran caduti in ginocchio, tutti, e per un quarto d’ora, Torquato raccontava così, si sarebbe udita, in quella grande chiesa, una mosca volare. Poi il Santo aveva intonato il «Padre nostro» a voce alta e, seguito dal popolo, lo aveva recitato lentamente sostando a ogni versetto. E Torquato raccontava che l’arciprete, udito tutto questo, aveva baciato il suo ospite e nel baciarlo era guarito della febbre. Ecco portare infermi al Santo, in canonica, perchè li benedica e li sani. Egli non voleva ma quanti riuscivano a toccargli, magari di furto, la tonaca, guarivano. E tanti andavano a lui per consiglio. C’era stato un miracolo grande di una mula imbizzarrita sulla discesa della costa, ch’era per gittare il suo cavaliere sulle pietre in vista del Santo, il quale saliva dall’Infernillo portando acqua. Il Santo aveva stesa la mano e la mula si era chetata sull’atto.
Il racconto del guardaboschi fu riferito da Maria.
«Che tutto sia vero come il principe di sangue reale?» disse Noemi.
«Domani si saprà» rispose Giovanni, alzandosi.
II.
Partirono verso le sei, col cielo coperto e un venticello fresco, fragrante di bosco e di montagna, vivo di vocine allegre di uccelli, purificatore anche dell’anima. Ai bagni di Nerone presero la mulattiera ch’entra nella stretta gola verde risalendo la destra dell’Aniene. Si lasciarono a sinistra, in alto, Santa Scolastica, il Sacro Speco, la Casa del Beato Lorenzo, bianca sotto lo scoglio ferrigno. Si lasciarono a destra il ponte della Scalilla, una trave gettata alla sinistra sponda selvaggia del turbolento fiumicello. Parlarono molto, per la via, di questo strano Santo. Giovanni si stupiva che don Clemente non gli avesse detto nulla, in passato, della qualità di quel garzone ortolano. Gli piaceva il discorsino in piazza. Eran cose di cui aveva parlato con don Clemente, mostrandogli come quella parola di Gesù non sia affatto praticata nè insegnata a dovere, come i cristiani migliori non l’applichino che all’uso dei sacramenti, come se i fedeli sapessero di non poter entrare in chiesa senz’avere il cuore puro, il popolo cristiano sarebbe veramente di esempio al mondo e non si oserebbe affermare che la moralità è presso a poco la stessa dappertutto e non dipende dalle credenze.
Gli piaceva molto anche il «Padre nostro» recitato in chiesa così. Non gli piacevano invece i miracoli; dubitava di una debolezza dell’uomo che non sapesse romperla risolutamente con la superstizione popolare a lui lusinghiera.
Che poteva dire Noemi del carattere di quest’uomo? Quale concetto se n’era fatto per le confidenze di Jeanne? Noemi s’imbarazzò. Tutto quello che ne aveva udito da Jeanne la persuadeva che Maironi si fosse condotto male con essa, che non l’avesse veramente amata mai; e le suggeriva in pari tempo una curiosità intellettuale che, combattuta, ritornava sempre: la curiosità di sapere se quell’uomo avrebbe amato lei meglio di Jeanne. Rispose che il carattere di Maironi era per lei un enigma. E l’intelligenza? E la cultura? Dell’intelligenza nè della cultura non poteva dir nulla; però, se una donna come Jeanne Dessalle lo aveva tanto amato, doveva essere intelligente e colto. E le sue idee religiose di una volta? A quest’ultima domanda Noemi rispose che da certi fatti di cui le aveva parlato Jeanne, dalla influenza decisiva che le tradizioni religiose di famiglia avevano esercitato sopra di lui, secondo Jeanne, in una crisi del loro amore, ell’arguiva che fosse allora un cattolico della vecchia scuola, non un cattolico… Qui, Noemi s’interruppe, arrossì e sorrise. Sorrise anche Giovanni. Invece Maria si oscurò un poco. Il discorso cadde.
Camminarono per alquanto tempo in silenzio, solo scambiando un saluto con qualche montanaro che scendeva ai mulini di Subiaco sul mulo carico di grano.
Sostarono a riposare sul prato di S. Giovanni che parte quel di Subiaco da quel di Jenne. Il Beato Lorenzo, bianco sotto lo scoglio ferrigno, li guardava alle spalle oramai, dall’alto. Lumi di sole, rotte le nuvole, doravano i monti, e la piccola compagnia, pensando alla costa bruciata di Jenne, si rimetteva in cammino quando la incontrò il medico di Jenne che riconobbe Maria per averla veduta, tempo addietro, in casa di un collega di Subiaco. Salutò, trattenne la sua mula, sorridendo.
«Loro signori vanno a Jenne? Vanno a vedere il Santo? Troveranno gran gente, oggi.»
Gran gente? Noemi è seccata perchè teme di non poter vedere Maironi a suo agio, i Selva son curiosi di sapere. Perchè, gran gente? Perchè vogliono il Santo a Filettino, lo vogliono a Vallepietra, a Trevi, e le donne di Jenne intendono averlo per sè.
«Tutto per farmi riposare!» soggiunse il medico. «E anche per far riposare il farmacista. Oggi il medico è il benedettino e la farmacia è la sua tonaca.»
E raccontò che quel giorno doveva venir gente da Filettino, gente da Vallepietra, gente da Trevi per parlamentare con Jenne, venire a un accordo e dividersi il Santo. «Chi sa se non si bastoneranno!» Intanto a Jenne c’erano già i carabinieri.
«Anche Lei lo chiama «il Santo»?» disse Maria.
«Eh!» rispose il medico, ridendo. «Così lo chiaman tutti. Meno però chi lo chiama il Diavolo, perchè adesso a Jenne c’è anche di questi.»
Sorpresa. Questa era nuova. Chi lo chiamava il Diavolo? E perchè?
«Eh!» Il medico fece il viso del furbo che la sa lunga e non la vuole dire tutta. «Ma!» diss’egli «ci sono due preti di Roma che villeggiano a Jenne; due preti, due preti…! Son fini di molto. Cosa pensino del Santo a me non l’hanno detto, ma intanto l’arciprete s’è tirato molto indietro e qualche altro pure. Quella è gente che lavora. Non si vede ma lavora. Sono insetti… non per dirne male! Anzi, forse, in questo caso, per dirne bene!...Sono insetti che quando si mettono ad ammazzare una pianta non toccano i frutti, non toccano i fiori, non toccano le foglie, sto per dire non toccano neanche le radici perchè un beveraggio li arriverebbe, un colpo di zappa li scoprirebbe e loro non vogliono essere arrivati, non vogliono essere veduti. Si ficcano nel midollo. Ora ci stanno, nel midollo. Andrà un mese, andranno due, la pianta deve seccare e seccherà.»
«Ma Lei» domandò Maria «cosa ne pensa? Quest’uomo si spaccia proprio per un santo? È contento che della gente superstiziosa se lo disputi così? È vero che ha guarito degli ammalati?»
Mentr’ella parlava il medico rideva sempre.
«Io rido» rispose. «È un caso di psicopatia mistica contagiosa. Scusino, devo trovarmi a Subiaco alle otto. Buon divertimento!»
Dato il colpo del suo malanimo, scosse le redini al mulo, e se n’andò per paura di dover mostrare come colpissero le sue ragioni.
Noemi, la più commossa dei tre per l’atteso incontro con l’uomo amato da Jeanne, incominciava a sentirsi stanca. Una seconda sosta si fece a piedi della costa di Jenne, sulle ghiaie rigate dai sottili rivoletti che vanno al fiume dalla grotta dell’Infernillo. Ecco sopraggiungere qualcuno alle loro spalle. Che sorpresa e che gioia! Don Clemente! Anche il bel volto del padre si accese. Egli amava e riveriva Giovanni Selva come un grande cristiano, aveva talvolta a difendersi contro la tentazione di giudicar il suo superiore, l’Abate, che gli aveva interdetto di visitarlo, contro la tentazione di appellarsi dall’Abate a Qualcuno maggiore degli Abati e anche dei Pontefici, interno all’anima sua. Ora Questi gli disse nell’anima: «l’incontro è mio dono» e il monaco si unì lieto agli amici. Maria lo presentò a Noemi ed egli arrossì ancora nel riconoscere la persona che aveva scambiato per la persecutrice di Benedetto.
«E la sua amica?» diss’egli, tremando di apprendere che fosse lì presso. Rassicurato, lampeggiò di sollievo nel viso. Noemi ne sorrise ed egli, avvedutosene, rimase confuso. Sorrisero anche gli altri ma nessuno parlò. Il primo a rompere il silenzio fu Giovanni. Certo don Clemente andava a Jenne come loro? E forse ci andava per lo stesso scopo, per vedere la stessa persona, l’ortolano, eh, l’ortolano di quella sera? Ah don Clemente, don Clemente! Sì, don Clemente andava pure a Jenne, ci andava per vedere Benedetto. E quanto all’ortolano, si scusò. Inganno non c’era stato, c’era stato il desiderio che le due anime si avvicinassero senza violenza, nel modo più spontaneo, senza raccomandazioni e informazioni preventive.
Preso a salire insieme la costa, parlarono di Benedetto.
Noemi, dimentica della stanchezza, pendeva dalle labbra del padre, e il padre, appunto per questo, parlava così poco e così circospetto ch’ella ne fremeva d’impazienza, e in breve si sentì stanca da capo. Prese il braccio di Maria, lasciò che don Clemente si dilungasse con suo cognato. Allora don Clemente confidò a Giovanni che aveva una missione penosa. Pareva che qualcuno avesse scritto a Roma da Jenne in modo ostile a Benedetto, accusandolo di tenere discorsi non perfettamente ortodossi, di spacciarsi per taumaturgo e di vestire senza diritto un abito religioso che rendeva gravissimo lo scandalo. Certo da Roma era stato scritto all’Abate e l’Abate aveva dato l’incarico a lui, don Clemente, di recarsi a Jenne e di chiedere a Benedetto la restituzione dell’abito. Don Clemente aveva cercato invano dissuadere il vecchio Abate che se l’era cavata con una barzelletta: «leggete il Vangelo, la Passione secondo S. Marco: chi segue Cristo quando tutti lo abbandonano bisogna che ci rimetta l’abito. È un segno di santità.» E poichè qualcuno doveva portare questo messaggio a Jenne, don Clemente preferì di portarlo egli. Aveva poi anche ricevuto una strana lettera dell’arciprete di Jenne. L’arciprete, brav’uomo ma timido, gli aveva scritto che Benedetto, a suo avviso, era veramente un pio cristiano ma che discorreva troppo di religione alla gente e che i suoi discorsi avevano qualche volta un certo sapore di quietismo e di razionalismo; che lo si accusava di esercitare a profitto delle sue idee non tanto ortodosse un potere diabolico; che l’accusa era sicuramente falsa ma ch’egli non aveva potuto, per prudenza, tenerlo ancora presso di sè, che forse il miglior partito sarebbe per lui di andarsene in qualche paese dove non fosse conosciuto e viverci quieto.
Il dialogo fu interrotto da una chiamata di Maria. Noemi, spossata dal sole ardente, presa da palpitazione, aveva bisogno di un’altra sosta. Le signore si erano sedute all’ombra di un sasso.
Don Clemente si congedò. Si sarebbero riveduti a Jenne! Maria era molto angustiata per sua sorella, si rimproverava in cuor suo di non essersi opposta a che venisse a piedi. Lei e Giovanni tacevano guardando Noemi che sorrideva loro, pallida. In quel deserto di montagne senza bellezza, su quei sassi bruciati dal sole, il silenzio pesava di un peso mortale. Fu per tutti e tre un sollievo di udire voci di viandanti che salivano. Erano sei o sette persone, avevano seco due muli e salivano cantando il rosario. Quando furono vicini si videro sui muli una giovinetta e un uomo, sparuti ambedue, quasi cadaverici. La giovinetta, visti i Selva, spalancò gli occhi; l’uomo li teneva chiusi. Gli altri guardarono con certe facce compunte, continuando le preghiere. La nenia monotona si dilungò insieme al calpestio dei muli, si perdette nell’alto. Poco dopo la triste processione sopraggiunse dal basso una brigata allegra di giovinotti borghesi che ridevano parlando di Quiriti a caccia piuttosto di Sabine che di Santi. Al vedere Giovanni e le due signore ammutolirono. Passati, ripresero a ridere e a scherzare; scherzarono su Giovanni che forse era il Santo fra le tentatrici.
Una grande nube dagli orli di argento, la prima di una flotta che veleggiava verso ponente, oscurò il sole; e Noemi, alquanto rinfrancata, propose di approfittare dell’ombra per rimettersi in via. Pochi passi sotto la croce sognata, secondo quel Torquato, dall’arciprete, incontrarono un borghese vestito di nero che scendeva sul mulo.
