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CAPITOLO NONO.
Nel turbine di Dio.
I.
Alle due pomeridiane del giorno seguente Jeanne aspettava in casa Selva, con Maria e Noemi, le notizie di villa Mayda non senza pensare di quando in quando al silenzio pertinace del Grand Hôtel. Giovanni era andato a villa Mayda prima delle sette. N’era ritornato alle nove. Non aveva potuto vedere Benedetto. Il professore Mayda non l’aveva permesso nè a lui nè ad altri. Sapeva che l’ammalato aveva ricevuto i Sacramenti, ma piuttosto per devozione che per imminenza di pericolo. Però nella notte un filo di febbre si era rifatto. Si sperava ora di poter dominare l’accesso, contenerlo. Forse Giovanni nel fare la sua relazione a Jeanne l’aveva un po’ colorata di ottimismo. Benedetto stava nella camera stessa del professore. Non era possibile, disse Giovanni, immaginare con quale femminile squisitezza di cure egli fosse assistito da questo terribile Mayda che tanti credevano duro e superbo.
Giovanni era ritornato colà dopo colazione, sul mezzogiorno. Da parte di Carlino, niente; nè scritti nè messaggi. Jeanne, malgrado l’altra grande angoscia, non poteva a meno di pensare anche a lui. Se il dolore, la collera, lo avessero fatto ammalare? Le amiche la rassicuravano. La cameriera o il cameriere sarebbero venuti ad avvertirla! Ella dubitava della intelligenza di quella gente. Che fare? Jeanne era per chiedere che si mandasse qualcuno ad informarsi, quando, alle due e un quarto, si udì un passo frettoloso nell’anticamera ed entrò Giovanni col soprabito indosso e col cappello in mano. Jeanne lo guardò in faccia, intese ch’era venuto il momento. Si alzò, bianca come una morta. Subito si alzarono silenziosamente anche Maria e Noemi, la prima guardando Jeanne, Noemi guardando suo cognato che non sapeva, davanti a quel viso spettrale di Jeanne, trovar parole. Furono cinque o sei terribili secondi, non più. Maria disse sommessamente:
«Si va?»
Suo marito rispose:
«È meglio.»
Niente altro fu detto.
Le tre signore si ritirarono per mettere mantello e cappello; Jeanne in una stanza, Maria e Noemi in un’altra. Giovanni seguì quest’ultime. Dunque? La febbre è salita molto, il professore non ha più speranza. Noemi, udito questo, mette il cappello in furia e va nella camera di Jeanne che sta mettendo il suo. Jeanne si volta, la vede venire a un bacio, la ferma col gesto, si pone un dito alle labbra. Noemi intende. È l’ora della fortezza, Jeanne non vuole baci nè parole nè lagrime. E non domanda particolari, non domanda niente. Si raccolgono tutti; Maria dice piano a suo marito di prendere due carrozzelle coperte, anche perchè il cielo si è annerito, un temporale da inverno romano è imminente. Non occorrono carrozzelle. Giovanni è venuto col landau di casa Mayda. Si sale nel landau, chiuso. Jeanne si accorge allora che le sue compagne sono vestite di scuro e che lei ha un vestito cenere, troppo chiaro, troppo elegante. Trasalisce lievemente, gli altri la interrogano collo sguardo. Ella esita un momento, pensa che non ha nè tempo nè modo di rimediare, risponde:
«Niente.»
Si parte. Nessuno parla più.
Svoltando in via del Pianto, la carrozzella si ferma per un impedimento. Si è fatto ancora più buio, tuona, i cavalli s’impennano, Maria guarda inquieta dallo sportello; Jeanne, ch’è seduta in faccia a Giovanni, gli domanda sotto voce se ha telegrafato a don Clemente. Giovanni risponde che don Clemente è a villa Mayda fino dalle dieci e mezzo. La carrozza prosegue. A Piazza Montanara comincia la pioggia. I cavalli trottano serrato. Quando finalmente il cocchiere li mette al passo, Maria guarda suo marito: — è bene l’Aventino? Dobbiamo essere vicini. — Questo è detto con gli occhi, non con le labbra. Jeanne non era mai passata di là ma sente anche lei che si è per arrivare. Eretta sulla persona, guarda il muro che le passa davanti agli occhi. Lo guarda attentamente come se volesse contare le commessure delle pietre. I cavalli riprendono il trotto. Passato Sant’Anselmo, si scende al basso. Popolani fermi, a destra e a sinistra, guardano nella carrozza. Giovanni Selva mormora involontariamente:
«Ecco.»
Allora Jeanne ha un sussulto, si copre impetuosa il viso colle mani. Maria, seduta al suo fianco, le cinge il collo con un braccio, si piega tutta a lei, le sussurra:
«Coraggio!»
Ma Jeanne si stringe in sè, si schermisce quanto può, e Noemi accenna a sua sorella, scuotendo il capo, di smettere. Maria sospira e la carrozza svolta a sinistra fra due fitte ali di gente, passa un cancello. Le ruote stridono sulla ghiaia, si fermano. Un domestico viene allo sportello. Il signor professore prega di favorire nella villa. Solamente allora Giovanni Selva dice alle sue compagne che Benedetto non è più nella villa, che ha voluto essere portato nella sua vecchia cameretta in casa del giardiniere. La carrozza procede di qualche passo, i quattro scendono fra due gruppi di palme, davanti a una gradinata di marmo bianco. Piove ancora ma non molto e nessuno se ne cura, nè il popolo che si affolla al cancello nè un gruppo di persone che dal viale di aranci discendente lungo il muro di cinta alla casina del giardiniere sta guardando i nuovi arrivati. Qualcuno si stacca da quel gruppo. È di Leynì che sale la gradinata di marmo bianco dietro a Selva, lo ferma sotto un’arcata del vestibolo pompeiano e discorre con lui a voce bassa, senza dare un’occhiata alla magnifica scena distesa fra i due gruppi di palme, al fiume di begonie che casca fra due sponde di muse giù per la china dell’Aventino, al nero cielo procelloso tagliato da strie bianche laggiù sopra i merli di Porta San Paolo, sopra la piramide di Caio Cestio e la selvetta funebre che pullula dal cuore di Shelley.
