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Capitolo ottavo ― Jeanne
Capitolo VII Capitolo IX

CAPITOLO OTTAVO.


Jeanne.


I.


Un piccolo gruppo di operai veniva sul mezzogiorno da una casa in costruzione di via Galvani verso via della Marmorata. Vedendo capannelli di gente sotto gli alberi e capannelli agli usci, gente alle finestre delle due ultime case di destra e di sinistra, un operaio che seguiva il gruppo a pochi passi di distanza disse forte ai compagni:

«Quanti scemi per un furbo!»

Un omaccione barbuto che stava sulla soglia d’una botteguccia l’udì e gli si fece incontro, lo apostrofò minaccioso:

«Tu che dici?»

L’altro si fermò a squadrarlo, gli rispose beffardo:

«To’! Quello che piace a me!»

L’omaccione gli menò un pugno, gli altri operai gli si fecero addosso in aiuto del compagno. Grida, bestemmie, lampeggiar di coltelli, strilli di donne dalle finestre, accorrer di gente dal viale, accorrer di guardie e di vigili, in un baleno la via fu tutta un bollimento nero, un ondeggiar della calca urlante trabalzata da destra a sinistra e da sinistra a destra come a bordo di una nave sul mare in tempesta; e a due passi dal fitto dove contendevano gli operai e le guardie, bravo chi avesse saputo quel che accadeva. La folla era feroce contro gl’insultatori del Santo ma cieca; quali fossero non sapeva; voleva a morte con cento voci discordi l’omaccione, gli operai, le guardie, uno che aveva riso, uno che aveva fatto il paciere e chi dava gomitate per cacciarsi avanti e chi ne dava per tirarsi fuori. Un conduttore del tram di S. Paolo, passando davanti a via Galvani, vide il tumulto e si divertì a gridare a un gruppo di popolane, cento metri più in là, che il Santo di Jenne era stato ritrovato in via Galvani. La voce corse per i viali pieni di capannelli e di curiosi solitari, come fuoco per la polvere. I capannelli si ruppero, precipitarono verso via Galvani, interrogandosi le persone, nel correre, a vicenda. I curiosi solitari seguirono più lenti, più cauti, e videro presto alquante facce seccate ritornare indietro. Che Santo ritrovato! Era una cagnara delle solite. Qualcuno vede gente scendere in fretta da Sant’Anselmo. Un’altra voce corre: quelli vengono da villa Mayda, quelli sanno! E si fa popolo da destra, da sinistra, tutti si affrettano, come piccioni a una manciata di grano, allo sbocco della via di Santa Sabina. E i curiosi solitarî, più lenti, più cauti, dietro. Che! A villa Mayda non sanno niente, neppure vogliono più rispondere, tanto sono infastiditi dalla processione di gente che viene a suonare il campanello. E un drappello di carabinieri arriva serrato, a passo di carica, svolta in via Galvani. Si odono dei fischi, delle grida irose: «Quelli sanno! Quelli lo hanno menato via!» «No!» grida una fruttivendola in un gruppo fermo sull’angolo di via Alessandro Volta. «è stato un delegato! Sono state le guardie!» In quel gruppo s’inveisce non tanto contro il delegato e le guardie quanto contro le marmotte che avrebbero potuto, se volevano, buttare a fiume delegato, guardie, botte, cavallo e cocchiere e si son lasciate sgominare da quattro parole, da quattro gocce d’acqua. La vecchietta che ha fatto venire Benedetto dall’ex-frate è lì anche lei. L’hanno fermata mentre usciva dal fornaio e racconta per la centesima volta la storia dell’arresto, s’intenerisce per la centesima volta dicendo delle rose e delle parole pie e dell’aria tanto malata che il Santo aveva. Gli uditori si commovono, gemono le odi del Santo. E chi racconta una guarigione miracolosa ch’egli ha operata e chi ne racconta un’altra e chi dice di quel suo parlare che va all’anima e chi di quel viso che vale una predica e chi della sua povertà e chi della carità che trova modo, così povero, di fare. Ecco da via Galvani guardie, carabinieri, arrestati e folla. Un curioso solitario si avvicina a un altro individuo della sua specie, gli domanda che sia avvenuto nel quartiere. Colui non sa niente. I due si mettono insieme, interrogano un popolano che pare averne abbastanza, volersene andare. Il popolano risponde che lì sopra, in una villa presso Sant’Anselmo, ci sta un sant’uomo adorato in tutto il quartiere perchè visita gli ammalati e ne guarisce molti e parla di religione meglio dei preti, così che tutti lo chiamano il Santo. Il Santo di Jenne, anzi; perchè ha fatto molti miracoli in un paese dei monti, che si chiama Jenne, e ne hanno parlato anche i giornali. E iersera, mentre stava assistendo un povero infermo, la Questura lo ha portato via, non si sa perchè. Si diceva che poi lo avessero rilasciato e ch’egli fosse ritornato a casa, alla villa dove lavora da giardiniere; ma la gente della villa nega ch’egli vi si trovi più e non dà spiegazioni. Il popolo è riscaldato, vuole…