«Scusino» diss’egli alle signore, trattenendo il mulo, «una di Loro è Sua Eccellenza la duchessa di Civitella?»
Udita la risposta, si scusò dicendo che un senatore suo amico gli aveva raccomandata questa duchessa, da lui non conosciuta, che doveva capitare a Jenne per vedere il Santo.
«Già» diss’egli sorridendo. «Forse anche Loro. Tutti adesso. Una volta ci venivano a vedere un Papa. Sicuro. A Jenne c’era un Papa. Alessandro IV. Vedranno l’iscrizione. «Calores aestivos vitandi caussa.» Adesso ci vengono per un Santo. Dovrebb’essere più che un Papa. Ho paura che sia meno! Hanno visto i due malati? Hanno visto gli studenti di Roma? Eh, vedranno altro, vedranno altro! Ma ho paura che sia meno. Buon viaggio a Loro signori!»
Oltrepassata la croce, montarono in faccia al cielo aperto, fra i dorsi verdi pendenti alla conca romita di Jenne, incoronata là di fronte dalla povera greggia di casupole che il campanile governa. Giovanni era stato a Jenne altre volte e non gli parve diversa perchè ora vi dimorasse un Santo e vi si operassero miracoli. Sua moglie, che ci veniva per la prima volta, ebbe l’impressione di un luogo spirante raccoglimento religioso per quel senso di altezza non suggerito da vedute lontane, per quel cielo profondo dietro il villaggio, per la solitudine, per il silenzio. Noemi pensò con pietà profonda alla povera lontana Jeanne.
III.
L’oste di Jenne, un brav’uomo in occhiali, nobilmente cortese, che conosceva il mondo per essere stato in America e tuttavia pareva immune delle sue corruzioni, parlò di Benedetto ai nuovi arrivati con favore, in sostanza; però non senza certo riserbo diplomatico. Non lo chiamava il Santo; lo chiamava fra Benedetto. I Selva seppero da lui che Benedetto viveva in una capanna sua, lavorandogli per compenso un campicello. Chi lo volesse vedere doveva aspettare le undici. Adesso stava falciando l’erba. La sua vita era questa. Sull’alba andava alla messa dell’arciprete. Lavorava fino alle undici. Mangiava pane, erbe, frutta, non beveva che acqua. Nel pomeriggio lavorava per niente le terre delle vedove e degli orfani. La sera, seduto sulla sua porta, parlava di religione.
Alle dieci e mezzo i Selva e Noemi andarono a veder Sant’Andrea, la chiesa di Jenne, accompagnati dall’ostessa, bella donna poderosa, pulitissima, semplice, ilare modestamente. Usciti in piazza dal dedaluccio di vicoletti dov’è l’osteria, vi trovarono gran capannelli di donne, a detta dell’ostessa, forestiere. Ella le distingueva dai busti, dai guarnelli, dalle calzature. Queste erano di Trevi, quelle di Filettino, quell’altre di Vallepietra. L’ostessa entrò in un forno a destra della chiesa dove parecchie donne di Jenne si facevan cuocere le stiacciate, ciascuna la propria.
«Forestiere che vogliono parlare al nostro Santo» diss’ella a Maria. Ella non diceva «fra Benedetto» come il marito; diceva «il Santo».
«Non a lui, però» dichiarò arrossendo «perchè lui se stizzisce.» No, non si stizziva veramente, perchè gli era un Santo; ma pregava con dolore di non venir chiamato così.
Nel gran chiesone rovinoso che «una domenica o l’altra» diceva l’ostessa «ce schiaccia tutti come topi» non c’erano che i due malati e la loro compagnia. I due malati erano stati adagiati sul pavimento, proprio nel mezzo della chiesa, con due guanciali sotto il capo. I loro compagni salmeggiavano ginocchioni e non guardarono a chi entrava, continuarono a salmeggiare.
«Forse li hanno condotti per farli benedire al Santo» disse l’ostessa sotto voce «ma di questo il Santo ha dolore. Non vuole. Forse cercheranno di toccargli l’abito di soppiatto e questo pure è difficile, ora.»
Quella povera gente cessò di salmeggiare e una donna venne a domandare all’ostessa se le undici fossero suonate. Le rispose Maria che mancava un quarto d’ora e le domandò degl’infermi. L’uomo era malato di febbri, da due anni; la ragazza, sua sorella, di cuore. Venivano dal piano di Arcinazzo, una strada di parecchie ore, per farsi guarire dal Santo di Jenne. Una donna di Arcinazzo, malata di cuore, era guarita giorni prima solo con toccargli l’abito. Maria e Noemi parlarono agli infermi. La ragazza era fidente. L’uomo, che tremava di febbre, pareva fosse esser venuto per accontentare i suoi, per provare anche questa. Aveva molto sofferto del viaggio.
«So’ strade per andare all’altro mondo» diss’egli «e la guarigione sarà quella.»
Una donna, forse sua madre, ruppe in pianto e lo supplicò di pregare, di raccomandarsi a Gesù e Maria. Le due signore si allontanarono, richiamate da Giovanni per un tafferuglio che avveniva sulla piazza fra le donne e quegli studenti che avevano oltrepassato i Selva sulla costa di Jenne. Gli studenti dovevano avere scherzato male sulla devozione loro al Santo. Erano inviperite. Quelle di Jenne sbucarono dal forno. Da un’altra parte sbucarono due pennacchi di carabinieri. Noemi e Maria entrarono fra le donne a metter pace. Giovanni arringò gli studenti che ridevano per braveria, con pericolo di peggio. Un canto suonò dalla chiesa, prima velato, poi, aprendosi la porta, forte:
«Sancta Maria, ora pro nobis.»
Comparvero i due ammalati. La ragazza camminava sorretta, l’uomo era portato a braccia, dalla testa e dai piedi, spenzolato come un cadavere. E anche le portatrici cantavano, solenni in viso:
«Sancta Virgo virginum, ora pro nobis.»
Sulla piazza le donne caddero ginocchioni tutte insieme, intorno ai carabinieri sbalorditi; gli studenti ammutolirono; una cavalcata di signori e signore che entrava in piazza dalla mulettiera di Val d’Aniene, si arrestò. Maria prima, quindi Noemi, tratte a terra da uno spirito che metteva loro brividi di commozione, s’inginocchiarono. Giovanni esitò. Quella non era la sua fede. A lui sarebbe parso di offendere il Creatore e Donatore della ragione facendo viaggiare a lungo sul mulo degli ammalati perchè un simulacro, una reliquia, un uomo, li guarisse miracolosamente. Però era fede. Era, dentro un rude involucro d’ignoranze caduche, il senso, negato alle menti superbe, dell’ascosa Verità che è Vita, radio misterioso dentro un ammasso di minerale impuro. Era fede, era incolpevole errore, era amore, era dolore, era un che visibile degli accolti più alti misteri dell’Universo. La terra stessa e la grande faccia triste della chiesa e le piccole facce umili delle casupole intorno alla piazza, parevano averne intelletto e riverenza. Giovanni si vide in mente la immagine di una morta, statagli cara, che aveva creduto così, un’aura gelata corse anche a lui nel sangue, le ginocchia gli si piegarono sotto. La compagnia degli ammalati passò cantando colla faccia levata:
«Mater Christi». Le donne inginocchiate risposero colla faccia a terra:
«Ora pro nobis».
Poi si alzarono e seguirono il corteo. Intanto tre o quattro donne di Jenne dissero forte:
«Non vole! Non vole!»
Una spiegò a Maria che il Santo non voleva gli fossero portati infermi. Non furono ascoltate e seguirono anche loro, curiose di quel che sarebbe.
Pure i Selva, sulle prime renitenti, si mossero dietro a Noemi, avida. Alle loro spalle, con quel giusto intervallo che li dimostrasse spettatori e non seguaci, si avviarono gli studenti. Soli, assai più da lontano, seguivano i carabinieri, ultima coda del serpe di gente, che guizzò e scomparve dentro un fesso dell’ammasso di casolari fronteggianti la chiesa.
Scomparve, si torse per i vicoletti oscuri dai nomi pomposi, che riescono a un’altra fronte del villaggio, la più misera, la più deforme. Ivi, sulla ruina sassosa del monte, male affisse ai ronchioni, alle lastre della roccia, sdrucciolano in basso fra i ciottoli le stamberghe ammassellate. Le finestrine nere guardano come occhiaie di scheletri il silenzio della valle profonda, chiusa. Le porte versano sulla ruina scalini diruti. Le più non ne hanno che tre o quattro scheggioni. Qualcuna n’è rimasta del tutto vedova. Quando ci si è a fatica inerpicati dentro si trovan caverne senza luce nè aria.
«So’ mali passi, vigoli cattivi» disse alle signore dalla sua porta una vecchia, sorridendo.
Una di questa caverne male accessibili era la dimora di Benedetto. Due rivi della turba, rotta nella discesa, vi si riunirono sotto la porta aperta. Da un forno lì accanto le donne uscirono a dire che Benedetto non c’era. La turba ondeggiò intorno ai due infermi, si levarono voci di lamento. Domande ansiose, diversi mormorii risalirono per i due rivi di gente su all’altro capo della processione, dove non si era inteso il perchè di quei gemiti e si faceva ressa per scendere, per vedere. Forse qualche maggior guaio era accaduto agli ammalati, fermi nel sole ardente. Tre studenti scivolarono giù fra le donne levandone grugniti di male parole. Ecco, una donna di Jenne ha detto:
«Portateli dentro, poverini.»
Sì, sì, dentro, dentro! Nella casa del Santo!
La gente si aspetta già il miracolo dalle pareti fra le quali egli vive, dal suolo che preme, dagli arredi pregni della sua santità. Sul letto del Santo! Sul letto del Santo! Si posano delle assicelle sui pietroni smozzicati che salgono alla porta di Benedetto, i due infermi sono tra spinti e portati su da un’ondata. Eccoli stesi per traverso sul giaciglio del Santo. L’ondata empie la caverna. Tutti cadono ginocchioni, a pregare.
È caverna veramente. Un fianco intero n’è parete giallastra di roccia, tagliata per isghembo. Si cammina sulla terra nuda, mal calcata. Accanto al giaciglio, alto due palmi, è un focolare. Non vi son finestre, ma un raggio di sole, entrato per il camino, batte, celeste fiamma, sulla pietra senza cenere del focolare. Una coperta bruna è stesa sul letto. Una croce è scolpita rozzamente sulla parete obliqua di roccia, presso all’entrata. In un angolo si vede, sola ricchezza, una gran secchia piena d’acqua, un catino verde, una bottiglia, un bicchiere. Alcuni libri sono accatastati sopra una sdruscita seggiola di paglia. Un’altra seggiola porta un piatto di fave e del pane. Il luogo ha l’aspetto di una estrema povertà, ordinata e pulita.
L’uomo, febbricitante, si lagna del freddo, dell’umido, del buio. Dice di star peggio e che lo hanno condotto a morire. Lo scongiurano di chetarsi, di sperare. Invece la sua giovinetta sorella dal cuore ammalato, un minuto dopo che l’han posata sul letto, sente sollievo. Lo annuncia subito, annuncia che guarisce. Intorno a lei si lagrima e si ride insieme, si loda il Signore. Le si baciano le vesti come s’ella pure fosse divenuta santa, si grida l’annuncio fuori. Voci di gioia rispondono, altra gente si caccia nella caverna col viso acceso, con gli occhi avidi. Ma in quel momento qualcuno, ch’è sceso più abbasso in cerca del Santo, grida da lontano: il Santo viene! il Santo viene! Allora la caverna rigurgita gente sulla china, un fracasso di voci e di passi trabocca in giù, in un attimo tutto è vuoto intorno ai Selva e a tre o quattro studenti, fermi sotto l’entrata della capanna. Delle donne di Jenne parte è ritornata nel forno al lavoro, parte sta a guardare sulla porta. Maria scambia qualche parola con queste. Tutta forestiera quella gente ch’è scesa? Eh sì, non tutta ma quasi. Gente di Vallepietra, la più parte. Sarebbe meglio che da Vallepietra ci venisse l’acqua. E che vogliono? Portarsi via il Santo da Jenne? Sì, dicevano anche questo, parlavano di far gran cose. E voi? Noi si sa che lui non vole andare. E poi… Le compagne gridano qualche cosa dal di dentro, la donna si volta, succede un litigio, i due Selva e gli studenti entrano a vedere la guarita miracolosamente. Noemi rimane fuori. È impaziente di vedere Benedetto, palpita, non ne comprende il perchè, si chiama stupida nel suo cuore; ma non si muove.