Selva entrò nel vestibolo e ricomparve un momento dopo con sua moglie. I due scesero la gradinata insieme a di Leynì, si avviarono verso le persone che parevano aspettarli nel viale degli aranci. In quel momento un fuoco di voci sdegnose divampa al cancello. La via è piena di popolo. Aspettano da ore, da quando è corsa nel quartiere del Testaccio la voce che il Santo di Jenne è ritornato infermo a villa Mayda. Finora si sono accontentati di notizie. Adesso hanno chiesto che una deputazione possa entrare, vederlo; i domestici rifiutano di portare il messaggio, avviene uno scambio di parole irose che improvvisamente si cheta. Compare dal viale degli aranci l’alta figura bruna del professore Mayda, i popolani si levano il cappello. Egli ordina di aprire il cancello, dice al popolo che tutti vedranno Benedetto ma più tardi, che intanto entrino pure nel giardino. «Ma sì, povera gente!».
E il popolo entra lento, rispettoso, alcuni attorniano il professore, lo interrogano colle lagrime agli occhi:
«È vero, signor professore? È vero che muore? Dica!»
E dietro a loro si accalcano altri, ansiosi, aspettando la risposta. La risposta è solamente questa:
«Ma! Cosa volete che vi dica?»
Il virile viso malinconico dice più delle parole e la folla s’inoltra compunta per le verdi chine, livide in faccia al cielo nero striato di bianco, mistico simbolo di morte, di un oscuro passo dalle ombre terrestri alle alte vie dalla chiarità infinita.
II.
Benedetto amava il professore Mayda. Quando, nella casa del senatore, udì ch’egli aveva risoluto di portarlo con sè a villa Mayda, ebbe un momento di gioia. Amava il professore, forse incapace ancora di fede ma profondamente convinto che vi hanno enigmi insolubili per la scienza, generoso, fiero ai potenti, mite agli umili. Amava pure il giardino, gli alberi, i fiori e l’erba ond’era stato, come del professore, il servo e l’amico. Tutto vi era pieno di care, innocenti anime, con le quali in certi momenti di rapimento spirituale aveva adorato Iddio posando le labbra sulle loro vesti picciolette, sopra un fiore, sopra una foglia, sopra uno stelo, dentro un alito di frescura verde. Gli piaceva l’idea di morire in mezzo ad esse. Talvolta, sotto un pino volgente al Celio l’ombrello pieno di vento e di suono, aveva pensato all’ultima scena della Visione, si era contemplato lì steso sull’erba nell’abito benedettino, pallido, sereno tra faccie compiangenti, cantando il pino sopra di lui un canto misterioso del cielo. Ogni volta si era soffocata nel cuore questa compiacenza non scevra di vanità egoistiche, umane, non tutta raccolta e chiusa nell’ossequio della Divina Volontà; ma non aveva potuto svellerne la radice.
Tese dunque le braccia, riconoscente, al professore. Ma subito fu preso da uno scrupolo. La sua intelligenza e il suo sentimento cristiano si trovarono in contraddizione. Sapeva di essere sgradito alla signora che aveva sposato il figlio del professore, ufficiale di marina, allora in Oriente; capiva che ritornando a villa Mayda sarebbe stato causa di dispiacere a lei e perciò di dissapori con il suocero. Ma come ora dirlo senz’accusare di poca giustizia e di poca carità una persona che appunto per essergli nemica egli doveva particolarmente amare? Pregò il professore di lasciarlo andare a Sant’Onofrio. La mutazione fu così repentina che Mayda ne meravigliò, pensò un momento, capì, gli disse aggrottando le ciglia:
«Volete che io non perdoni mai più qualche cosa a qualcuno?»
Benedetto non si oppose più. Soltanto quando a notte venne il momento di scendere alla carrozza ed egli si sentì incapace di reggersi, sorrise, disse al professore posandogli la mano sul braccio:
«Lei sa che a questo modo domani o posdomani avrà un morto in casa?»
Il professore rispose che con lui non mentiva, che questo era possibile, ma non certo.
«Lei sa» rispose Benedetto, non più sorridente, «che prima vi avrà…»
«So quello che volete dire» interruppe il professore. «Venite in pace, caro. Non sono credente come voi ma lo vorrei essere e aprirò rispettosamente la mia porta a chi vorrete voi. Intanto prenderemo questo, vero?»
Staccò dalla parete il Crocifisso che Benedetto aveva portato con sè e prese l’infermo nelle sue braccia potenti.
Il tragitto si fece senza guai. Adagiato nel traverso nel landau sopra una diga di cuscini, Benedetto, che sembrava diminuito di statura, rispondeva più col sorriso che colla voce fievole alle frequenti domande del professore. Questi gli teneva continuamente la mano al polso e di tempo in tempo gli amministrava un cordiale. All’entrata della villa, fosse commozione o stanchezza, il povero viso scarno dell’infermo imbiancò e si coperse di sudore, i grandi occhi lucenti si chiusero. Mayda lo portò nel suo proprio letto. Così avvenne che Benedetto, nel ricuperare la coscienza, non si raccapezzasse più.
Egli non la ricuperò, in quella sua spossatezza estrema, senza passare per ombre di pensamenti vani. Gli parve esser morto, giacere steso sulla faccia perpetuamente oscura della luna, avere a cerchio di sè l’imbuto dei raggi solari fuggenti all’infinito e vedere sul fondo nero dell’imbuto fiammeggianti occhi di stelle. Poco a poco si conobbe in un letto enorme, tutto scuro, cinto di un chiaror fioco che si perdeva ai lati verso pareti male visibili. Grandi ombre gli si movevano intorno. A fronte gli si apriva un azzurro tutto sparso di punti lucenti. Gli battè il cuore; non erano veramente stelle? Dovette richiamarsi alle sensazioni del letto e del proprio vivere per comprendere ch’erano veramente stelle ma ch’egli non giaceva sulla luna. Allora, dov’era? Si lasciò andare a una dolcezza che lo invadeva, alla dolcezza di non sentirsi quasi più il corpo e di sentirsi Dio nell’anima, tanto vicino e tenero e ardente. Era dove piaceva a Dio.
Una mano gli si posò sulla fronte, una lampadina elettrica lo abbagliò, un’affettuosa voce forte disse:
«Come va?»
Egli riconobbe Mayda. Allora domandò a lui dove fosse, perchè non fosse nella sua cameretta antica. Prima ancora che il professore gli rispondesse, lo assalse un dubbio angoscioso. Il Crocifisso? Il caro Crocifisso? Era rimasto in casa del senatore? Il Crocifisso era sul tavolino da notte. Il professore glielo mostrò.
«Non sai» diss’egli «che lo abbiamo portato con noi?»
Benedetto lo guardò, contento del nuovo tu e porse la mano tremante cercando quella di Mayda che gliela prese fra le proprie, dolcemente.