Ecco un tram, dei passeggeri fanno segno alla gente e la gente grida, corre verso la prossima fermata, il popolano pianta i due, corre anche lui là dove una folla già si addensa rapida intorno al tram. Lo strascico lento dei curiosi si avvia dietro alla folla, i due apprendono come il tram abbia ricondotto sei cittadini del quartiere che, motu proprio, si erano recati dal Questore. I sei discesero fra la turba impaziente di udire, di sapere. Non parevano lieti. Alla tempesta delle domande rispondevano di chetarsi. Avrebbero parlato, avrebbero riferito, ma non lì nella strada. E già la gente protestava, l’ingiuria fremeva su molte labbra. Colui che pareva il capo dei sei, un tabaccaio, si fece levar sulle spalle dei colleghi e arringò brevemente la folla.

«Abbiamo notizie» diss’egli. «Possiamo assicurarvi fin d’ora che il Santo non è in carcere!»

Scoppiarono dei viva, dei bravo, degli applausi.

«Ma dov’egli sia» proseguì l’oratore «propriamente non si sa.»

Urla e fischi. L’oratore allibbì e dopo essersi debolmente provato di parlare, cedette alla burrasca e calò dai suoi rostri viventi. Ma un’altro dei sei, più gagliardo e ardito, balzò su a rispondere violentemente. Allora le urla, le invettive raddoppiarono. «Vi hanno infinocchiato!» gridava la gente. «Scemi che siete! In prigione lo hanno cacciato! In prigione!» Il grido si diffonde, l’odono i lontani che altro non hanno udito e persino coloro che nè questo nè altro udirono, sentono attraversarsi il petto dalle magnetiche onde oscure dell’ira. Parecchi urlano: «abbasso!» senza sapere chi vogliano giù. Ed ecco da capo i grandi cappelli dei carabinieri, da capo le guardie. Invano i sei si sgolano a protestare, le grida di abbasso e di morte ne coprono la voce. Un delegato fa dare gli squilli. Al terzo succede un fuggi fuggi. Fugge anche la Deputazione col tabaccaio a capo; ma, fuggendo, i sei riescono a trar con sè chi l’uno e chi l’altro dei popolani meno infuriati, con la promessa di dare in un luogo opportuno spiegazioni che non si possono gridare in piazza. Riparano in un deposito di materiali da fabbrica, cinto di un assito. Parecchi li seguono, filtrano, a uno a uno, per l’uscio dell’assito; e il tabaccaio, pensando avere nel petto cose da far crollare il mondo, parla in cospetto della piramide di Caio Cestio, che aspetta indifferente il passar dei secoli fino al silenzio, alle rovine, alla selva.

Il tabaccaio parla, con voce misurata, fra una trentina di facce attente. Dice che il Santo di Jenne non è sicuramente in prigione, che non si sa dove sia, ma che si sanno altre cose, pur troppo. E dice le altre cose. Se le avesse dette alle turbe scendendo dal tram, lo avrebbero fatto a brani. In Questura ridono del Santo e di chi gli crede. Raccontano ch’egli ha un amante, una signora molto ricca; che nella notte è stato interrogato dal Direttore generale della P. S. per ragioni non tanto belle; che quando è uscito del ministero, ha trovato l’amante che lo attendeva in carrozza ed è partito con lei.