Due tonache benedettine venivano per i campicelli del basso, da lontano. Sopra la seconda lampeggiava tratto tratto un ferro di falce. Udito piombar dall’alto lo scroscio delle voci e dei passi, Benedetto disse al suo compagno con un sorriso: «Padre mio.»
Don Clemente, appena arrivato a Jenne, aveva raggiunto Benedetto sul praticello che stava falciando, gli aveva recato il messaggio doloroso e promesso, dopo un lungo colloquio, di tenere a chi lo chiamava santo certo discorso che Benedetto desiderò. Udì anche lui lo scroscio della folla che scendeva, le grida «il Santo! il Santo!» e quando Benedetto gli ebbe detto sorridendo: «Padre mio!» impallidì, fece un gesto di acquiescenza e passò avanti. Benedetto depose la falce, uscì un poco del sentiero, sedette dietro un masso e un gran melo fiorito, che lo nascondevano ai sopravvegnenti. Don Clemente li affrontò solo.
Al primo vederlo coloro si arrestarono. Più voci dissero: «non è lui!» e altre voci: «lui è dietro!» e altre ancora dalla retroguardia: «passate avanti!» La colonna si mosse.
Allora don Clemente levò la mano e disse:
«Ascoltate.»
L’uomo che non sapeva parlare a due persone sconosciute senza coprirsi di rossore, adesso era pallidissimo. La voce dolcemente velata si udì appena ma si vide il gesto. Il bellissimo viso sereno, l’alta persona, imposero riverenza.
«Voi cercate Benedetto» diss’egli. «Voi lo chiamate Santo. Questo è un grandissimo dolore che voi gli date. Egli ha pur detto a tutti dal primo giorno del suo arrivo a Jenne di essere un gran peccatore ridotto a penitenza per la infinita bontà di Dio. Ma egli vuole che io vi confermi questo. Lo confermo, è la verità. È stato un gran peccatore. Domani potrebbe cadere ancora. Se vi credesse un solo momento quando voi lo chiamate Santo, Iddio si allontanerebbe da lui. Non lo chiamate più Santo e soprattutto, poi, non gli domandate più miracoli.»
«Padre» lo interruppe con voce solenne, facendosi avanti e allargando le braccia, un vecchio alto, magro, sdentato, dal profilo d’aquila. «Padre, noi non domandiamo il miracolo, il miracolo è fatto, la donna, come ha toccato la dimora dell’uomo è guarita, e noi Le diciamo che l’uomo è santo e se a Jenne vi è gente che dice altre cose è gente degna di bruciare nel fondo dell’inferno. Padre, noi Le baciamo le mani ma diciamo questo.»
«C’è un ammalato, ancora! C’è un ammalato, ancora!» gridarono dieci, venti voci. «Venga il Santo!»
Dal gruppo degli studenti, alla retroguardia, si gridò: «avanti il Santo! Il Santo parli!»
«O che modo è questo?» fece il vecchio volgendosi addietro con dispetto, da spodestato oratore del popolo. «Che modo è questo?»
Un subisso di voci sdegnose coperse la sua, gridando gli studenti sempre più forte:
«Venga il Santo! Parli il Santo! Via il prete! Via!»
Le donne si voltarono minacciose:
«Via voi, via!»
E in alto, dalle stamberghe appollaiate sulla rovina, sbucarono i pennacchi dei carabinieri. Allora Benedetto si alzò, uscì allo scoperto.
Appena fu veduto, un gran clamore di gioia lo accolse. I Selva si fecero sulla porta della caverna a guardare in giù, Noemi scese di corsa. Benedetto si trovò attorniato in un lampo da gente che gli baciava la tonaca benedicendo. Molti, ginocchioni, piangevano. Noemi, ch’era discesa sola dietro gli studenti, si slanciò avanti, vide finalmente l’uomo.
Jeanne le ne aveva mostrate più fotografie, dicendole però che di nessuna era soddisfatta pienamente. Nella fisonomia simpatica di Piero Maironi Noemi aveva letto un’ombra interna di tristezza; quella di Benedetto luceva di straordinaria vita. Da due giorni egli si era fatto radere capelli e barba per aver udito una donna sussurrare: «è bello come Gesù.» La espressione dell’anima dominatrice gli si era accentuata nel naso più prominente per la maggiore magrezza, nelle grandi occhiaie scure. Gli occhi avevano un fascino inesprimibile. Spiravano tristezza anche adesso ma una tristezza dolce, piena di vigore e di pace, di devozione mistica. Attorniato, sotto la bianca nuvoletta del melo fiorente, dalla turba prostrata, circonfuso di sole e di mobili ombre, pareva una visione di pittore antico. Noemi impietrò, stretta alla gola da un groppo di pianto. Presso a lei parecchie donne piangevano, solo per averlo veduto, penetrate da una suggestione vicendevole. Una di esse, ammalata, stanca, si era seduta sull’orlo del sentiero, non poteva vedere il Santo, piangeva di commozione senza saperne il perchè. Sopraggiunsero dei ritardatarii, un vecchio e tre donne di Vallepietra. Subito le tre donne, scambiando don Clemente per Benedetto, si misero a singhiozzare e a gridare: «com’è bello, com’è bello!»
Intanto, sotto la bianca nuvoletta del melo fiorente, Benedetto riuscì con parole di dolore, di supplica, di rampogna, a respingere l’assalto della turba adoratrice, a farla rialzare in piedi. Un grido partì dal gruppo degli studenti: «parli!» In quello stesso momento, lassù in alto, le campane di Jenne annunciarono solenni il mezzogiorno al villaggio, alle solitudine, al monte Leo, al monte Sant’Antonio, al monte Altuino, alle nubi veleggianti verso ponente. Benedetto si pose l’indice alla bocca, le campane parlarono sole. Guardò don Clemente come per un tacito invito. Don Clemente si scoperse e cominciò a dire l’Angelus Domini. Benedetto, in piedi, a mani giunte, lo disse con lui e fino a che le campane suonarono tenne gli occhi fissi sul giovane che gli aveva gridato di parlare: gli occhi pieni di tristezza, di dolcezza mistica. Quello sguardo ineffabile, il suono delle campane solenni, il tremar dell’erba, l’ondular lieve dei rami fioriti al vento, il rapimento di tante facce lagrimose volte a una sola si componevano insieme per Noemi in una parola unica che la esaltava senza rivelarsi, come tormenta l’anima nel desiderio di sè la parola occulta sotto una tragica processione di accordi musicali. Le campane tacquero e Benedetto disse dolcemente a chi gli stava di fronte:
«Chi siete voi e cosa è accaduto che vi ha fatto venire a me come se io fossi quello che non sono?»
Gli fu risposto da più voci a un tempo, gli fu detto del miracolo e com’egli fosse desiderato nel villaggio degli uni e nel villaggio degli altri.
«Voi esaltate me» diss’egli «perchè siete ciechi. Se questa giovine è guarita non io l’ho guarita ma la sua fede. Questa forza della fede che l’ha fatta alzarsi e camminare è nel mondo di Dio, dappertutto e sempre, come la forza dello spavento che fa tremare e cadere. È una forza nell’anima come le forze che sono nell’acqua e nel fuoco. Dunque se la giovine è guarita è perchè Dio ha disposto nel suo mondo questa gran forza; datene lode a Dio e non a me. Ma poi udite. Voi offendete Dio se la Sua potenza e bontà vi paiono più grandi nei miracoli. Esse sono dappertutto e sempre infinite. È difficile di capire come la fede risani, ma è impossibile di capire come questi fiori vivano. Il Signore non sarebbe mica meno potente nè meno buono se questa giovane non fosse guarita. Pregate di guarire sì, ma pregate più ancora di comprendere questa grande cosa che vi ho detto ora, pregate di poter adorare la volontà del Signore quando vi dà la morte come quando vi dà la vita. Vi sono nel mondo degli uomini che credono di non credere in Dio e quando le malattie e la morte entrano nelle loro case, dicono: è la legge, è la natura, è l’ordine dell’Universo, noi pieghiamo il capo, noi accettiamo senza mormorare, noi proseguiamo il cammino del nostro dovere. Guardate che questi uomini non passino avanti a voi nel regno dei cieli. E pensate anche quali miracoli domandate. Voi venite per esser guariti dalle malattie del corpo, voi volete che io venga nei vostri villaggi per questo. Abbiate fede e guarirete senza di me. Ricordatevi però che potreste usare anche meglio la vostra fede secondo la volontà di Dio. Siete voi tutti e interamente sani dell’anima vostra? No, voi non lo siete; e che vi servirà di aver l’otre sana se il vino è guasto? Voi amate voi stessi e le vostre famiglie più della verità, più della giustizia, più della legge divina. Voi avete presente sempre quello ch’è dovuto a voi e ai vostri e ben di rado quello ch’è dovuto agli altri. Voi credete di salvarvi colla moltitudine delle preghiere. E nemmeno sapete pregare. Voi pregate allo stesso modo i Santi che sono i servi e Iddio ch’è il Padrone; quando non fate peggio! Voi non pensate che al Padrone non importano le molte parole, ch’Egli preferisce essere servito fedelmente in silenzio col pensiero sempre alla Sua volontà. E non intendete i vostri mali, siete come il moribondo che dice: «sto bene.» Forse alcuno di voi pensa in questo momento: se non intendo il male che faccio, il Signore non mi condannerà. Ma il Signore non giudica come i giudici del mondo. L’uomo che ha preso un veleno senza saperlo deve cadere come colui che lo ha voluto prendere. L’uomo che non ha la veste bianca non può entrare nella cena del Signore anche se non sapeva che la veste non era necessaria. Colui che ama se stesso sopra ogni cosa, sappia o non sappia il suo peccato, non passa per la porta del regno dei cieli, allo stesso modo che il dito della sposa, se è ripiegato sopra sè stesso, non entra nell’anello offerto dallo sposo. Conoscete le infermità dell’anima vostra e pregate con fede di esserne sanati. Vi dico in nome di Cristo che lo sarete. La guarigione del vostro corpo è buona per voi, per la famiglia vostra, per gli animali e le piante che avete in cura; ma la guarigione dell’anima vostra, credete questa cosa benchè non la comprendete! la guarigione dell’anima vostra è buona per tutte le povere anime dei viventi sbattuti fra il bene e il male, è buona per tutte le povere anime dei morti che si purificano con fatica e dolore, come la vittoria di un soldato è buona per tutti della sua nazione. È anche buona per gli Angeli, che sentono tanta gioia, ha detto Gesù, per la guarigione di un’anima, e la gioia fa crescere la loro potenza, e la loro potenza, credete voi che sia per le tenebre o per la luce, per la morte o per la vita? Domandate con fede, prima la guarigione dell’anima e poi la guarigione del corpo!»
Dal ripido pendìo gli si porgeva una fitta di visi; avidi i più alti cui soltanto giungeva il suono della voce, e rigati di pianto; parte attoniti i più vicini, parte entusiasti, parte dubbiosi. Anche a Noemi colavano lagrime lungo le guancie smorte. Gli studenti avevano smesso l’aria beffarda. Quando Benedetto tacque, uno di loro avanzò risoluto e serio, per parlare. In quel mentre il vecchio esclamò:
«E voi ci guarite l’anima!»
Altre voci ripeterono ansiose:
«E voi ci guarite l’anima! E voi ci guarite l’anima!»
In un baleno, tutta l’avanguardia, presa dal contagio, traboccò in ginocchio tendendo le braccia supplici:
«E voi ci guarite l’anima! E voi ci guarite l’anima!»
Benedetto si gettò avanti con le mani nei capelli, esclamando:
«Che fate ancora? Che fate ancora?»
Un grido suonò dall’alto: «la miracolata!» La giovinetta che, posata sul giaciglio di Benedetto, si era sentita risanare, scendeva al braccio di una sorella maggiore, cercando Benedetto. Questi non badò al grido, al balenar della gente lassù, che si divideva per lasciar passare le due donne. Non valendo a far rialzare la gente, cadde ginocchioni egli pure. Allora coloro che gli stavano intorno si rialzarono, e giungendo ad essi il fremito commosso e le voci: «La miracolata! La miracolata!» fecero rialzare lui che pareva non avere udito. «La miracolata!» gli diceva ciascuno, «la miracolata!» cercando sul suo viso la compiacenza del miracolo con occhi che gridavano: «viene per voi, l’avete guarita voi!» come s’egli poco prima non avesse detto nulla.