In pari tempo si sentì umiliato della sua dimenticanza. Era egli vicino a perder la mente? Tutto il giorno prima aveva pensato le ultime parole da dire agli amici e alla persona che tanto gli aveva fatto sentire la sua presenza invisibile. Ma se perdeva la mente? Il professore diede mano a saturarlo di chinino. In principio Benedetto accettò volontieri iniezioni dolorose e pozioni amare, così per il desiderio di rinvigorirsi un poco e quindi di difendersi contro un oscuramento dello spirito, come per il desiderio di soffrire. Oh sì, soffrire, soffrire! Nei giorni precedenti aveva sofferto molto, non di sofferenze locali, non di sofferenze acute, ma di una sofferenza inesprimibile, diffusa dalle radici dei capelli alle estremità dei piedi. Era stata una beatitudine dell’anima poter associare in tali momenti la volontà propria alla Volontà Divina, accettare dall’Amore tutto il dolore che gli aveva destinato senza dirgliene il misterioso perchè, un perchè nascosto nel disegno dell’Universo, certo un perchè di bene; non di solo bene della persona sofferente ma di bene universale, di un bene radiante dal suo povero corpo senza conosciuto confine, come il moto da un vibrante atomo del mondo. Grande cosa soffrire, continuare umilmente Cristo, continuare la redenzione come un peccatore può, compensare col dolore proprio il male altrui! Là sul sentiero solitario del Sacro Speco, nel fragore dell’Aniene, fra le montagne religiose, don Clemente gli aveva parlato così.
E adesso quel soffrir mortale era cessato. Quando il chinino cominciò a rombargli nel capo, se ne sgomentò. Questi rimedî lo istupidivano. Chiamò il professore; gli rispose una suora. Chiese che gli facessero venire un sacerdote dalla Bocca della Verità.
Il professore ch’era andato a riposare per un’ora, venne a rassicurarlo e credette allora dirgli quello che prima aveva taciuto. Don Clemente aveva telegrafato a Selva che sarebbe giunto a Roma l’indomani mattina alle dieci. Benedetto n’ebbe una gran gioia.
«Ma non sarà tardi?» diss’egli «Non sarà tardi?»
No, non poteva esser tardi. Egli non si trovava presentemente in pericolo prossimo. Questione di vita o di morte era il rinnovarsi della febbre e nel caso più disgraziato vi sarebbero state ancora molte ore. Mayda dubitò di avere parlato troppo crudamente, gli sussurrò:
«Ma guarirai.»
E uscì della camera. Benedetto, pensando a don Clemente, passò dalla quiete della sua contentezza nel sopore e nel sogno, dove discesero gli spiriti mali a comporgli con le ultime parole del professore una visione d’inganno.
Egli si vide in faccia un colossale muraglione di marmo, incoronato di ricche balaustrate, tutto bianco di luna. Là in alto, dietro le balaustrate, agitavasi al vento una densa foresta. Sei scale, pure fiancheggiate di balaustri, scendevano per isghembo, tre da sinistra e tre da destra, sulla fronte del muraglione, terminando a sei ripiani sporgenti. Le balaustrate superiori erano partite da pilastrini che reggevano urne. Ed ecco fra le urne, a mezzo di ciascun intervallo, apparire come in danza, nello stesso istante, nello stesso abito celeste scollato, nello stesso grazioso atto del capo, sei giovani donne bellissime; e con lo stesso armonioso gesto delle braccia ignudo tendere a lui dall’alto, piegando il busto, sei scintillanti coppe di argento. Si ritraevano quindi a un punto dalla balaustrata e a un punto ricomparivano sulle sei scale, le scendevano uguali velocemente, e, toccati i ripiani, a un punto riporgevano graziose il busto, gli tendevano, guardandolo con una gravità strana, le sei coppe scintillanti. Dalle loro labbra non usciva parola e tuttavia gli era evidente che le sei giovani gli offrivano nell’argento un liquore di vita, di salute, di piacere.
Egli sentiva di averne uno sgomento morale angoscioso e tuttavia di non poter levare lo sguardo dalle coppe scintillanti, dai bei volti gravi, chini sopra di esse. Si sforzava di chiudere gli occhi e non poteva, di levarsi e non poteva, d’invocare Dio e non poteva. Le sei danzatrici piegarono a un punto le coppe verso di lui, sei mobili nastri di liquore rigarono l’aria. «Come io» pensò il dormente scambiando persone nella memoria turbata «a Praglia.» E tutto scomparve, si vide davanti Jeanne. Ritta in piedi, chiusa nel mantello verde foderato di skuntz, ombrata il viso dal grande cappello nero, ella lo guardava come lo aveva guardato a Praglia nel momento del primo incontro. Ma stavolta il dormente vide una rispondenza fra la gravità di quello sguardo e la gravità dei volti delle danzatrici, vide con lo spirito la parola silenziosa delle sette anime: povero uomo, tu ora conosci il tuo doloroso errore, tu ora sai che Dio non è. La gravità degli sguardi non era che tristezza di pietà. Le coppe della vita, della salute e del piacere gli erano offerte discretamente e senza gioia come a uno ch’è nel lutto, che ha perduto ogni cosa più cara; come il solo povero conforto che gli rimane. Così Jeanne offriva il suo amore. E il dormente fu invaso da questa presunta evidenza nuova che Dio non è. Era una vera e propria sensazione fisica, un gelo diffuso per tutte le membra, movente lento al cuore. Egli prese a tremare, a tremare, e si destò. Mayda pendeva sopra di lui col termometro in mano. Benedetto mormorò con gli occhi sbarrati: Padre! — Padre! — Padre! — La suora suggerì: — Padre nostro che sei nei cieli… — e avrebbe continuato con la sua voce disgraziatamente sciocca senza un brusco richiamo del professore. Questi mise il termometro a Benedetto che quasi non se ne avvide. Era tutto nello sforzo di staccare dall’intimo sè le immagini delle figure tentatrici e della orribile loro parola, di gettarsi, anima e coscienza, in seno al Padre, di aderire a Lui con l’intero essere proprio, di annientarsi in esso. Le immagini cedevano lentamente, con ritorni di assalto sempre più brevi, sempre più deboli. Il viso appariva tanto trasfigurato nella mistica tensione dell’anima che Mayda si pietrificò a contemplarlo, dimenticò di guardar l’orologio fino a che i lineamenti contratti nell’affannosa preghiera non si vennero distendendo in una compostezza di pace. Allora si sovvenne, levò il termometro. La suora, dietro a lui, reggeva la lampadina elettrica cercando pure di vedere. Egli non discerneva, sulle prime, il grado. In quei pochi secondi di silenzio e di attenzione intensa nè l’uno nè l’altra si avvidero che l’infermo si era voltato sul fianco e guardava il professore. Finalmente Mayda scosse lo strumento. Che grado aveva segnato? La suora non osò chiederlo e la faccia del professore era impenetrabile. L’ammalato allungò la mano senza ch’egli se ne avvedesse, lo toccò lievemente sul braccio. Mayda si volse a lui, gli lesse negli occhi sorridenti la domanda: «e dunque?» Non rispose a parole ma solo con l’ondular della mano spiegata: nè bene nè male. Poi sedette accanto al letto, silenzioso ancora, impenetrabile, guardando Benedetto che non guardava più lui ma guardava, rimessosi a giacere supino, i punti lucenti nell’immenso azzurro.