«Io non volevo credere» conchiude il tabaccaio «ma ecco! Adesso dica lui.»

Uno dei sei, oste a Santa Sabina, si fece a raccontare che sua moglie aveva udito nel cuore della notte una carrozza fermarsi presso l’osteria; che si era alzata e aveva veduta la carrozza, un legno signorile, con il cocchiere e il domestico in tuba; che il domestico stava allo sportello e aiutava una persona a scendere; che la persona scesa di carrozza era passata a piedi sotto la finestra andando verso Sant’Anselmo e ch’ell’aveva riconosciuto il Santo di Jenne. L’oste soggiunse che non aveva creduto al riconoscimento perchè non c’era luna ed era piovuto fin dopo le undici, per cui la notte doveva essere stata molto buia; che non avendo creduto neppure aveva parlato; ma che poi, all’udire il racconto della Questura, si era dovuto persuadere. E sua moglie aveva dell’altro a raccontare. Si era alzata alle sei. Fra le sette e le otto era passata una botte andando verso Sant’Anselmo. Poco dopo, la botte era ripassata. Questa volta sua moglie ci aveva veduto dentro il Santo di Jenne. Era pronta ad attestarlo con giuramento.

Qui, alcuni fra gli uditori sgattaiolarono dal recinto, corsero a sussurrare le notizie nel quartiere. Ne successe che mentre il tabaccaio e l’oste e i loro amici stavano ancora nel recinto, si fece gente sulla strada di Santa Sabina e un grosso gruppo salì, seguito da due guardie, verso l’osteria.

Entrarono nel cortile. L’ostessa ciarlava con un cliente, sotto il pergolato. La interrogarono ed essa rifece il racconto che aveva fatto al marito. La interrogarono ancora, volevano sapere questo e quello, tanti particolari. La donna finì con rispondere di non ricordar bene. Avrebbe portato da bere, da rinfrescare ad essi l’ugola, a sè la memoria. Che! Quelli non erano venuti per bere, glielo dissero bruscamente. Due ferrovieri, attavolati sotto il pergolato, poco discosto, si seccarono di quell’interrogatorio. Uno di essi chiamò l’ostessa, le parlò a voce alta:

«Che voglion sapere? L’ho veduto io l’uomo che cercano. È partito stamattina alle otto, con una ragazza, per la linea di Pisa.»

La gente si volse a lui, lo interrogò e quegli giurò incollerito che aveva detto la verità, che il loro Santo di Jenne era partito alle otto in una vettura di seconda classe con una bella bionda, conosciutissima. Allora coloro, mogi mogi, se n’andarono. Usciti che furono tutti, una guardia travestita si avvicinò al ferroviere, gli domandò alla sua volta se fosse ben certo di quello che aveva detto.

«Io?» rispose colui. «Se sono certo? Che si ammazzino! Non so nulla di nulla, io. Le ho fatte chetare, le ho fatte andare al diavolo, quelle bestiacce. Corrano almeno fino a Civitavecchia, adesso, e affoghino tutti in mare, loro e il loro Santo!»

«E allora?» fece l’ostessa. «Dove sarà andato?»

«Vada a cercarlo in cantina» rispose il ferroviere «che il fiasco è vuoto e noi si ha sete ancora.»


II.


«Se continui così» esclamò Carlino udendo sua sorella ordinare alla cameriera cappello, pelliccia e guanti, «se mi lasci solo tutto il giorno, ti giuro che ritorniamo a villa Diedo. Almeno là non saprai dove andare.»

«Ho pensato di mandarti Chieco» diss’ella. «Oggi alle due suona dalla Regina e poi verrà da te. Addio.»

E partì senza lasciare al fratello il tempo di replicare. Il suo coupé l’aspettava. Diede al domestico l’indirizzo del sottosegretario di Stato per l’Interno e salì.