La giovinetta scendeva, smorta e giallognola come la petrosa via battuta dal sole, triste nel visetto gentile inclinato al braccio della sorella. E la sorella pure era triste. La turba si divise davanti a loro e Benedetto si fece da parte, riparò dietro don Clemente con un involontario moto che parve deliberato. Tutti trepidavano e sorridevano come nell’attesa di un altro miracolo. Le due donne non s’ingannarono, passarono davanti a don Clemente senza neppur guardarlo, si volsero a Benedetto e la maggiore gli disse, sicura:
«Uomo santo di Dio, tu hai guarito questa, guarisci l’altro!»
Benedetto rispose quasi sotto voce, tutto fremente:
«Io non sono un uomo santo, io non ho guarito questa, per quest’altro che dite io potrò solamente pregare.»
Udito che l’altro era loro fratello, che stava nella sua capanna, sul suo letto e che soffriva molto, disse a don Clemente:
«Andiamo ad assisterlo.»
E si mosse con il suo Maestro. Dietro a loro si ricompose rumoreggiando il fiotto diviso della gente. Benedetto si voltò a proibire che lo seguissero, a comandare che le donne si prendessero invece cura di quella giovinetta, la quale non doveva risalir l’erta a piedi sotto la sferza del sole ardente. Comandò che la portassero all’osteria, la facessero porre a letto, la ristorassero con cibo e vino. Quelli che lo seguivano si fermarono, gli altri fecero ala per lasciarlo passare. Lo studente che prima aveva chiesto di parlare, lo accostò rispettosamente, gli domandò se più tardi egli e alcuni amici suoi avrebbero potuto trattenersi un poco, soli, con esso.
«Oh sì!» rispose Benedetto con un virile, caldo impeto di assenso. Noemi ch’era lì presso, si fece coraggio.
«Devo chiederle cinque minuti anch’io» diss’ella in francese, arrossendo; e subito le balenò di aver dato così a capire che lo conosceva persona colta, si fece tutta una vampa e ripetè la sua preghiera in italiano.
Don Clemente premette un poco, quasi senza volerlo, il braccio a Benedetto, che rispose garbato ma un po’ asciutto:
«Vuol far del bene? Si occupi di quella povera ragazza.»
E passò oltre.
Entrò nella sua stamberga, solo con Don Clemente. Nessuno lo aveva seguito. Una vecchia, la madre dell’ammalato, vedutolo entrare, gli si gettò piangendo ai piedi con le parole di sua figlia:
«Siete voi l’uomo santo? Siete voi? Una me ne avete guarita, guaritemi anche l’altro!»
Sulle prime Benedetto, entrando dal sole in quel buio, non discerneva niente. Poi vide steso sul letto l’uomo che respirava male, gemeva, piangeva, imprecava ai Santi, alle femmine, al paese di Jenne, al suo maledetto destino. Inginocchiata accanto a lui, Maria Selva gli tergeva con un fazzoletto il sudore della fronte. Nessun altro era nella caverna. Presso alla porta luminosa la grande croce scolpita per isghembo sulla parete giallastra di roccia diceva in quel momento una oscura parola solenne.
«Sperate in Dio» rispose Benedetto alla vecchia, dolcemente. E si accostò al letto, si piegò sull’infermo, gli prese il polso. La vecchia cessò di singhiozzare, l’infermo d’imprecare e di gemere. Si udì il ronzio delle mosche nel focolare chiaro.
«Avete chiamato il medico?» mormorò Benedetto.
La vecchia riprese a singhiozzare:
«Guaritelo voi, guaritelo voi, in nome di Gesù e Maria!»
L’infermo riprese a gemere. Maria Selva disse sotto voce a Benedetto:
«Il medico è a Subiaco. Il signor Selva, che Lei forse conosce, è andato alla farmacia. Io sono sua moglie.»
In quel punto rientrò Giovanni, ansante, afflitto. La farmacia era chiusa, il farmacista assente. L’arciprete gli aveva dato del marsala. Dei signori venuti da Roma con gran provvigioni gli avevano dato del cognac e del caffè. Benedetto chiamò a sè con un cenno don Clemente, gli disse all’orecchio che facesse venire l’arciprete; quell’uomo stava morendo. Avrebbe potuto andar egli a chiamarlo ma gli pareva duro per la povera madre di allontanarsi. Don Clemente uscì senza far motto. A pochi passi dalla casupola, la compagnia elegante venuta da Roma per curiosità del Santo di Jenne, tre signore e quattro signori, guidata da quel signore di Jenne che s’era incontrato con i Selva sulla costa, si stava consultando. Veduto il benedettino, si parlarono sottovoce rapidamente e uno di loro, un giovinotto elegantissimo, incastratasi nell’occhio la caramella, avanzò verso don Clemente che era guardato dalle signore con ammirazione, con rammarico che il Santo, come avevano udito dalla loro guida, non fosse lui.
Anche costoro desideravano un colloquio con Benedetto. Lo desideravano specialmente le signore. Il giovinotto soggiunse con un sorriso beffardo che quanto a sè non se ne credeva degno. Don Clemente gli rispose breve breve che per ora era impossibile di parlare a Benedetto; e tirò via. Colui riferì alle signore che il Santo stava nel tabernacolo chiuso a chiave.
Intanto Benedetto, supplicandolo sempre la madre desolata che non usasse medicine, che facesse il miracolo, confortava il giacente con qualche sorso dei cordiali portati da Giovanni Selva e più con parole, con lievi carezze, con la promessa di altre parole di salute che altri gli avrebbe portato. E la voce pia, tenera, grave, operò un miracolo di pace. L’infermo respirava male assai, gemeva ancora, ma non imprecava più. La madre, folle di speranza, mormorava a mani giunte, lagrimando:
«Il miracolo, il miracolo, il miracolo.»
«Caro» diceva Benedetto «sei in mano di Dio e la senti terribile. Abbandònati, la sentirai soave. Ti poserà da capo nel mare di questa vita, ti poserà nel cielo, ti poserà dove vorrà lei, abbandònati, non ci pensare. Quand’eri bambino la tua mamma ti portava, tu non domandavi nè il come nè il quando nè il perchè, tu eri nelle sue braccia, tu eri nel suo amore, tu non domandavi altro. Così anche ora, caro. Io che ti parlo ho fatto tanto male nella mia vita, forse un poco ne hai fatto anche tu, forse te ne ricordi. Piangi piangi così abbandonato sul seno del Padre che ti chiama, che ti vuole perdonare, che vuol dimenticare tutto. Ora verrà il sacerdote e tu glielo dirai, il male che forse hai fatto, così come ricordi, senza angoscia. E poi, sai chi verrà da te nel mistero? Sai che amore, caro, sai che pietà, sai che gioia, sai che vita?»
Lottando con le ombre della morte, figgendo in Benedetto gli occhi vitrei, lucenti di un desiderio intenso e del terrore di non poterlo esprimere, il povero giovine che aveva inteso male il discorso di Benedetto, credendo di doversi confessare a lui, cominciò a dire i suoi peccati. La madre che durante il discorso di Benedetto, buttatasi ginocchioni alla parete di roccia vi teneva le labbra sulla croce aspettando il compimento del miracolo, scattò, al suono strano di quella voce, in piedi, balzò al letto, comprese, gittò un grido disperato con le mani al cielo, mentre Benedetto, atterrito, esclamava: «no, caro, non a me, non a me!» Ma l’infermo non intese, gli cinse con un braccio il collo, lo raccolse a sè, continuò la sua confessione ambasciata, ripetendo Benedetto: «Dio mio! Dio mio!» nello sforzo di non udire, nè avendo cuore di strapparsi dal morente. Non udì infatti nè udire era facile, tanto rade, rotte e torbide venivano le parole. E non si vedeva arrivare l’arciprete, e don Clemente non ritornava! Passi e voci sommesse si udirono bene al di fuori, qualche testa curiosa comparve all’uscio, ma nessuno entrò. Le parole del morente si perdettero in un garbuglio di suoni fiochi, egli tacque.
«C’è gente fuori?» chiese Benedetto. «Qualcuno vada dall’arciprete, dica di far presto.»
Giovanni e Maria stavano attorno alla madre che, fuori di sè, trabalzava dal dolore alla collera. Dopo aver creduto al miracolo, non voleva credere che il suo figliuolo si fosse ridotto naturalmente a quegli estremi, ora singhiozzava per lui, ora imprecava alle medicine che gli aveva date Benedetto, per quanto i Selva le dicessero che non erano state medicine. Maria se l’era abbracciata e per confortarla e per trattenerla. Accennò a Giovanni che andasse lui dall’arciprete e Giovanni corse via. Gli occhi lucenti del moribondo supplicarono. Benedetto gli disse:
«Figlio mio, desideri Cristo?»
Il poveretto accennò di sì col capo e con un gemito inesprimibile. Benedetto lo baciò, lo ribaciò teneramente.
«Cristo mi dice che i tuoi peccati ti sono rimessi e che tu parta in pace.»
Gli occhi lucenti sfavillarono di gioia.
Benedetto chiamò la madre che dalle aperte braccia di Maria si precipitò sul figlio suo. Ecco entrare don Clemente trafelato, con Giovanni e l’arciprete.
Don Clemente aveva trovato in canonica un ecclesiastico non conosciuto da lui, alle prese coll’arciprete. A sentir costui, una turba fanatica voleva portare in Sant’Andrea la pretesa miracolata per un ringraziamento a Dio. Era dovere dell’arciprete impedire un tale scandalo. La guarigione della ragazza se non era impostura non era nemmanco realtà. Il preteso taumaturgo poi aveva predicato un sacco di eresie sui miracoli e sulla salute eterna, aveva parlato della fede come di una virtù naturale, aveva criticato Gesù che guariva gl’infermi. Adesso stava fabbricando un altro miracolo con un altro disgraziato. Bisognava finirla. Finirla? pensava il povero arciprete che sentiva già odore di Sant’Uffizio. Era presto detto «finirla». Ma come, finirla? La visita di don Clemente, che sopravvenne a questo punto del discorso, lo fece respirare. Adesso, pensò, mi aiuterà lui. Invece le cose volsero al peggio. Udito il triste messaggio di don Clemente, quel prete esclamò:
«Vede? Ecco i miracoli come finiscono! Ma Lei non deve entrare col Santo Viatico nella casa di quell’eretico s’egli prima non esce e non esce per non tornarci più!»
Don Clemente avvampò nel viso.
«Non è un eretico!» diss’egli. «È un uomo di Dio!»
«Lo dice Lei!» esclamò il prete.
«E Lei» proseguì volto all’arciprete «Lei ci pensi! Faccia come vuole, del resto; io non c’entro. A rivederla.»
Fatto un inchino a don Clemente, senza parole, scivolò fuori della camera.
«E adesso? E adesso?» gemette il povero arciprete recandosi le mani alle tempie. «Quello è un uomo terribile ma io non voglio mancare verso Domeneddio. Dimmi tu, dimmi tu!»
Aveva un santo timore di Dio, sì, l’arciprete, ma non era neppure senza un timore fra santo e umano di don Clemente, della coscienza severa che lo avrebbe giudicato. A don Clemente lampeggiò, nella stretta del momento, il partito da prendere.
«Disponi per il Viatico» diss’egli «e vieni subito con me a confessare quel povero giovane. Benedetto farà vedere se è un eretico o se è un uomo di Dio.»
La fantesca venne ad avvertire che un signore pregava il signor arciprete di far presto, presto, perchè quell’ammalato moriva.
Don Clemente, trafelato, entrò nella stamberga con Giovanni e l’arciprete. Chiamò Benedetto a sè, presso l’uscio e gli parlò sotto voce. L’ammalato rantolava. Benedetto ascoltò, a capo chino, le parole dolorose che gli chiedevano un atto di umiliazione santa, s’inginocchiò senza rispondere davanti alla croce scolpita da lui nella roccia, la baciò avidamente nell’incontro delle braccia tragiche a riaspirare in sè dal solco della pietra il segno del sacrificio, il suo amore, il suo bene, la sua forza, la sua vita; e, rialzatosi, uscì di là per sempre.
Il sole scompariva in un turbinoso fumo di nuvoli montanti a settentrione, dietro il villaggio. I luoghi che avevano poco prima brulicato di gente erano un livido deserto. Dalle svolte dei viottoli ghiaiosi, dietro gli usci socchiusi, dai canti dei casolari, donne spiavano. All’apparire di Benedetto si ritrassero tutte. Egli sentì che Jenne sapeva l’agonia dell’uomo venuto a lui per salute, che l’ora della potestà era venuta per i suoi avversari. Don Clemente, il Maestro, l’amico, gli aveva prima chiesto di deporre il suo abito e ora di uscire della sua casa, di uscire da Jenne. Con dolore e amore, ma glielo aveva chiesto. Fra l’amarezza e il digiuno, poichè non aveva potuto prendere la sua refezione meridiana di pane e fave, si sentì quasi venir meno, gli si oscurò la vista. Sedette sulla soglia ruinosa di una porticina chiusa, all’entrata della viuzza della Corte. Un lungo rombo di tuono suonò sul suo capo.