«Professore» diss’egli «che ore sono?»
«Le tre.»
«Alle cinque mandi ad avvertire a Bocca della Verità.»
«Va bene.»
«Sarebbe tardi?»
A quest’ultima domanda il professore rispose con un «no» sonoro, vibrato. E dopo un momento di silenzio soggiunse a voce più bassa «no» come a conclusione di un ragionamento interno. Il termometro era salito a trentasette e cinque; dalla sera precedente, più d’un grado. Se l’ascensione continuasse rapida, se vi fosse pericolo di delirio avrebbe mandato a Bocca della Verità prima delle cinque. L’ascensione rapida non gli pareva probabile benchè quel trentasette e cinque avesse un colore nero.
Domandò all’ammalato se la luce della lampadina l’offendesse. Benedetto rispose che materialmente non l’offendeva, spiritualmente sì; gli toglieva di vedere per la finestra il cielo, la notte stellata.
«Illuminatio mea» diss’egli, dolcemente.
Il professore non capì, gli fece ripetere la parola, chiese quale fosse il suo lume, udì la voce fievole mormorare:
«Nox.»
Mayda non conosceva i Salmi, la parola profonda dell’antico ebreo, al quale parve oscuro il nostro piccolo sole che occulta il mondo superiore. Intese e non intese. Tacque riverente.
Benedetto cercava con gli occhi le stelle. La sua propria coscienza trapassava in esse che lo guardavano austere sapendolo presso a raccogliere, prima della morte imminente, tutta la storia morale della sua vita per dirla con parole che sarebbero un primo giudizio pronunciato nel nome di Dio Giustizia per impulso del Dio Amore, che non si perderebbero perchè nessun moto si perde, che apparirebbero, chi sa come, chi sa dove, chi sa quando, per la gloria di Cristo, come testimonianza suprema di uno spirito alla Verità morale contro sè stesso. Così gli parlavano le stelle silenziose, animate del suo pensiero. E la sua vita gli si disegnò nella mente da capo a fondo, non tanto nei punti salienti esterni, come nella linea morale interna. Egli ne vide tutta la prima parte dominata da una concezione religiosa prevalentemente egoistica, ordinata a far convergere l’amore di Dio e degli uomini a un bene individuale, a un fine di perfezione propria e di premio. Sentiva dolore di avere così obbedita solamente a parole la legge che all’amore di sè stesso antepone l’amore di Dio; ed era un dolore dolce, non perchè gli fosse facile trovare scuse all’errore, imputarlo a maestri, ma perchè gli era dolcezza sentire il proprio niente nell’onda di grazia che lo avvolgeva. E sentiva il proprio niente in quel passato sfacelo di una religiosità manchevole, operato dall’insorgere dei sensi, nella depressione centrale della sua vita, tutta un tessuto di sensualità, di debolezze, di contraddizioni e di menzogne; il proprio niente anche nella vita posteriore alla sua conversione, impulso e opera di una Volontà interna e prevalente alla sua, durante il quale ultimo tempo gli pareva di avere, per conto proprio, solamente gravato contro l’impulso buono. Anelò a deporre come una spoglia pesante tutto quel «sè» che lo tardava. Conobbe parte di questo «sè» pesante anche l’affetto alla Visione, aspirò alla Verità Divina nel suo mistero qualunque ella fosse, si donò a lei con tale violenza di desiderio da spezzarsi, quasi, nel palpito; e le stelle gli folgorarono un senso così vivo della incommensurabile grandezza della Verità Divina di fronte alla concezione religiosa sua e dei suoi amici, e insieme una fede così certa di essere avviato a quella immensità, ch’egli esclamò alzando di scatto la testa dal guanciale:
«Ah!»
La suora si era appisolata ma il professore no.
«Cosa c’è?» diss’egli. «Vedi qualche cosa?»
Sulle prime Benedetto non rispose. Il professore alzò la lampadina e si chinò sopra di lui che volse il viso a guardarlo con una espressione di desiderio intenso e dopo averlo guardato lungamente sospirò:
«Ah professore, c’è che Lei deve venire dove vado io.»
«Ma sai» disse Mayda «dove vai, tu?»
«So» rispose Benedetto «che mi separo da tutto quello che si corrompe e che pesa.»
Poi domandò se qualcuno fosse andato alla parrocchia. Come, se non era passato che un quarto d’ora? Si scusò, gli pareva che fosse passato un secolo. Supplicò il professore di ritirarsi, di prendere riposo, contemplò daccapo i lumi celesti; poi chiuse gli occhi, desiderò Gesù, due braccia umane che lo sollevassero e lo cingessero, un petto umano, animato di Divino, dove celare il viso entrando nell’immenso mistero.
Ebbe i sacramenti alle sei. Il termometro era salito di qualche linea.
Alle nove Benedetto domandò di Giovanni Selva. Seppe ch’era venuto, ch’era ripartito e che c’era invece di Leynì. Volle vederlo malgrado l’opposizione del professore. Gli disse che desiderava salutare almeno alcuni dei suoi amici delle catacombe. Di Leynì lo sapeva, gliene aveva parlato Selva. Potè annunciare che si erano dato convegno a villa Mayda verso il tocco. La suora infermiera, venuta poco prima a sostituire la sua compagna, ebbe l’imprudenza di dire che tanta gente del popolo domandava notizie. Benedetto, lì per lì, non disse nulla; ma, uscito di Leynì, fece chiamare il professore. Il professore non c’era, aveva dovuto recarsi all’Università. Il discorso della suora avea fatto prendere definitivamente a Benedetto una risoluzione pensata fin da quando la prima luce del giorno gli aveva mostrato le pareti della camera dipinte di soggetti mitologici nello stile della Casa di Livia. Desiderò di un desiderio indicibile la sua cameretta antica. Là avrebbe veduto gli amici, i popolani che volessero visitarlo, e, se fosse venuta, l’altra persona. Pregò di parlare al giardiniere e ai servi, espresse il suo desiderio; e perchè coloro rifiutavano di trasportarlo, li supplicò per amor di Dio, li commosse tanto che si arresero, a rischio di venir cacciati. «Idee proprio di Santi» pensò la suora. Benedetto fece il tragitto nelle braccia del giardiniere e di un servo, avviluppato di coperte, col Crocifisso in mano. La sua consolazione di trovarsi nella cameretta povera fu così grande che parve a tutti migliorato. Ma il termometro saliva.