Era un sabato. Da più giorni Jeanne non dormiva nè, quasi, mangiava. Il martedì sera aveva saputo dall’Albacina quello che si tramava contro Piero e come suo marito, il sottosegretario di Stato, fosse invitato dal ministro ad unirsi a lui per avere al ministero una conversazione con quest’uomo tanto temuto e odiato dalla corte del Sommo Pontefice, dalla fazione intransigente che voleva prevalere in Vaticano. Ella corse da Noemi, le fece scrivere quel biglietto, telefonò a un giovine segretario suo ammiratore di venire al Grand Hôtel e diede a lui l’incarico di trovare la persona che consegnasse il biglietto, perchè di mandarlo a villa Mayda non era forse più in tempo. Ma sapeva pure, questo gliel’aveva detto Noemi, che Piero era febbricitante. Pensò di fargli trovare alla porta del ministero la sua carrozza col domestico che aveva conosciuto Maironi a villa Diedo. Un’imprudenza; ma che le ne importava? Niente le importava fuorchè la vita cara. La partecipazione di morte della marchesa Nene le era arrivata quella sera stessa, coll’ultima distribuzione. Volle che Piero l’avesse subito, che potesse subito pregare per la povera morta. Strana cosa ma vera: ella si trasfondeva in lui, dimenticando sè, la propria incredulità, per sentire cosa dovesse sentire o desiderar egli con la sua fede. La notte stessa il domestico le diede conto della sua missione. Le descrisse Maironi come uno spettro, un cadavere. Ella si disperò. Sapeva del conflitto fra il professore Mayda e sua nuora, sapeva che il professore era chiamato molto spesso fuori di Roma, lo stimava un grande chirurgo ma non un grande medico, immaginava che nella sua assenza la giovine signora non avrebbe avuto un riguardo, un’attenzione al mondo per l’infermo. E sapeva dei tre soli giorni che s’intendevano concedere dal Direttore generale. Oh non era possibile lasciar Piero a villa Mayda! Portarlo via, bisognava! Trovargli un nascondiglio dove nè Questura nè carabinieri sapessero scovarlo, dove fosse assistito bene, con ogni cura e da un medico valente!

Non pensò a consultare i Selva. Neppure aveva detto a Noemi la propria intenzione di mandare la carrozza al ministero. Le passò per la mente l’idea di proporre loro che ospitassero Piero ma non le parve buona; le relazioni di Piero con Giovanni Selva erano troppo note perchè quello fosse un nascondiglio sicuro. Dentro questa considerazione prudente fremeva una segreta gelosia di Noemi, una gelosia di carattere particolare, non violenta, non ardente, perchè Noemi non amava Piero di un amore simile al suo, ma quasi più tormentosa perchè ella comprendeva che Piero poteva accettare il sentimento mistico di Noemi, perchè di un tale sentimento ella era incapace e anche perchè non aveva una ragione giusta di dolersi dell’amica, di rimproverarla, di sfogarsi. Un altro possibile nascondiglio le si offerse al pensiero, l’alloggio di un vecchio senatore suo conoscente, stato amico intimo di suo padre, molto religioso e pieno di ammirazione affettuosa per Maironi. Afferrò quell’idea. Ora, rivolgendosi al senatore per chiedergli nientemeno che di accogliere in casa sua un uomo ammalato e in pericolo di arresto, le conveniva di giustificare il proprio zelo. Ella non figurava fra i discepoli di Piero e il senatore ignorava affatto il passato. Ma il senatore conosceva Noemi; egli era quel vecchio dai capelli bianchi e dalla faccia rossa che si era trovato alla riunione di via della Vite; Noemi e lui s’incontravano spesso nella «catacomba». Jeanne gli scrisse immediatamente dicendo di farlo a nome dell’amica Noemi che non osava; mise fuori le condizioni di salute e le circostanze che sempre per questo riguardo consigliavano di togliere Maironi da villa Mayda; tacque del pericolo di arresto; espose la preghiera dell’amica; soggiunse che lo stato dell’infermo rendeva la cosa urgentissima, che se il senatore acconsentisse lo pregava di consegnare al latore della lettera una sua carta di visita per Maironi con due semplici parole di offerta. Chiuse domandandogli un colloquio al Senato nella giornata e pregandolo di tacere, intanto, ogni cosa. Poi scrisse a Noemi, l’avvertì di quanto aveva fatto a suo nome, la incaricò di ottenere da suo cognato, se il senatore avesse dato la carta di visita, che si recasse subito in vettura, con la detta carta di visita, a villa Mayda, che persuadesse Maironi ad accettare l’offerta e il professore Mayda a lasciarlo partire, servendosi delle ragioni politiche. Scritte le due lettere ebbe un accesso di prostrazione con fenomeni così gravi che la cameriera si sgomentò. Costei non svegliò Carlino perchè Jeanne trovò la forza di vietarglielo imperiosamente ma fece chiamare il medico senza dirlo alla signora. Il medico pure si sgomentò. Venendo per Carlino l’aveva conosciuta nervosa; però non gli era mai accaduto di vederla in uno stato simile, irrigidita, cadaverica, incapace di parlare. L’accesso durò fino alle sei della mattina. Il primo segno di miglioramento fu questo che Jeanne domandò l’ora. La cameriera, pratica, mormorò al medico «passa» e rispose forte:

«Le sei, signora.»

La parola parve miracolosa. Jeanne ch’era stata adagiata sul letto senza spogliarla, si alzò a sedere, smarrita sì ma padrona delle sue membra e della sua voce. Domandò subito di Carlino, ansiosamente. Carlino dormiva, non aveva udito nulla, non sapeva nulla. Ella respirò, disse sorridendo al medico:

«Adesso caccio Lei.»

E non ebbe pace fino a che il medico non se ne andò. La cameriera si accinse a spogliarla; si prese prima della stupida e poi delle scuse, quasi lagrimose.

«Oh!» disse la ragazza «Lei vuol prima mandare quelle lettere! Sì, sì, le mandi via, quelle cattive lettere, che Le hanno fatto tanto male!»

Jeanne le diede un bacio. Quella giovine l’adorava e lei pure le voleva bene, la trattava qualche volta come una cara sorellina scioccherella.

Chiuse le due lettere, le disse di chiamare il domestico, gli diede le istruzioni: prendere una botte, andare dal signor senatore…, via della Polveriera, 40, consegnare la lettera diretta a lui, aspettare la risposta. Se gli si rispondesse che non c’era risposta, ritornare al Grand Hôtel e riferire. Se invece il signor senatore gli facesse rimettere un biglietto, portarlo con l’altra lettera, in via Arenula, a casa Selva. Un’ora dopo, il domestico venne a riferire che tutto era stato fatto; due ore dopo, un biglietto del senatore avvertiva Jeanne che Benedetto era già a casa sua. A mattina inoltrata venne Noemi. Jeanne riposava, finalmente. Noemi attese che si svegliasse, le raccontò che suo cognato si era subito recato a villa Mayda; che non vi aveva trovato il professore il quale era partito a mezz’ora dopo mezzanotte per Napoli; che Maironi aveva subito accettato l’offerta del senatore; che conoscendo l’umore della persona, Giovanni non aveva creduto di farne saper niente alla giovine signora Mayda; che aveva trovato Maironi molto giù, ma però senza febbre; per cui era sicuro che non avrebbe sofferto del tragitto dall’Aventino a via della Polveriera. Quel buon giardiniere lo aveva bene avviluppato, colle lagrime agli occhi, in una grossa coperta. Forse Jeanne s’ingannava ma le pareva che Noemi, pure mostrandole molto interesse nel parlarle di Piero, mostrandole molto riguardo ai sentimenti di lei, le parlasse però in un tôno diverso da quello di una volta e come un’amica che non avesse mutato linguaggio ma si fosse fatta straniera nel cuore. Avrebb’ella forse desiderato Piero a casa Selva? Probabile.