Poco a poco, nel riposo, si riebbe. Pensò all’uomo che moriva nel desiderio di Cristo e un’onda di dolcezza gli tornò nell’anima. Sentì rimorso di aver dimenticato per alcuni istanti quel gran dono del Signore, di avere disamata la croce appena bevutone vita e gioia. Si nascose il viso fra le mani e pianse silenziosamente. Un rumor lieve, in alto, d’imposte che si aprono; qualche cosa di molle gli batte sul capo. Si toglie trasalendo le mani dagli occhi; ai suoi piedi è una rosellina selvatica. Rabbrividì. Da parecchi giorni, o la sera rientrando nella sua spelonca o uscendone la mattina, ogni giorno aveva trovato fiori sulla soglia. Non li aveva tolti mai. Li poneva da banda, sopra un sasso, perchè non fossero calpestati; non altro. Neppure aveva mai cercato di sapere qual mano li recasse. Certo la rosellina selvatica era caduta dalla stessa mano. Non alzò il capo e comprese che pur non raccogliendo la rosellina nè accennando a raccoglierla, gli bisognava partire. Cercò levarsi, le gambe non lo reggevano ancora bene, tardò un momento a rimettersi in cammino. Il tuono rumoreggiava da capo, più forte, continuo. Una porticina si aperse, se ne porse una giovine vestita di nero, bionda, bianca come la cera, piena gli occhi azzurrini di sbigottimento e di lagrime. Benedetto non potè a meno di volgere il capo a lei. Riconobbe la maestra del Comune, che aveva veduto un momento in casa dell’arciprete, e già proseguiva senza salutarla quando ella gli gettò un gemito: «mi ascolti!» e, fatto un passo indietro nell’andito, cadde sulle ginocchia, gli stese le mani imploranti, ripiegando il capo sul petto.
Benedetto si fermò. Esitò un momento e poi disse, con gravità severa:
«Che vuole da me?»
Si era fatto quasi buio. I lampi abbagliavano, il fragore del tuono empiva la misera viuzza, impediva ai due di udirsi. Benedetto si accostò all’uscio.
«Mi hanno detto» rispose la giovine senz’alzare il viso e sostando agli scoppi del tuono «che Lei forse dovrà partire da Jenne. Una Sua parola mi ha dato la vita, la Sua partenza mi farà morire ancora. Mi ripeta quella parola, la dica per me, solo per me!»
«Quale parola?»
«Lei stava col signor arciprete, io ero nella stanza vicina colla fantesca e l’uscio aperto. Lei diceva che un uomo può negare Dio senza essere veramente ateo e senza meritare la morte eterna, quando nega quel Dio che gli è proposto in una forma ripugnante al suo intelletto ma poi ama la Verità, ama il Bene, ama gli uomini, pratica questi amori.»
Benedetto tacque. Lo aveva detto, sì, ma parlando a un prete e non sapendo di venire udito da persone forse non atte a comprenderlo. Ella sospettò la cagione di quel silenzio.
«Non si tratta di me» disse. «Io credo, sono cattolica. È per mio padre che ha vissuto così ed è morto così e… se sapesse!… hanno persuaso anche mia madre ch’egli non ha potuto salvarsi!»
Mentr’ella parlava, rade gocce, grosse, cominciarono a battere, fra i lampi e i tuoni, sulla via, macchiarono la polvere di grandi macchie, scrosciarono col vento, sferzando i muri; ma nè Benedetto riparò dentro l’uscio nè lei gliene fece invito, e questa fu da parte di lei la confessione sola del sentimento profondo che si copriva di misticismo e di pietà filiale.
«Mi dica, mi dica» implorò, alzando finalmente il viso «che mio padre è salvo, che lo ritroverò in Paradiso!»
Benedetto rispose:
«Preghi.»
«Dio! Solo questo?»
«Si prega forse per il perdono di chi non può essere perdonato? Preghi.»
«Oh, grazie! Lei è sofferente?»
Queste ultime parole furono sussurrate così piano che Benedetto potè non udirle. Fece un gesto di addio e si allontanò fra le ondate di pioggia che flagellavano e urtavano via per il fango la morta rosellina selvatica.
Forse da una finestra, forse dalla porta dell’osteria, Noemi, che vi stava con la ragazza di Arcinazzo, lo vide passare. Si fece dare un ombrello dall’oste e lo seguì sfidando la violenza del vento e della pioggia.
Lo seguì, soffrendo di vederlo a capo scoperto e senza ombrello, pensando che se non fosse stato un Santo, lo si sarebbe detto un pazzo. Uscita sulla piazza della chiesa, vide socchiudersi un uscio a mano diritta, un prete lungo e magro guardare dall’interno. Credette che il prete avrebbe invitato Benedetto a entrare, ma invece il prete, quando Benedetto gli fu vicino, chiuse l’uscio rumorosamente, con grande sdegno di lei. Benedetto entrò in Sant’Andrea ed ella pure vi entrò. Quegli andò a inginocchiarsi davanti all’altar maggiore, ella si tenne presso la porta. Il sagrestano, che sonnecchiava seduto sui gradini di un altare, uditi i loro passi, si alzò, mosse verso Benedetto. Ma egli era del partito dei preti romani e, riconosciuto l’eretico, ritornò indietro, domandò alla signorina forestiera se potesse dirgli niente di quel giovine ammalato di Arcinazzo ch’era stato portato in chiesa la mattina, quando il sagrestano ci aveva veduta anche lei. E soggiunse che ne domandava perchè aveva l’ordine di aspettare l’arciprete che sarebbe venuto per portargli il Viatico. Noemi sapeva che l’uomo di Arcinazzo era moribondo ma non più di così.
«Ho capito» disse il sagrestano, forte, con intenzione. «Non vorrà saperne di Cristo. Questi sono i belli miracoli! Sia benedetto Iddio per i tuoni e i fulmini che altrimenti ci portavan qui la ragazza!»
E ritornò a sedere, a sonnecchiare sul suo gradino.
Noemi non sapeva levare gli occhi da Benedetto. Non era un proprio e vero fascino nè il sentimento appassionato della giovine maestra. Lo vide vacillare, poggiar le mani ai gradini e poi voltarsi, stentatamente, a sedere, nè si domandò se soffrisse. Guardava lui ma più assorta in sè che in lui, assorta in un mutamento progressivo del proprio interno che la veniva facendo diversa, non riconoscibile a se stessa, in un senso ancora confuso e cieco di una verità immensa che le si venisse comunicando per vie misteriose, che le torcesse con sofferenza intime fibre del cuore. I ragionamenti religiosi di suo cognato potevano averle turbata la mente; il cuore non glielo avevano toccato mai. E ora perchè? Come? Cos’aveva detto, infine, quell’uomo macilento? Oh ma lo sguardo, ma la voce, ma… Che altro? Qualche altra cosa, impossibile a comprendere. Un presentimento, forse. Quale? Ma! Chi sa? Un presentimento di qualche futuro legame fra quell’uomo e lei. Lo aveva seguito, era entrata in chiesa per non perdere l’occasione di parlargli e adesso ne aveva quasi paura. Parlargli di Jeanne, poi anche. Jeanne, lo aveva ella compreso? Come mai aveva potuto Jeanne, amandolo, resistere alla corrente di pensiero superiore ch’era in lui, che forse a quel tempo sarà stata latente ma che una Jeanne doveva pur sentire? Cos’aveva ella amato? L’uomo inferiore? Se gli parlasse, non gli parlerebbe solamente di Jeanne, gli parlerebbe di religione, pure. Gli domanderebbe quale fosse la sua, proprio. E poi, s’egli le rispondesse una cosa sciocca, una cosa volgare? Per questo aveva quasi paura di parlargli.
Una folata di pioggia battè dalle invetriate rotte di una finestra sul pavimento. Noemi pensò che mai più non avrebbe dimenticato quell’ora, quella grande chiesa vuota, quell’oscuro cielo, quel colpo di pioggia entrato come un colpo di pianto, il naufrago del mondo assorto sui gradini dell’altare maggiore, Dio sa in quali sublimi pensieri, e neppure il sagrestano suo nemico, postosi a dormire sui gradini di un altro altare con la famigliarità noncurante di un collega di Domeneddio. Passò molto tempo, forse un’ora, forse più. La chiesa si venne rischiarando, parve che smettesse di piovere. Suonarono le quattro. Entrò in chiesa don Clemente e dietro a lui entrarono Maria e Giovanni, contenti di trovar Noemi, della quale non sapevano che fosse avvenuto. Si mosse anche il sagrestano che conosceva il padre.
«Dunque? Il Viatico?»
Il Viatico? L’uomo, pur troppo, era morto. Al Viatico si era pensato troppo tardi. Il padre domandò di Benedetto e Noemi glielo indicò. Parlarono del colloquio che Noemi desiderava. Don Clemente arrossì, esitò, ma poi non seppe come rifiutarsi a chiederlo e raggiunse Benedetto.
Mentre i due discorrevano insieme, Giovanni e Maria ragguagliarono Noemi di quel ch’era accaduto. Entrato l’arciprete, l’infermo non aveva parlato più. Non era stato possibile di confessarlo. Intanto era scoppiato il temporale con tale veemenza, tali torrenti strepitavano intorno alla capanna che l’arciprete non aveva potuto uscirne per andar a prendere l’olio santo. Si credeva che l’ammalato durasse qualche ora; invece, alle tre, era morto. Don Clemente e l’arciprete erano usciti appena lo avevano permesso i torrenti. Giovanni e Maria erano rimasti colla madre, che pareva impazzita, fino all’arrivo della sorella maggiore del morto. Allora erano partiti, anche per venire in cerca di Noemi. Non l’avevano trovata all’osteria, si erano diretti alla chiesa. Avevano incontrato sulla piazza il padre che usciva da una casa civile. Non sapevano che ci fosse andato a fare. Maria parlò con entusiasmo di Benedetto, de’ suoi conforti spirituali al moribondo. Era sdegnatissima, come suo marito, della guerra fattagli da gente che adesso aveva buon giuoco a voltargli contro tutto il paese. Biasimavano la debolezza dell’arciprete e non erano contenti neppure di don Clemente. Don Clemente non avrebbe dovuto prestarsi alla cacciata del suo discepolo! Perchè gli aveva detto lui di andarsene, quando era venuto l’arciprete. Il suo primo torto era stato di portare il messaggio dell’Abate. Noemi non sapeva di questo messaggio. Udito che si voleva spogliare Benedetto della sua tonaca, scattò: Benedetto non doveva obbedire!
Intanto Benedetto e il padre mossero verso la porta. Benedetto si tenne in disparte; il padre venne a dire ai Selva e a Noemi che, parecchia gente volendo parlare a Benedetto, egli aveva combinato un ritrovo comune presso un signore del paese. Doveva ora precederli, con Benedetto, colà. Sarebbe venuto a riprenderli in chiesa fra pochi minuti.
Il signore era quel tale che i Selva avevano incontrato sulla costa di Jenne dove stava in attesa della duchessa di Civitella. La duchessa era poi arrivata con altre due dame e con alcuni cavalieri fra i quali un giornalista, il giovinotto elegantissimo dalla caramella. Il signore di Jenne non capiva più nella pelle, si sentiva per quel giorno in corpo uno spirito ducale di bontà e di magnificenza. Perciò don Clemente, consigliato dall’arciprete di rivolgersi a lui, ne aveva facilmente ottenuto la promessa, per Benedetto, di un vecchio abito nero da mattina, di una cravatta nera, di un cappello nero a cencio.
Quando, nella camera dov’erano preparate le vesti laicali, il discepolo, svestita la tonaca, prese, tacendo sempre, a indossarle, il Maestro, che stava alla finestra, non potè trattenere un singhiozzo. Pochi momenti dopo Benedetto lo chiamò dolcemente.
«Padre mio» diss’egli. «Mi guardi.»
Vestito dei nuovi panni, troppo lunghi e larghi, egli sorrideva, mostrando pace. Il padre gli afferrò una mano per baciargliela; ma Benedetto, ritratta con impeto la mano, allargò le braccia, si strinse al petto lui che parve allora il minore, il figliuolo, il penitente ministro di tristi prepotenze umane che sul palpito divino di quel petto si sciogliessero in polvere, cenere e niente. Stettero così abbracciati lungamente senza dir parola.