Dopo il tocco il termometro segnava trentanove. Don Clemente era arrivato alle dieci e mezzo.
III.
I Selva e di Leynì raggiunsero il gruppo di persone che li aspettavano nel viale degli aranci. Erano tutti laici meno uno, un giovine sacerdote abruzzese, piccolo, dal viso olivastro, dagli occhi neri, profondi e ardenti. Vi era lo studente Elia Viterbo, ora cristiano, stato battezzato da quel sacerdote. Vi era il biondo giovinetto lombardo prediletto dal Maestro. Vi era un giovine operaio, abruzzese anche lui, amico del prete, bellissimo, dalla faccia di apostolo; vi era quell’Andrea Minucci della riunione religiosa di Subiaco; vi erano un pittore, un ufficiale di marina comandato al Ministero e altri; tutti uomini che ogni amore terreno avrebbero sacrificato all’amore di Benedetto. Nessuno di loro aveva creduta vera una sola delle voci calunniose sparse contro di lui. Lo avevano difeso con impetuoso sdegno contro i compagni diffidenti. Si potrà dire di essi un giorno che furono posti alla prova dalla Provvidenza ed eletti quindi a continuatori dell’opera del Maestro. Di Leynì era della loro schiera; in Giovanni Selva essi ammiravano e riverivano un uomo ammirato e riverito dal Maestro, provandone però soggezione. Stavano da un pezzo nel viale degli aranci ad aspettare appunto lui; perchè a entrar dal Maestro non si aspettava che il signor Giovanni. Molti di loro avevano le lagrime agli occhi. All’avvicinarsi dei Selva, tutti si levarono il cappello in silenzio. Giovanni si avviò, seguito dall’intero gruppo, verso la casina. Sua moglie veniva ultima. Uno dei giovani le accennò di passare avanti, ma ella non volle e nessuno insistette. Non era luogo nè ora di cerimonie; Maria sentiva che quegli uomini erano chiamati prima di lei a continuare l’opera di Benedetto dopo la sua morte. Camminavano in silenzio e a capo scoperto malgrado la pioggia, Selva come gli altri.
Mayda li ricevette sulla soglia. Al suo ritorno dall’Università, egli aveva accolto la notizia del passaggio di Benedetto alla casina con un terribile scoppio di collera. Non aveva poi disarmato con la suora, con il giardiniere, con i servi; ma si era persuaso in cuor suo, considerando la nota delle temperature prese ogni mezz’ora, che quel colpo di follìa non aveva modificato sensibilmente il corso fatale della febbre. Alla domanda se si dovesse restar poco nella camera, cercare che l’ammalato parlasse il meno possibile, rispose:
«Fate tutto quello che desidera; è il banchetto del condannato.»
E li precedette sur una scaletta di legno.
«I tuoi amici» diss’egli, entrando nella camera. Li fece passare, e, chiuso l’uscio, si appoggiò a uno stipite della porta, con le mani incrociate dietro il dorso, guardando Benedetto. L’alta figura bruna non si mosse più di là tutto il tempo che Benedetto trattenne i suoi fedeli.
Benedetto aveva il viso acceso, gli occhi lucenti, il respiro frequente. Salutò gli amici con un «grazie» vibrante di sovreccitazione lieta che strappò a qualcuno dei singhiozzi. Allora egli alzò la mano come pregando di chetarsi. Dopo ricevuto il Viatico la sua continua preghiera era stata di poter parlare ai suoi discepoli prediletti, di avere da Dio parole di verità e forza bastevole a pronunciarle. Si sentiva ora il petto pieno dello Spirito.
«Venitemi vicini» diss’egli.
Il giovinetto biondo passò avanti agli altri, s’inginocchiò, rigato il viso di tacite lagrime, al letto del Maestro che gli posò la mano sul capo e riprese:
«Restate uniti.»
Le dolorose parole taciute accorarono maggiormente; ma ciascuno sentì che quell’anima era per dare l’ultima luce di ammaestramento e di consiglio, ciascuno represse il pianto. La voce di Benedetto suonò nel silenzio più profondo.
«Pregate senza posa e insegnate a pregare senza posa. Questo è il fondamento primo. Quando l’uomo ama veramente di amore una persona umana o una idea della propria mente, il suo pensiero aderisce in segreto continuamente al suo amore mentr’egli attende alle più diverse occupazioni della vita, sia vita di servo, sia vita di re; e ciò non gli toglie di attendervi bene ed egli non ha bisogno di rivolgere molte parole al suo amore. Gli uomini del mondo possono portare così nel loro cuore una creatura, una idea di verità o di bellezza. Portate voi sempre nel vostro il Padre che non avete veduto ma che avete sentito tante volte come uno Spirito di amore spirante in voi, che vi metteva il desiderio dolcissimo di vivere per esso. Se così farete, l’azione vostra sarà tutta viva di spirito di Verità.»
Riposò un poco, guardò don Clemente seduto accanto al letto, sorrise.
«Parole Sue della cara Santa Scolastica» diss’egli. E continuò:
«Siate puri nella vita perchè altrimenti disonorerete Cristo davanti al mondo; siate puri nel pensiero perchè altrimenti disonorerete Cristo davanti agli spiriti di bontà e agli spiriti di nequizia che si combattono nelle anime dei viventi.»
Detto così, egli cinse col braccio la testa del giovinetto biondo quasi a difenderla dal male e pregò nell’anima per lui ch’era forse la sua maggiore speranza. Poi ripigliò:
«Siate santi, non cercate nè lucri nè onori, mettete in comune per le vostre opere di verità e di carità il superfluo misurato secondo la voce interna dello Spirito. Siate benefici amici a tutti i dolori umani nei quali v’incontrerete, siate mansueti ai vostri offensori e derisori che saranno molti anche nell’interno della Chiesa, siate intrepidi a fronte del male; datevi alle necessità l’uno dell’altro; perchè se tali non vivrete non potrete servire lo Spirito di Verità e perchè il mondo riconosca la Verità dai vostri frutti, perchè i fratelli riconoscano dai vostri frutti che voi siete di Cristo.»