Da quel mercoledì mattina in poi erano state corse continue. A Palazzo Madama si sorrideva di un riverito collega dai capelli bianchi e dalla faccia rossa, che riceveva ogni giorno, nella sala dei telegrammi, lunghe visite di una bella ed elegante signora. Dal Senato Jeanne correva al Grand Hôtel per somministrare una medicina a Carlino; dal Grand Hôtel a via Arenula per avere e dare notizie o in via Tre Pile per vedere il medico del senatore, che aveva in cura Piero. Corse il giorno e lagrime la notte; lagrime di angoscia per lui consumato da un recondito male invincibile, ripreso dalla febbre dopo ventiquattr’ore di apiressia perfetta. Anche altre lagrime, altre crucciose lagrime per le accuse ch’erano state sparse fra i discepoli e gli amici di Piero e non da tutti respinte. Ella n’era informata da Noemi. Le accuse che riguardavano presunti amori di Piero a Jenne non eran credute, ma era invece creduto da molti ch’egli avesse in Roma relazioni segrete con una signora maritata della quale però nessuno sapeva il nome. Che fossero relazioni tanto colpevoli quanto dicevano i calunniatori non si credeva. I più fedeli non credevano neppure a un legame ideale; ma erano pochi. Una volta Noemi, nel riferire a Jeanne certe defezioni, certe freddezze, ruppe improvvisamente in pianto. Jeanne fremette, si rabbuiò; vide allora negli occhi dell’amica uno sgomento tanto supplice che, trapassando dalla collera gelosa a un impeto di affetti senza nome, le aperse le braccia, se la strinse al seno. Questo era successo il venerdì sera, la sera in cui spiravano i tre giorni concessi a Maironi per allontanarsi da Roma. Verso il mezzogiorno di sabato Jeanne ricevette un biglietto dell’Albacina. La signora del sottosegretario di Stato aspettava Jeanne in casa sua, alle due. Fu per questo invito ch’ella uscì in carrozza poco prima delle due, non curando le proteste di Carlino.


Appena la carrozza partì, Jeanne rialzò il velo, tolse il biglietto dal manicotto e chinatovi su il bel viso pallido, lo fissò non già leggendo, non già scrutando il senso molto piano e semplice delle parole, ma pensando che avesse a dirle l’Albacina, immaginando ogni cosa possibile. Si era deciso di lasciare Maironi in pace? O la Questura ne aveva scoperto la dimora e s’intendeva procedere all’arresto?

«Certo sarà il peggio!» si disse Jeanne. «Ah, Dio!»

E dimentica un momento di sè, si levò il manicotto al viso, vi premette la fronte. Ah forse no, forse no! Rialzato rapidamente il capo, guardò fuori, se qualcuno l’avesse veduta. La carrozza correva veloce, silenziosa sulle ruote di gomma. Ella tornò alle sue congetture, vi si perdette a segno di non avvedersi che la carrozza si era fermata se non quando il cameriere aperse lo sportello. Discese.

L’Albacina le venne incontro sulle scale, pronta per uscire. Jeanne doveva ripartire con lei, subito. Subito? E dove andare? Sì, subito, subito, con la carrozza di Jeanne, perchè l’Albacina non poteva in quel momento disporre della propria. E l’Albacina stesse diede l’indirizzo al cameriere di Jeanne, un indirizzo ignoto a Jeanne, molto lontano. Si sarebbe spiegata in viaggio. E la carrozza riprese la corsa veloce, silenziosa sulle ruote di gomma. Ah, l’Albacina aveva dimenticate le carte di visita! Fece fermare ma poi guardò l’orologio, vide che si perdeva troppo tempo; avanti! Jeanne ne fremeva d’impazienza. Dunque, dunque? Dove si va? Ecco, si va dal cardinale… Jeanne trasalì. Dal cardinale…? Il cardinale aveva fama d’intransigente fra i più fieri. L’Albacina lo doveva assolutamente vedere e un quarto d’ora più tardi non lo avrebbe più trovato in casa. Ah che complicazione di cose! Ella non poteva spiegare tutto in poche parole. Lo scopo della visita, s’intende, era sempre quello per il quale donna Rosetta Albacina lavorava da tre giorni con il confessato interesse alle idee e alla persona del Santo di Jenne, e il non confessato piacere di condurre un intrigo difficile senza dissapori con la propria coscienza. Ella si era incapricciata di Jeanne a Vena di Fonte Alta, nulla sapendo del suo passato. E nulla ne sapeva ora. La sospettava innamorata del Santo ma supponeva un amore mistico, nato all’udirlo parlare nella catacomba di via della Vite. Si teneva certa ch’ell’avesse avuto parte nella scomparsa di lui da villa Mayda, che conoscesse il suo nascondiglio e non volesse dirlo per aver promesso il segreto agli amici. Perchè Jeanne, fidandosi poco della signora che le pareva leggera e della quale non poteva dimenticare ch’era moglie di un nemico potente, le aveva ripetutamente negato di saperlo. Questa scarsa fiducia di Jeanne la offendeva un poco perchè in fondo, lei, donna Rosetta, moglie di un’Eccellenza, arrischiava molto più; ma insomma il suo amor proprio era oramai impegnato nel giuoco la cui posta era la permanenza libera del Santo di Jenne in Roma, ed ella era ferma di tirare avanti la partita.