«L’ho fatto per te» mormorò alfine don Clemente. «Ti ho portato io il messaggio ignominioso per vedere la grazia del Signore risplendere in questo tuo abito vile più che nella tonaca.»
Benedetto lo interruppe.
«No no» diss’egli «non mi tenti, non mi tenti! Ringraziamo Iddio, invece, che appunto mi castiga per quel compiacimento presuntuoso che ho avuto a Santa Scolastica quando Lei mi ha offerto l’abito benedettino e io ho pensato che nella mia visione mi ero visto morire con quell’abito. Il mio cuore si alzò allora come dicendosi: «sono veramente prediletto da Dio!» E adesso…
«Oh ma..!» esclamò il padre e subito tacque, tutto una fiamma nel viso. Benedetto credette intendere che avesse pensato: «non è detto che tu non lo riprenda, l’abito che hai spogliato! non è detto che la visione non si avveri!» e che poi non avesse voluto dire il suo pensiero, sia per prudenza, sia per non alludere alla sua morte. Sorrise, lo abbracciò. Il padre si affrettò a parlare d’altro, scusò l’arciprete ch’era dolente di quanto accadeva, che non avrebbe voluto allontanare Benedetto ma temeva i Superiori. Non era un don Abbondio, non temeva per sè, temeva lo scandalo di un conflitto con l’Autorità.
«Io gli perdono» disse Benedetto «e prego Dio che gli perdoni, ma questo difetto di coraggio morale è una piaga della Chiesa. Piuttosto che mettersi in conflitto con i Superiori ci si mette in conflitto con Dio. E si crede di sfuggire a questo sostituendo alla propria coscienza, dove Dio parla, la coscienza dei Superiori. E non s’intende che operando contro il Bene o astenendosi da operare contro il Male per obbedire ai Superiori si è di scandalo al mondo, si macchia davanti al mondo il carattere cristiano. Non s’intende che il debito verso Dio e il debito verso i Superiori si possono compiere insieme non operando mai contro il Bene, non astenendosi mai da operare contro il Male, ma senza giudicare i Superiori, ma obbedendo loro con perfetta obbedienza in tutto che non è contro il Bene o a favore del Male, deponendo ai loro piedi la propria vita stessa, solo non la coscienza; la coscienza, mai! Allora questo inferiore spogliato di tutto fuorchè della sua coscienza e della sua obbedienza giusta, questo inferiore è un puro grano del sale della terra e dove molti di questi grani si trovino uniti, ciò cui essi aderiscono resterà incorrotto e ciò cui non aderiscono cadrà imputridito!»
A misura che parlava, Benedetto si veniva trasfigurando. Nel pronunciare le ultime parole sorse in piedi. Gli occhi avevano lampi, la fronte un chiarore augusto dello spirito di Verità. Posò le mani sulle spalle di don Clemente.
«Maestro mio» diss’egli raddolcendosi nel viso «io lascio il tetto, il pane e l’abito che mi furono offerti, ma non lascerò di parlare di Cristo Verità fino a che avrò vita. Me ne vado ma non per tacere. Si ricorda di avermi fatto leggere la lettera di S. Pier Damiano a quel laico che predicava? E quello là predicava in chiesa! Io non predicherò in chiesa ma se Cristo vuole che io parli nei tugurii, nei tugurii parlerò; se vuole che io parli nei palazzi, nei palazzi parlerò; se vuole che io parli nei cubicoli, parlerò nei cubicoli; se vuole che io parli sui tetti, parlerò sui tetti. Pensi all’uomo che operava nel nome di Cristo e ne fu proibito dai discepoli. Cristo ha detto: lasciatelo fare. È da obbedire ai discepoli o è da obbedire a Cristo?»
«Per l’uomo del Vangelo sta bene, caro» rispose don Clemente «ma ora sulla volontà di Cristo ci si può anche ingannare, bada.»
Il cuore di don Clemente non parlava propriamente così; ma le parole imprudenti, indisciplinate del cuore non furon lasciate passare alle labbra.
«Del resto, padre mio» riprese Benedetto «lo creda, io non sono bandito per avere evangelizzato il popolo. Vi sono due cose ch’Ella deve sapere. La prima è questa: mi è stato proposto, qui a Jenne, da qualcuno che mi parlò quella volta e poi non vidi più, di abbracciare la carriera ecclesiastica per diventare missionario. Risposi che non mi sentivo chiamato. La seconda è questa. Nei primi giorni dopo la mia venuta a Jenne, discorrendo di religione con l’arciprete, gli parlai della vitalità eterna della dottrina cattolica, del potere che ha l’anima della dottrina cattolica di trasformare continuamente il proprio corpo, accrescendone senza limiti la forza e la bellezza. Lei sa, padre mio, da chi mi sono venute queste idee per mezzo di Lei. L’arciprete deve avere riferito il mio discorso, che gli era piaciuto. Il giorno dopo mi domandò se a Subiaco avessi conosciuto Selva, se avessi letto i suoi libri. Mi disse ch’egli non li aveva letti ma sapeva ch’erano da fuggire. Padre mio, Ella comprende. È per causa del signor Selva e dell’amicizia di Lei col signor Selva che io parto da Jenne così. Non La ho mai tanto amata quanto adesso, non so dove andrò ma dovunque il Signore mi mandi, vicino o lontano, non mi abbandoni nell’anima Sua!»
Così dicendo con un tumulto, nella voce, di dolore e di amore, Benedetto si gettò un’altra volta nelle braccia del Maestro che, straziato egli pure da una tempesta di sentimenti diversi, non sapeva se domandargli perdono o promettergli gloria, la vera; e solamente potè dirgli, ansando:
«Anch’io, tu non sai! ho bisogno di non essere abbandonato dall’anima tua.»
Don Clemente raccolse in un fardello, maneggiandolo con mani guardinghe, riverenti, l’abito deposto dal discepolo. Raccolto che l’ebbe, disse a Benedetto che non poteva offrirgli l’ospitalità di Santa Scolastica, che aveva avuto in animo di pregare i signori Selva, ma che ora gli sorgeva il dubbio se a Benedetto fosse opportuno, nell’interesse del suo stesso apostolato, mettersi così pubblicamente sotto la protezione del signor Giovanni.
Benedetto sorrise.
«Oh, questo no!» diss’egli. «Temeremo noi le tenebre più che non ameremo la luce? Ma ho bisogno di pregare il Signore che mi faccia conoscere, se possibile, la Sua volontà. Forse vorrà questo, forse altro. E adesso vorrebbe farmi portare un po’ di cibo e di vino? Poi mi mandi chi mi vuole parlare.»
Don Clemente si meravigliò, nel suo interno, che Benedetto gli domandasse del vino ma non ne fece mostra. Disse che gli avrebbe mandata pure quella signorina che stava con i Selva. Benedetto lo interrogò cogli occhi, ricordando che quando la signorina, poi riveduta in chiesa, gli aveva chiesto un colloquio, don Clemente gli aveva stretto il braccio come per ammonirlo tacitamente di stare in guardia. Don Clemente, arrossendo molto, si spiegò. Aveva veduta la signorina a Santa Scolastica insieme a un’altra persona. Quel moto era stato involontario. L’altra persona era lontana.
«Non ci rivedremo» diss’egli «perchè appena ti avrò mandato il cibo e avrò avvertite queste persone, dovrò partire per Santa Scolastica.»
Benedetto, parlando di andare a Subiaco o altrove, aveva detto «forse questo, forse altro» con un accento così pregno di sottintesi, che don Clemente, nel congedarsi, gli sussurrò:
«Pensi a Roma?»
Invece di rispondere, Benedetto gli prese dolcemente di mano il fardello dov’era la povera tonaca concessa e ritolta, se l’accostò, non senza un tremito delle mani, alle labbra, ve le impresse, ve le tenne lungamente.
Era il rimpianto dei giorni di pace, di lavoro, di preghiera, di parola evangelica? Era l’attesa di un’ora lucente nell’avvenire?
Rese il fardello al Maestro.
«Addio» diss’egli.
Don Clemente uscì a precipizio.
La stanza offerta dal padrone di casa per le udienze di Benedetto aveva un grande canapè, un tavolino quadrato coperto di un panno giallo a fiorami azzurri, delle sedie sgangherate, delle poltrone che mostravano la stoppa per gli squarci del vecchio cuoio stinto, due ritratti di avoli parrucconi dalle cornici annerite, due finestre, una quasi accecata da una muraglia greggia, l’altra aperta sui prati, sulla faccia di un bel monte pensoso, sul cielo. Benedetto, prima di ricevere visitatori, vi si affacciò per un addio ai prati, al monte, al povero paese. Preso da spossatezza, si appoggiò al davanzale. Era una spossatezza dolce dolce. Non si sentiva quasi più il peso del corpo e il cuore gli si ammolliva di beatitudine mistica. Poco a poco, perdendo i suoi pensieri oggetto e forma, il senso della quieta innocente vita esterna, delle stille che gocciavano dai tetti, dell’aria odorata di montagna, lievemente, occultamente mossa ora in questa ora in quella parte, lo intenerì. Gli rinacquero nella memoria ore lontane della sua giovinezza prima, quando non aveva moglie nè pensava al matrimonio, la fine di un temporale nell’alta Valsolda, sui dorsi del Pian Biscagno. Quanto diversa la sua sorte se i suoi genitori avessero vissuto trenta, vent’anni di più! Almeno uno di essi! Si vide nel pensiero la lapide del camposanto di Oria:
a Franco
in Dio
la sua Luisa
e gli occhi gli si gonfiarono di pianto. Venne allora una reazione violenta della volontà contro questi languori molli del sentimento, questa tentazione di debolezza.
«No no no» mormorò egli, udibilmente. Una voce, alle sue spalle, rispose:
«Non ci vuole ascoltare?»
Benedetto si voltò, sorpreso. Tre giovani stavano davanti a lui. Egli non li aveva uditi entrare. Quello di essi che pareva il maggiore, un bel ragazzo, basso di statura, bruno, dagli occhi esperti di molte cose, gli chiese arditamente perchè avesse spogliato l’abito clericale. Benedetto non rispose.
«Non lo vuol dire?» fece colui. «Non importa, senta. Noi siamo studenti dell’Università di Roma, gente di poca fede, glielo dico schietto e subito. E ci godiamo la nostra giovinezza, più o meno; glielo dico subito anche questo.»
Uno dei compagni tirò l’oratore per la falda dell’abito.
«Sta zitto!» disse il primo. «Sì, uno di noi crede poco ai Santi ma è un purissimo. Quello però non è qui davanti a Lei, come non vi sono altri che stanno giuocando all’osteria. Il Purissimo non ha voluto venire con noi. Dice che troverà modo di parlarle da solo a solo. Noi siamo quello che Le ho detto. Siamo venuti da Roma per fare una gita e per vedere un miracolo, s’era possibile; insomma per stare allegri.»
I compagni lo interruppero, protestando.
«Ma sì!» ribattè lui. «Per stare allegri! Scusi, io sono più sincero. Infatti mancò poco che la nostra allegria ci costasse cara. Si scherzò e ci volevano accoppare, capisce; a Suo onore e gloria. Ma poi s’è udito il discorsino ch’Ella fece a quella turba fanatica. Per il demonio, si disse, questo è un linguaggio che ha del novo in una bocca pretina o semipretina, questo è un Santo che ci va meglio degli altri, scusi la confidenza. E ci si accordò subito di chiederle un colloquio. Perchè poi, se siamo un poco scettici e gaudenti, siamo anche un poco intellettuali e certe verità religiose c’interessano. Io, per esempio, sono forse per diventare un neo buddista.»
I suoi compagni risero ed egli si voltò ad essi adirato.
«Sì, non sarò buddista nella pratica ma il Buddismo m’interessa più del Cristianesimo!»
Qui successe un battibecco fra i tre per quest’uscita poco opportuna; e un secondo oratore, lungo, sottile, in occhiali, prese il posto del primo. Costui parlava nervoso, con frequenti scatti del capo e degli avambracci rigidi. Il suo discorso fu questo. I suoi compagni e lui avevano discusso più volte intorno alla vitalità del Cattolicismo. Tutti ammettevano che fosse esausta e che la morte seguirebbe presto se non intervenisse una riforma radicale. Alla possibilità di questa riforma chi credeva e chi non credeva. Desideravano conoscere l’opinione di un cattolico intelligente e moderno nello spirito come si era rivelato Benedetto. Avevano molte domande a fargli.
Qui il terzo ambasciatore della compagnia studentesca giudicò venuto il suo momento e scaraventò addosso a Benedetto una tempesta disordinata di quesiti.