Don Clemente si piegò sopra di lui per la pietà del suo respirare affannoso, gli disse piano che riposasse. Benedetto gli prese, gli strinse la mano, tacque alcuni istanti. Poi, levatigli in viso i grandi occhi lucenti, rispose:
«Hora ruit.»
E ricominciò:
«Ciascuno di voi adempia i suoi doveri di culto come la Chiesa prescrive, secondo stretta giustizia e con perfetta obbedienza. Non prendete nomi per la vostra unione, nè parlate mai collettivamente, nè fatevi regole comuni oltre a queste che vi ho dette. Amatevi, l’amore basta. E comunicate gli uni con gli altri. Molti lavorano nella Chiesa lo stesso lavoro al quale vi preparate voi con la preparazione morale che vi ho prescritta: voglio dire un lavoro di purificazione della fede e di penetrazione della fede purificata nella vita. Onorateli e apprendete da essi ma non fateli partecipi della vostra unione se spontaneamente non vengano a voi per mettere il loro superfluo in comune. Questo sarà il segno che Iddio li manda a voi.»
Qui Benedetto s’interruppe, pregò dolcemente Giovanni Selva di venirgli più vicino.
«Desidero vederla» diss’egli. «Quello che ho detto e più ancora quello che dirò è nato da Lei.»
Stese la mano a prendere quella di don Clemente, soggiunse:
«Il padre lo sa. — Noi dobbiamo sentire Iddio presente in noi stessi ma dobbiamo anche sentirlo ciascuno di noi nell’altro e io lo sento tanto in Lei. — Sì» proseguì volgendosi a don Clemente come per un appello alla sua autorità «questo è il fondamento vero della fraternità umana e per questo coloro che amano gli uomini e si figurano di essere freddi con Dio sono più vicini al Regno di tanti che si figurano di amare Dio e non amano gli uomini.»
Il giovine prete che stava, quasi timidamente, dietro Selva, esclamò: «oh sì sì!» Selva piegò il capo, sospirando. L’alta figura bruna addossata a uno stipite della porta non si mosse, ma il suo sguardo fermo a Benedetto ebbe una intensità, una tenerezza, una tristezza indicibili.
Don Clemente si piegò da capo all’infermo, gli disse di sostare un poco; anche la suora ne lo pregò. Mayda non parlò nè parlarono i discepoli. Benedetto bevve un po’ d’acqua, ringraziò e riprese il suo dire.
«Purificate la fede per gli adulti ai quali è incomportabile il cibo degl’infanti. Questa parte del vostro lavoro è per quelli che sono fuori della Chiesa, le appartengano di nome o no, per quelli ai quali voi vi mescolerete incessantemente. Lavorate a glorificare l’idea di Dio adorando sopra ogni cosa la Verità e insegnando che non vi è verità contro Dio nè contro la Sua legge. Badate però con altrettanta cura che gl’infanti non accostino la bocca al cibo degli adulti. Non vi offenda una fede impura, una fede imperfetta dove pura è la vita e giusta è la coscienza; perchè rispetto alle profondità infinite di Dio poca differenza vi è tra la fede della femminetta e la fede vostra e se la coscienza della femminetta è giusta, se la sua vita è pura, voi non passerete avanti a lei nel Regno dei Cieli. Non pubblicate mai scritti intorno a questioni religiose difficili perchè sieno venduti ma distribuiteli secondo prudenza e mai non vi apponete il vostro nome.
«Lavorate per la penetrazione della fede purificata nella vita. Questo lavoro è per quelli che nella Chiesa sono e nella Chiesa vogliono essere e si chiamano turba, popolo infinito; per coloro che veramente credono nei dogmi e si compiacerebbero di crederne anche più, che veramente credono nei miracoli e si compiacciono di crederne anche più, ma veramente non credono nelle Beatitudini, che dicono a Cristo: «Signore, Signore!» ma pensano che sarebbe troppo duro di fare tutta la Sua volontà e neppure hanno zelo di cercarla nel Libro Santo e non sanno che religione è sopra tutto azione e vita. A costoro che pregano abbondantemente, spesso idolatricamente, insegnate voi a praticare, oltre alle preghiere prescritte, anche la preghiera mistica in cui è la fede più pura, la più perfetta speranza, la più perfetta carità, che purifica per sè l’anima e purifica la vita. Vi dico io di prendere pubblicamente il posto dei Pastori? No; ciascuno lavori nella propria famiglia, ciascuno lavori fra i propri amici, chi può lavori nel libro. Così lavorerete anche il terreno onde i Pastori sorgono.
«Figli miei, non vi prometto che rinnoverete il mondo. Lavorerete nella notte senza profitto apparente come Pietro e i suoi compagni sul mare di Galilea, ma Cristo alfine verrà e allora il vostro guadagno sarà grande.»
Tacque, pregò per i suoi discepoli, sospirò nella prescienza di molto loro soffrire da molte specie di nemici e disse le ultime parole:
«Più tardi le vostre preghiere; adesso il vostro bacio.»
I discepoli domandarono a una voce di essere benedetti. Egli si schermì, disse di non sentirsi degno:
«Non sono che il povero cieco, al quale il Signore ha aperti gli occhi col fango.»
Don Clemente non parve udire, s’inginocchiò dicendo:
«Anche me.»
Benedetto gl’impose con umile obbedienza la mano sul capo, disse le parole latine della benedizione rituale e lo baciò. Così fece agli altri, uno per uno. Parve a ciascuno sentirsi fluire nell’interno da quella mano il vento dello Spirito. Quando fu la volta del prete, questi mormorò:
«Maestro, e noi?»
Il morente si raccolse alcuni istanti, rispose:
«Siate poveri, vivete da poveri, siate perfetti, non compiacetevi nè di titoli nè di vesti di onore, non dell’autorità personale nè dell’autorità collettiva, amate coloro che vi odiano, astenetevi dalle parti, pacificate nel nome di Dio, non accettate uffici civili, non tiranneggiate le anime nè vogliate governarle troppo, non fate culture artificiali di sacerdoti, pregate Dio di esser molti ma non temete di esser pochi; non crediate che vi abbisogni molta scienza umana, solo vi abbisogna molto rispetto per la ragione e molta fede nella Verità universale e inscindibile.»
Ultima si avvicinò Maria Selva. S’inginocchiò a due passi dal letto. L’infermo le sorrise, le fe’ cenno di alzarsi.
«La ho già benedetta in Suo marito» diss’egli. «Non li so distinguere. Ella è una parte dell’anima sua. Ella è il suo coraggio, lo sia sempre più nelle ore penose che lo aspettano. E siate insieme la poesia dell’amore cristiano fino all’ultimo. Fermatevi ora qui un poco tutt’e due.»
La luce venne meno rapidamente nella camera mentre i discepoli uscivano. Si udì il rombo del tuono, la suora andò a chiudere la finestra. Prima guardò nel giardino, esclamò: «poverini!» Benedetto udì, volle sapere, apprese che il giardino formicolava di persone venute per vederlo, che una pioggia tempestosa era imminente. Pregò i Selva di attendere e Mayda di far entrare il popolo.
Un calpestio pesante suonò sulla scaletta di legno. La porta si aperse, parecchi popolani entrarono adagio in punta di piedi. In un momento la camera fu piena. Una calca di teste scoperte si affacciava alla porta. Nessuno parlava, tutti guardavano Benedetto, smarriti, riverenti. Benedetto salutò colle due mani, a braccia aperte.
«Vi ringrazio» diss’egli. «Pregate come certo a qualcuno di voi ho insegnato. E Dio sia con voi, sempre.»
Un omone grande gli rispose, tutto rosso:
«Noi si pregherà ma Lei non more, sa. Lei non creda sta cosa. Però ce benedica.»
«Sì, ce benedica» suonò da ogni parte. «Ce benedica.»
Intanto dalla scaletta venivano voci impazienti di gente che voleva e non poteva salire. Benedetto disse qualche cosa, piano, a don Clemente. Don Clemente ordinò che i presenti sfilassero davanti al letto uscendo poi dalla camera perchè potessero sfilare anche gli altri.
A uno a uno passarono tutti. Erano genterella del Testaccio, operai, garzoni di negozio, venditrici di frutta, piccoli merciaiuoli, accattoni. Benedetto andava ripetendo di tanto in tanto, con voce stanca, parole di congedo. — Addio. — Pregate per me. — A rivederci in paradiso. — Chi passando davanti lui piegava il ginocchio in silenzio, chi toccava il letto e si faceva il segno della croce, chi gli raccomandava sè o persone care, chi gli diceva benedizioni. Uno gli domandò perdono di aver creduto ai suoi calunniatori. Fu allora una sequela di «anche a me, anche a me.» Passò la gobbina di via della Marmorata, cominciò a raccontargli piangendo che il suo vecchio prete si era confessato e avrebbe voluto dirgli tutta la sua gratitudine. Chi seguiva la spinse via ed ella passò per sempre dagli occhi di lui. Tanti così gli passarono davanti l’ultima volta e piangendo si allontanarono da lui per sempre, ch’egli aveva consolati nello spirito e nel corpo. Molti ne riconobbe e salutò col gesto. Quelli giravano via pure girando il volto lagrimoso continuamente a lui. La fila che scendeva sfiorando sulla scaletta la fila che saliva, le antecipava le impressioni della camera dolorosa. — Ah che viso! — Ah che voce! — Dio, muore! — È un angelo di Dio! — Vedrete! — Ci ha il paradiso negli occhi! — E non pochi mormoravano maledizioni agl’infamacci che lo avevano calunniato, non pochi parlavano, fremendo, di veleno e di assassinio. Dio, portato via dai questurini, ritornava così! Un lugubre tuonare continuo e il gran pianto uguale della pioggia coprivano i sussurri pietosi e irosi.
Finito di scolare il fiume del popolo, Mayda fece aprire la finestra perchè l’aria si era viziata. Benedetto pregò che gli alzassero un poco il capo, desiderando vedere il gran pino inclinato al Celio. La verde livida corona dell’ombrello tagliava obliqua il cielo tempestoso. La guardò a lungo. Riadagiato il capo sul guanciale, accennò a don Clemente di piegarsi verso di lui, gli disse, quasi all’orecchio:
«Sa, quando mi hanno portato qua dalla villa, ho sentito un fortissimo impulso a pregare che mi portassero sotto il pino che si vede dalla finestra, per morire lì. Ma ho anche pensato subito ch’era una cosa troppo voluta, e che non era buona. E poi — soggiunse sorridendo — sarebbe sempre mancato l’abito.»
Un lieve moto delle labbra di don Clemente gli rivelò ch’egli aveva recato l’abito con sè da Subiaco. N’ebbe un assalto di commozione intensa. Giunte le mani, stette in silenzio fino a che durò la lotta interna fra il desiderio che la Visione si compiesse e la coscienza che non si sarebbe compiuta naturalmente. Si raccolse in un atto di abbandono alla Divina Volontà.
«Il Signore vuole che io muoia qui» diss’egli. «Però mi permette di avere almeno l’abito sul letto prima di morire.»
Don Clemente si chinò sopra di lui e lo baciò in fronte.
Intanto i Selva attendevano in disparte. Benedetto li chiamò a sè, disse loro che avrebbe ricevuto la signora Dessalle fra mezz’ora, ma che la pregava di non venire sola. Poteva venire con loro. Insieme ai Selva uscì anche Mayda. La suora dormicchiava. Allora Benedetto pregò don Clemente di recarsi poi dal Pontefice, di dirgli come la fine della Visione non si fosse avverata, come quindi tutto l’apparente miracoloso della sua vita svanisse, come finalmente egli avesse sentita con grande dolcezza, prima di morire, la benedizione del Papa.
«E gli dica» finì «che spero di poter parlare ancora nel suo cuore.»
L’ambascia era diminuita ma la voce si affiochiva, le forze venivano mancando colla febbre. Don Clemente gli prese e tenne a lungo il polso. Poi si alzò.
«Lei va a prendere l’abito?» mormorò Benedetto con un sorriso dolcissimo. Il bel viso del padre si coperse di rossore. Egli vinse presto il sentimento umano che gli consigliava di simulare, e rispose:
«Sì, caro. Credo che sia il tempo.»
«Che ore sono?»
«Le cinque e mezzo.»
«Lei crede alle sette? Alle otto?»
«No, non così presto, ma desidero che tu abbia questa consolazione subito.»
In un salottino della villa, Giovanni Selva, guardato l’orologio, disse a sua moglie:
«Andate.»
L’intelligenza era che con Jeanne andassero da Benedetto Maria e Noemi. Questa stese le mani a suo cognato.
«Sai» diss’ella, tutta tremante «vado a dargli una notizia che riguarda l’anima mia. Non ti offendere se la do a lui prima che a te.»