Sarebb’egli stato disposto a farsi propugnatore di una riforma della Chiesa? Credeva nell’infallibilità del Papa e del Concilio? Approvava il culto di Maria e dei Santi nella sua forma presente? Era democratico cristiano? Quale concetto aveva di una riforma desiderabile? Avevano veduto a Jenne Giovanni Selva. Benedetto, conosceva i suoi libri? Approvava le sue idee? Gli piaceva che fosse proibito ai cardinali di uscire a piedi e ai preti di andare in bicicletta? Cosa pensava della Bibbia e dell’ispirazione?
Prima di rispondere, Benedetto guardò a lungo, severo in viso, il suo giovine interlocutore.
«Un medico» diss’egli finalmente «aveva fama di saper guarire tutte le malattie. Qualcuno che non credeva nella medicina andò da lui per curiosità, per interrogarlo sull’arte sua, sugli studî, sulle opinioni. Il medico lo lasciò parlare lungamente e poi gli prese il polso, così.»
Benedetto prese il polso del primo che gli aveva parlato e proseguì:
«Glielo prese, glielo tenne un momento in silenzio, poi gli disse: — Amico, voi soffrite di cuore. Io ve l’ho letto in viso e ora sento battere il martello del falegname che vi lavora la bara.»
Il giovine dal polso prigioniero non potè a meno di batter le ciglia.
«Non parlo per Lei» disse Benedetto. «Parla quel medico a quel tale che non crede nella medicina. E continua: — Venite voi a me per avere vita e salute? Io vi darò l’una e l’altra. Non venite per questo? Io non ho tempo per voi. — Allora colui, che si era sempre creduto sano, allibbì e disse: — Maestro, eccomi nelle vostre mani, fate che io viva.»
I tre rimasero per un momento sbalorditi. Quando accennarono a riaversi e a replicare, Benedetto riprese:
«Se tre ciechi mi domandano la mia lampada di verità, cosa risponderò io? Risponderò: andate prima e preparate gli occhi vostri ad essa perchè se io ve la dessi nelle mani ora, voi non ne avreste alcun lume, voi non potreste che guastarla.»
«Non vorrei» disse lo studente lungo, smilzo e occhialuto «che per vedere questa Sua lampada di verità si dovessero chiudere le finestre alla luce del sole. Ma insomma capisco ch’Ella non voglia spiegarsi con noi, che ci prenda per dei reporters. Oggi noi non abbiamo o almeno io non ho le disposizioni che Lei desidera. Sarò un cieco ma non mi sento di domandar la luce al Papa e nemmeno a un Lutero. Però, se Lei viene a Roma, troverà dei giovani disposti meglio di me, meglio di noi. Venga, parli, permetta anche a noi di udirla. Oggi abbiamo la curiosità, domani, chi sa? potremo avere il desiderio buono. Venga a Roma.»
«Mi dia il Suo nome» disse Benedetto.
Colui gli porse una carta da visita. Si chiamava Elia Viterbo. Benedetto lo guardò, curioso.
«Sì signore» diss’egli «sono israelita, ma questi due battezzati non sono più cristiani di me. Del resto io non ho nessun pregiudizio religioso.»
Il colloquio era finito. Nell’uscire, il più giovane dei tre, quello dalla gragnuola di domande, tentò un ultimo assalto.
«Ci dica almeno se i cattolici, secondo Lei, dovrebbero andare alle urne politiche?»
Benedetto tacque. L’altro insistette:
«Non vuol rispondere neppure a questo?»
Benedetto sorrise.
«Non expedit» diss’egli.
Passi nell’anticamera; due colpettini leggeri all’uscio; entrano i Selva con Noemi. Maria Selva entra prima e vedendo Benedetto così vestito, non può trattenere un movimento di sdegno, di compianto e di riso; arrossisce, vorrebbe dire una parola di protesta, non la trova. A Noemi vengono le lagrime agli occhi. Tutti e quattro tacciono per un momento e si comprendono. Poi Giovanni mormora:
«Non fu dal vel del cuor giammai disciolto»
e stringe la mano all’uomo che nei suoi goffi abiti gli pare augusto.
«Sì ma Lei non deve portare questa roba!» esclamò Maria, meno mistica di suo marito.
Benedetto fece un gesto come per dire «non parliamo di ciò!» e guardava il maestro del suo Maestro con occhi desiderosi e riverenti.
«Sa» diss’egli «quanto Vero e quanto Bene mi sono venuti da Lei?»
Giovanni non sapeva di avere tanto influito su quell’uomo attraverso don Clemente. Suppose che avesse letto i suoi libri. Ne fu commosso e ringraziò nel suo cuore Iddio che gli faceva sentire con dolcezza un po’ di effettivo bene operato in un’anima.
«Quanto sarei stato felice» ripigliò Benedetto «di lavorare nel Suo orto per vederla qualche volta, per udirla parlare!»
Noemi, all’udir ricordare quella sera, si lasciò sfuggire una esclamazione sommessa piena di memorie che non si potevano dire. Giovanni ne prese occasione per offrire a Benedetto l’ospitalità, poichè don Clemente gli aveva detto che intendeva lasciare Jenne la sera stessa. Potremmo partire insieme, quando piacesse a lui, dopo il colloquio ch’egli avrebbe concesso a sua cognata. Noemi, pallida, fissò Benedetto per la prima volta, aspettando la sua risposta.
«La ringrazio» diss’egli, dopo avere pensato un poco. «Se busserò alla Sua porta Ella mi aprirà. Ora non Le posso dire altro.»
Giovanni fece atto di ritirarsi con sua moglie. Benedetto li pregò di restare. Certo la signorina non aveva segreti per loro; almeno per sua sorella se non per il cognato. Anche questo coperto invito a Maria cadde perchè Noemi osservò, imbarazzata, che non si trattava di segreti suoi. I Selva si ritirarono.
Benedetto rimase in piedi e non disse a Noemi di sedere. Egli sapeva di avere a fronte l’amica di Jeanne, presentiva il discorso che verrebbe, un messaggio di Jeanne.
«Signorina» diss’egli.
Il modo non fu scortese ma significò chiaramente: «quanto più presto, tanto meglio.»
Noemi intese. Qualunque altro l’avrebbe offesa. Benedetto, no. Con lui si sentiva umile.
«Ho l’incarico» diss’ella «di domandarle se sa niente di una persona ch’Ella deve avere conosciuto molto. Anche molto amato, credo. Il nome, io non so se lo pronuncio bene perchè non sono italiana, è don Giuseppe Flores.»
Benedetto trasalì. Non si aspettava questo.
«No» esclamò ansioso. «Non so niente!»
Noemi lo guardò un momento in silenzio. Avrebbe voluto, prima di parlare, domandargli perdono del dolore che gli avrebbe recato. Disse a bassa voce, mestamente:
«Mi è stato scritto di apprenderle che non è più di questa vita.»
Benedetto piegò il viso, se lo nascose fra le mani. Don Giuseppe, caro don Giuseppe, cara grande anima pura, cara fronte luminosa, cari occhi pieni di Dio, cara voce buona! Pianse dolcemente due lagrime, due sole lagrime che Noemi non vide, si udì dentro la voce di don Giuseppe che gli diceva: non senti che sono qui, che sono con te, che sono nel tuo cuore?
Noemi, dopo un lungo silenzio, mormorò:
«Mi perdoni. Vorrei non averle dovuto recare un dolore così grande.»
Benedetto si scoperse il viso.
«Dolore e non dolore» diss’egli.
Noemi tacque, riverente. Benedetto le domandò se sapesse quando quella persona fosse morta.
Verso la fine di aprile, credeva Noemi. Ella era allora fuori d’Italia. Era nel Belgio, a Bruges, con un’amica sua alla quale era stata scritta la notizia. Per quanto ne aveva udito dall’amica, quella persona, Noemi non ne ripetè il nome per un delicato riguardo, aveva fatto una morte santa. Le sue carte, ella era incaricata di riferire anche questo, erano state affidate al Vescovo della città. Benedetto fece un gesto di approvazione che poteva servire anche per chiusa del colloquio. Noemi non si mosse.
«Non ho ancora finito» diss’ella.
E soggiunse subito:
«Ho un’amica cattolica… io non sono cattolica, sono protestante… che ha perduta la fede in Dio. Le hanno consigliato di dedicarsi a opere di carità. Vive con un fratello contrarissimo a qualunque religione. Questa novità che sua sorella si occupi di beneficenza, che si metta in relazione con gente dedita alle opere buone per principio religioso, gli è spiacente. Adesso è ammalato, s’irrita, si esalta, inveisce contro le bigotte del Bene, non vuole che sua sorella si occupi di visitare poveri, nè di proteggere ragazze, nè di raccogliere bambini abbandonati. Dice che tutto questo è clericalismo, è utopia, che il mondo va come vuole andare, che si deve lasciarlo andare e che con questo mescolarsi alle classi inferiori non si fa che metter loro in testa delle idee false e pericolose. Ora è stato detto alla mia amica che deve o mentire a suo fratello facendo di nascosto ciò che prima faceva in palese, o separarsi da lui. Essa ha tanto bisogno di un consiglio sicuro! Mi scrive di domandarlo a Lei. Ha letto nei giornali ch’Ella consiglia qui tanta gente di queste montagne, spera che non rifiuterà.»
«Poichè suo fratello» rispose Benedetto «è ammalato di corpo e anche di spirito, non le si offre il Bene nella sua casa stessa? Diventerà una cattiva sorella per arrivare a conoscere Iddio? Interrompa le sue opere, si dedichi a suo fratello, lo curi come del male del corpo così del male dello spirito, con tutto l’amore che…»
Stava per dire «che gli porta» si corresse per non ammettere così espressamente che conosceva la persona, «… con tutto l’amore di cui è capace, gli si faccia preziosa, lo vinca poco a poco, senza prediche, solo colla bontà. Farà tanto bene anche a lei di cercar d’incarnare in sè la bontà stessa, la bontà attiva, instancabile, paziente e prudente. E lo vincerà, lo persuaderà, poco a poco, senza discorsi, che tutto quello che fa lei è ben fatto. Allora potrà riprendere le sue opere e le potrà riprendere anche da sola. E vi riuscirà meglio. Adesso le fa per un consiglio avuto, forse non vi riesce tanto bene. Allora le farà per quest’abitudine del Bene acquistata con suo fratello, vi riuscirà meglio.»
«Grazie» disse Noemi. «Grazie per l’amica mia e anche per me, perchè mi piace tanto questo che ha detto. E posso io ripetere i suoi consigli, il Suo incoraggiamento in Suo nome?»
La domanda pareva superflua poichè incoraggiamento e consigli erano chiesti proprio a Benedetto, proprio per incarico dell’amica. Ma Benedetto si turbò. Era un esplicito messaggio che Noemi gli chiedeva per Jeanne.
«Chi son io?» diss’egli. «Che autorità posso avere? Le dica che pregherò.»
Noemi tremò nel suo interno. Sarebbe stato tanto facile, ora, parlargli di religione! E non osava. Ah perdere una occasione simile! No, bisognava parlare ma non poteva mica pensare per un quarto d’ora a quello che direbbe. Disse la prima cosa che le venne in mente.
«Scusi, poichè dice di pregare; vorrei tanto sapere se Lei proprio le approva tutte, le idee religiose di mio cognato?»
Appena proferita la domanda, le parve tanto impertinente, tanto goffa, da vergognarne. E si affrettò a soggiungere sentendo di dir cosa ancora più sciocca e dicendola irresistibilmente:
«Perchè mio cognato è cattolico, io sono protestante e vorrei regolarmi.»
«Signorina» rispose Benedetto «verrà giorno in cui tutti adoreranno il Padre in ispirito e verità, sulle cime; oggi è ancora il tempo di adorarlo nelle ombre e nelle figure, in fondo alle valli. Molti possono salire, quale più, quale meno, verso lo spirito e la verità; molti non possono. Vi hanno piante che oltre una certa zona non fruttificano e, portate ancora più su, muoiono. Sarebbe follia di toglierle al loro clima. Io non La conosco, non posso dirle se le idee religiose di suo cognato possano, portate in Lei così, senza preparazione, dare un frutto buono. Le dico però di studiare molto molto il cattolicismo con l’aiuto di suo cognato, perchè non vi è un solo protestante convinto che lo conosca bene.»
«Lei non verrà a Subiaco?» chiese Noemi timidamente.
Qualche nascosta malinconia salì nella sua voce che fece salir nel cuore a Benedetto un senso di dolore dolce, tosto fatto sgomento, tanto era nuovo.
«No» diss’egli «non credo.»
Noemi volle e non volle dire che n’era dolente, pronunciò alcune parole confuse.
Si udì gente nell’anticamera. Noemi piegò il viso, Benedetto pure; e il colloquio si sciolse senz’altro saluto.
Anche la duchessa volle parlare a Benedetto. Portò con sè compagni e compagne. Non più giovine ma galante ancora, mezzo superstiziosa e mezzo scettica, egoista e non senza cuore, voleva bene alla figliuola tisica di un suo vecchio cocchiere. Udito parlare del Santo di Jenne e de’ suoi miracoli, aveva combinata la gita, un po’ per divertimento, un po’ per curiosità, per vedere se fosse il caso di far venire il Santo a Roma o di mandargli la ragazza. Cugina di un cardinale, aveva conosciuto presso di lui uno dei preti che villeggiavano a Jenne. Ora colui, incontratala, le aveva già parlato a modo suo del Santo e annunciato il crollo della sua riputazione. Però siccome la duchessa non si fidava di nessun prete ed era curiosa di conoscere un uomo cui si attribuiva un passato romanzesco, e la stessa curiosità avevano i suoi compagni, una compagna in particolare, si risolse di avvicinarlo a ogni modo.
Era venuta con lei una vecchia nobildonna inglese, famosa per la sua ricchezza, per le sue toilettes bizzarre, per il suo misticismo teosofico e cristiano, innamorata metafisicamente del Papa e anche della duchessa che ne rideva con i suoi amici. I quali amici, nel vedere Benedetto in quell’arnese, si scambiarono occhiate e sorrisi che per poco non diventarono sghignazzamenti quando la vecchia inglese, prevenendo tutti, prese la parola. Disse, in un cattivo francese, che sapeva di parlare a una persona colta: che lei, con amici e amiche di ogni nazione, lavorava per riunire tutte le Chiese cristiane sotto il Papa, riformando il cattolicismo in alcune parti troppo assurde che nessuno nel suo cuore credeva più buone a niente, come il celibato ecclesiastico e il dogma dell’inferno; che avevano bisogno, per fare questo, di un Santo; che questo Santo sarebbe lui perchè uno spirito – ella non era spiritista ma un’amica sua lo era – anzi proprio lo spirito della contessa Blawatzky aveva rivelato questo; ch’era perciò necessaria la sua venuta a Roma e che a Roma egli avrebbe potuto con i suoi doni di santità rendere servigio anche alla duchessa di Civitella, ivi presente. Finì il suo discorso così:
«Nous vous attendons absolument, monsieur! Quittez ce vilain trou! Quittez-le bientôt! Bientôt!»
Benedetto, girato rapidamente lo sguardo severo per la cerchia delle facce sardoniche o stolide, dall’occhialetto della duchessa alla caramella del giornalista, rispose:
«A l’instant, madame!»
E uscì della camera.
Uscì della camera e della casa, attraversò la piazza camminando male negli abiti disadatti, prese la via della costa senza guardare nè a destra nè a sinistra, portato dallo spirito più che dalle forze affievolite del corpo, pensando passar la notte sotto qualche albero e l’indomani portarsi a Subiaco e di là, con l’aiuto di don Clemente, a Tivoli dove conosceva un buon vecchio prete solito venire di tanto in tanto a Santa Scolastica. All’ospitalità dei Selva, che gli sarebbe stata cara, non pensava più. Il suo cuore era puro e in pace ma egli non poteva dimenticare che la voce soave di quella signorina straniera e l’accento mesto col quale aveva detto: «Lei non verrà a Subiaco?» gli avevano risuonato dentro in un modo strano, che un minuto secondo era bastato perchè gli balenasse in mente questo pensiero: «se Jeanne fosse stata così non mi sarei sciolto.» Avevano ragione i mistici: penitenza e digiuno non valgono. A ogni modo tutto era oramai dileguato. Restava solamente l’umile sentimento di una fralezza essenzialmente umana che, uscita vittoriosa da prove difficili, può ricomparire improvvisamente ed essere vinta da un soffio. Il paesello era deserto. La gente di Trevi, di Filettino, di Vallepietra, cessato il temporale, era partita commentando i fatti della mattina, la guarigione dubbia, la guarigione fallita, i moniti seminati alacremente da seconde mani contro il seduttore del popolo, il falso cattolico. All’uscita del villaggio Benedetto fu veduto da due o tre donne di Jenne. L’abito laico le fece allibbire, lo credettero scomunicato, lo lasciarono passare in silenzio.
Pochi passi più in là fu raggiunto da qualcuno che correva. Era un giovinetto magro, biondo, dagli occhi azzurri, intelligentissimi.
«Lei va a Roma, signore Maironi?» diss’egli.
«La prego di non chiamarmi così» rispose Benedetto, spiacente di apprendere che il suo nome, chi sa in qual modo, si era divulgato. «Non so se vado a Roma.»
«Io La seguo» disse il giovine, impetuoso.
«Mi segue? Perchè mi segue?»
Il giovine gli prese, per tutta risposta, una mano, se la recò alle labbra malgrado la resistenza e le proteste di Benedetto.
«Perchè?» diss’egli. «Perchè ho il disgusto del mondo e non trovavo Dio e oggi mi pare, per Lei, di essere nato alla gioia. Permetta, permetta che La segua!»
«Caro» rispose Benedetto, commosso, «non so neppur io dove andrò.»
Il giovinetto lo supplicò di dirgli almeno quando avrebbe potuto rivederlo, e siccome Benedetto non sapeva veramente come rispondergli, esclamò:
«Oh La vedrò a Roma! Lei andrà a Roma, certo!»
Benedetto sorrise.
«A Roma? E dove trovarmi, a Roma, se ci vado?»
Quegli rispose che sicuramente a Roma si parlerebbe di lui, che tutti saprebbero dove trovarlo.
«Se Dio vorrà!» disse Benedetto con un affettuoso cenno di saluto.
Il giovinetto gentile lo trattenne un momento per la mano.
«Sono lombardo anch’io» diss’egli. «Sono Alberti, di Milano. Si ricordi di me!»
E seguì Benedetto con lo sguardo intenso finchè, a una svolta della mulattiera, disparve.
Alla vista della croce dalle grandi braccia, sull’orlo della discesa, Benedetto ebbe un improvviso sussulto di commozione, dovette arrestarsi. Quando si rimise in cammino fu preso da vertigini. Fece pochi passi ancora, barcollando, fuori della via per togliersi dal passaggio della gente e si lasciò cadere sull’erba in un grembo del prato. Allora, chiusi gli occhi, sentì che non era un malessere passaggero, ch’era qualche cosa di più grave. Non smarrì del tutto la conoscenza, smarrì l’udito, il tatto, la memoria, la nozione del tempo.
Al primo riaversi, la sensazione, ai dorsi delle mani, del panno grosso, diverso da quello della solita sua veste, gli mise una curiosità non tormentosa, quasi divertente, circa l’identità propria. Si andò tastando il petto, i bottoni, gli occhielli, senza capire. Pensò. Un ragazzo di Jenne che gli passò vicino sul prato, corse a Jenne, raccontò ansante che il Santo giaceva morto sull’erba, presso la croce.
Benedetto pensò con quell’ombra di ragione oscura che ci governa nel sogno e al primo svegliarci. Non erano i panni suoi, erano i panni di Piero Maironi. Egli era Piero Maironi ancora. Ne fu sgomentato e rinvenne del tutto. Si levò a sedere, si mirò la persona, girò lo sguardo intorno, per il prato, per i monti velati dalle ombre della sera. Alla vista della grande croce la sua mente si ricompose. Si sentiva male, male assai. Cercò di rimettersi in piedi e vi riuscì a fatica. Si avviò verso la mulattiera domandandosi che potrebbe fare in quello stato. Vide qualcuno venir frettoloso per la mulattiera, da Jenne, fermarglisi in faccia; udì esclamare: «Dio, è Lei!» riconobbe la voce della donna che gli aveva parlato con tanta passione fra i tuoni e i lampi. Ella sola, di tanti che avevano udito a Jenne il racconto del ragazzo, era venuta. Gli altri non avevano creduto o non avevano voluto credere. Era venuta correndo, folle di angoscia. Ora si era fermata di botto, a due passi da lui, incapace di proferir parola. Egli non sospettò che fosse venuta per lui, le diede la buona sera e passò. Ella non gli ricambiò il saluto, affannata, dopo la prima gioia, di vederlo camminare male, non osando seguirlo. Lo vide fermarsi con un uomo a cavallo che saliva, parlargli; fece un balzo avanti per udire. L’uomo era un mulattiere mandato dai Selva in cerca di Benedetto. I Selva erano partiti da Jenne poco dopo quest’ultimo, con due muli per le due signore, credendo raggiungerlo sulla costa. Giunti all’Aniene senza veder nessuno, avevano interrogato un viandante che veniva da Subiaco. Colui non seppe darne notizia. Noemi che doveva prendere l’ultimo treno per Tivoli, era partita con Giovanni, nascondendo il suo rammarico; il mulattiere era stato rimandato a Jenne per cercarvi di Benedetto e anche per riportarne un ombrellino dimenticato all’osteria; Maria era rimasta ad aspettarlo sulle ghiaie dell’Infernillo. La giovine maestra udì Benedetto domandare al mulattiere, per carità, che gli portasse da Jenne un po’ d’acqua. I due si parlarono ancora ma ella non attese altro, scomparve.
Benedetto aveva accettato, dopo una breve conversazione col mulattiere, di raggiungere, a cavallo, la signora Selva. Rimasto solo, sedette sotto la croce aspettando il ritorno del mulattiere con l’acqua e con l’ombrello. La luna falcata si veniva dorando nel cielo chiaro sopra i monti di Arcinazzo; la sera era senza vento, tepida. Benedetto si sentiva le tempie pulsare e ardere, celere e breve il respiro. Dolore non sentiva; e l’erba odorante del prato, gli alberi sparsi, le grandi montagne ombrose, tutto gli era vivo, tutto gli era pio, tutto gli era dolce di un mistero di amore orante che inclinava la stessa falce della luna verso le cime placide nel cielo di opale. Don Giuseppe Flores gli diceva nel cuore che sarebbe soave di morire così col giorno, pregando insieme alle cose innocenti.
Passi frettolosi, dalla parte di Jenne. Si fermarono un po’ discosto. Una bambina si avanza verso Benedetto, gli porge timidamente una bottiglia d’acqua e un bicchiere, fugge indietro. Benedetto, meravigliato, la richiama; ella viene lenta, vergognosa. Richiesta del suo nome, tace; dei suoi genitori, tace. Una voce dice:
«È la bambina dell’oste.»
Benedetto riconosce la voce e, al fioco lume della luna, la persona silenziosa rimasta indietro per lo stesso squisito sentimento che le ha fatto prender con sè la bambina.
«Grazie» diss’egli.
Ella si appressò un poco, tenendo la bambina per mano, sussurrò:
«Sa che i preti hanno parlato colla madre del morto? Sa che ora questa donna accusa Lei di averlo fatto morire?»
Benedetto rispose con qualche severità nella voce:
«Perchè mi dice questo?»
Ella conobbe di avergli fatto dispiacere accusando alla sua volta, esclamò desolata:
«Oh mi perdoni!»
E riprese:
«Posso farle una domanda?»
«Dica.»
«Ritornerà mai a Jenne?»
«No.»
La donna tacque. Si udirono venire, da lontano, il mulattiere e il suo mulo. Ella disse, a voce più bassa:
«Per pietà, una domanda ancora. Come si figura Lei l’altra vita? Crede che uno possa ritrovare le persone conosciute in questa?»
Se il lume della luna non fosse stato così fioco, Benedetto avrebbe vedute due grosse lagrime rigar il viso della giovine.
«Credo» rispose gravemente «che fino alla morte del nostro pianeta l’altra vita sarà per noi un grande continuo lavoro sopra di esso e che tutte le intelligenze aspiranti alla Verità e all’Unità vi si ritroveranno insieme all’opera.»
Le scarpe ferrate del mulattiere suonano vicine sui ciottoli. La donna dice:
«Addio.»
Stavolta le lagrime suonano anche nella voce. Benedetto le risponde:
«A Dio.»
Egli scende sul mulo, ardendo di febbre, nelle ombre della valle. Andrà dunque a casa Selva. Sa, lo ha saputo dal mulattiere, che non troverà Noemi, ma questo gli è indifferente, non la teme, neppure ricorda quel momento di lieve emozione. Un altro pensiero si agita, infiammato dalla febbre, nell’anima sua. Vi turbinano parole di don Clemente, parole di quel giovine Alberti, parole della vecchia dama inglese, vi lampeggiano dentro immagini rotte della Visione. A casa Selva, sì, ma per poco! Egli scende e la gran voce dell’Aniene gli rugge in profondo, più e più forte:
«Roma, Roma, Roma.»