Jeanne intuì la notizia che Noemi avrebbe portato al morente: la sua prossima conversione al Cattolicismo. Tutta la forza ch’ell’aveva raccolto in sè per il momento supremo l’abbandonò. Abbracciò Noemi e scoppiò in lagrime. I Selva le fecero animo, ingannandosi circa quel pianto. Ella pregò, fra i singhiozzi, che andassero, che andassero; a lei era impossibile di venire. Noemi sola intese. Jeanne non voleva venire perchè aveva indovinato e non poteva fare quanto avrebbe fatto lei. La supplicò, la scongiurò, le mormorò tenendola abbracciata: «perchè non cedi, in questo momento?»
Jeanne rispose solamente, singhiozzando:
«Oh tu mi capisci!» E perchè Noemi protestava di non voler più andare, la supplicò alla sua volta di andare, di andare subito, di non tardare a dargli questa consolazione. Ella non poteva, non poteva, non poteva! Non ci fu verso di smuoverla. Un domestico venne a chiamare Selva. Maria e Noemi uscirono.
Rimasta sola, Jeanne ebbe un momento l’idea di raggiungerle, di arrendersi, di andargli a dire ella pure una parola di gioia. Cadde ginocchioni, stese le braccia, quasi a lui che le stesse davanti, singhiozzò: «caro, caro, come ti potrei ingannare?» Aveva lottato più volte col proprio scetticismo imperioso e sempre invano. Uno slancio di dedizione alla fede, lo sapeva, non sarebbe stato durevole.
«Perchè non mi vuoi sola?» gemette ancora, sempre ginocchioni. «Perchè non mi vuoi sola? Perchè le coscienze pie non si offendano? Perchè la mia disperazione non ti turbi? Perchè non mi vuoi sola? Posso io dire davanti a loro quello che ho dentro di me? Tu che sei buono come il tuo Signore Gesù, perchè non mi vuoi sola? Oh!»
Ella scattò in piedi, convinta che se Piero la udisse risponderebbe «sì, vieni.» Stette un attimo come impietrata, colle mani alle tempie; e mosse poi lentamente, simile a una sonnambula, uscì del salotto, attraversò il vestibolo, scese in giardino.
Pioveva tanto dirottamente, il cielo, corso tuttora di tempo in tempo dal tuono, era tanto fosco che prima delle sei, quella sera di febbraio, pareva già quasi notte. Jeanne entrò come stava, a capo scoperto, nella pioggia fitta e fredda, prese, senz’affrettar il passo, non il viale degli aranci a destra ma il sentiero che scende a sinistra fra due righe di grandi agavi a un boschetto di lauri, di cipressi e di ulivi cui si aggrappano rose. Passò dal gran pino che guarda il Celio e girando al basso verso destra per un lungo arco di via, si condusse alla fonte che un avello antico raccoglie nel pendìo ripido fra una cintura di mirti, pochi passi più giù che la casina del giardiniere. Ivi si fermò. Una finestra della casina luceva; certo la finestra di Piero. Vi passò un’ombra; forse Noemi! Jeanne sedette sull’orlo marmoreo della vasca. Era possibile di affogare lì dentro? Avrebbe cercato di morire se non ci fosse Carlino? Pensieri vani; non vi si trattenne. Attese, attese, sotto la pioggia fredda, con gli occhi e l’anima fermi alla finestra lucente. Altre ombre. Partono, adesso? Sì, forse partono Maria e Noemi ma non lasceranno Piero solo. Ci sarà Mayda, ci sarà il benedettino, ci sarà la suora. Ebbene, ella tenterà. Un passo frettoloso nel viale degli aranci; qualcuno che si avvia alla casina. Jeanne, che si era alzata, torna a sedere. Ecco, quell’ignoto è entrato. Movimento di ombre alla finestra. Due persone escono parlando vivacemente; le voci del professore e di Giovanni Selva. Pare che parlino di qualcuno venuto a prendere notizie. Altre persone escono, l’acqua delle grondaie mormora sugli ombrelli. Devono esser loro, Maria e Noemi. Jeanne si alza da capo, si avvia.
Passa l’uscio della casina, vede gente nella cucina del giardiniere, prega una ragazza di salire a vedere presso l’ammalato, chi ci sta. Quella esita, cerca schermirsi, ma poi va, scende subito. Ci stanno il prete e la suora. Jeanne domanda un po’ di carta, una matita, un lume. Comincia a scrivere:
«Padre — Mi rivolgo...» S’interrompe, sta in ascolto. Qualcuno scende la scaletta di legno. Un passo d’uomo; dunque il padre. Allora gli parlerà. Butta via la matita, gli va incontro sulla scaletta. È scuro, don Clemente la scambia per Maria Selva.
«È quieto» dice, prima ch’ell’apra bocca. «Pare che dorma. Gli ha fatto tanto bene quello che Sua sorella gli ha detto. Il professore crede che passerà la notte. Faccia venire anche l’altra signora. L’ha domandata. Credevo che fossero andate a prenderla.»
Jeanne tace, si fa da banda. Egli dice «permesso» e passa senza guardarla, va in cucina per avere un po’ di pane e un po’ d’acqua, digiuno com’è dalla sera precedente. Jeanne trema come una foglia. Egli l’ha domandata! Queste parole, il favore del caso le danno le vertigini. Sale piano piano, spinge l’uscio piano piano. La suora la vede, fa per alzarsi. Ella le accenna, col dito alla bocca, di non si muovere, si accosta piano piano al letto, vede una lunga cosa nera distesa sulle coltri, si arresta esterrefatta, non comprende. Ode un lievissimo gemito. Il giacente alza la mano destra con un gesto vago, come se cercasse qualche cosa. La suora si alza ma Jeanne, più pronta, è di slancio al guanciale, si china su Piero che ha ripreso a gemere, ad agitar la mano.
Jeanne lo interroga affannosa, egli non risponde, geme, guarda qualchecosa accanto al letto e Jeanne offre un bicchiere d’acqua, gli vede scotere il capo, si dispera di non capire. Ah, il Crocifisso, il Crocifisso! La suora alza il lume da terra, Jeanne porge il Crocifisso a Piero che gli affligge le labbra e la guarda, la guarda con gli occhi grandi, vitrei, dov’è la morte. La suora getta un grido, corre a chiamare il padre. Piero guarda Jeanne, guarda Jeanne, si sforza di prendere il Crocifisso a due mani, di alzarlo verso lei, le sue labbra si agitano, si agitano, non ne esce suono. Jeanne si raccoglie nelle proprie le mani di Piero, bacia il Crocifisso di un bacio appassionato. Egli chiude allora gli occhi, il suo volto s’irradia di un sorriso, si piega un poco sulla spalla destra, non si move più.
Fine.