Una gran complicazione di cose, dunque. Intanto, almeno fino a venerdì sera, la Questura non aveva ancora scoperto l’asilo del Santo. Riteneva che fosse in Roma, questo sì. Qui donna Rosetta fece una pausa, sperando che Jeanne dicesse qualche cosa. Niente. Ammise, riprendendo il discorso, che suo marito potesse sospettare i maneggi ch’ella gli nascondeva, non essere interamente sincero con lei. Questo non era però verisimile. Quando suo marito non parlava sincero, donna Rosetta lo capiva in aria. Capiva pure gli altri, del resto. Quanto a suo marito, donna Rosetta s’ingannava. A Palazzo Braschi si sapeva fino da mercoledì sera dove trovare Maironi, e non lo si voleva dire, e il sottosegretario di Stato si fidava di sua moglie meno ancora che se ne fidasse Jeanne.

Ma le novità grosse erano le vaticane. Avevano raccontato al Papa i fatti di via della Marmorata e Sua Santità era irritatissima contro il Governo perchè le si era fatto credere che il Governo fosse strumento, in questo affare, degli odî massonici contro un uomo gradito al Papa. Intorno al Papa gli animi erano divisi. Gl’intransigenti più fanatici, contrarii al cardinale segretario di Stato, caldeggiavano la nomina sgradita al Quirinale per la sede arcivescovile di Torino e disapprovavano gl’intrighi segreti col Governo italiano. Secondo il loro capo, l’Eminentissimo che donna Rosetta si proponeva ora di visitare, altri mezzi dovevano adoperarsi per sottrarre il Santo Padre alla influenza pestifera di un razionalista inverniciato di misticismo. Queste cose l’Albacina le sapeva dall’abate Marinier che veniva a sorriderne argutamente nel suo salotto. Bisognava sentire quanto veleno di accuse, con quali arti, si seminava dagl’intransigenti, tutti d’accordo in questo, contro quel povero diavolo di razionalista mistico del quale l’abate sorrideva non meno che de’ suoi nemici!

C’erano novità anche al ministero dell’Interno. Quali novità? Donna Rosetta stava per rispondere quando la carrozza si fermò davanti a un grande convento. Il cardinale alloggiava lì. Donna Rosetta discese sola. Dal cardinale la presenza di Jeanne non occorreva, sarebbe anzi stata inopportuna. Occorreva in altro luogo. Jeanne attese in carrozza, crucciata di non sapere ancora, dopo tante chiacchiere, il perchè di quella visita. Passarono cinque, dieci minuti. Jeanne si rizzò sulla persona, dall’angolo dove si era raccolta nei suoi pensieri, a guardar l’entrata del convento, se donna Rosetta ricomparisse. Radi viandanti passavano lenti per la via silenziosa, guardavano nella carrozza. A Jeanne pareva offensivo che vi fosse della gente tanto tranquilla. Ah Dio, e lui, e lui? Il medico le aveva promesso un bollettino al Grand Hôtel per le sette. Non erano ancora le tre. Più di quattr’ore di attesa. E cosa direbbe il bollettino? Tante corse, tante pratiche, tanti maneggi, tante cose, e poi? Dio Dio, e poi? Si morse le labbra, si soffocò un singhiozzo in gola. Ah, ecco donna Rosetta, finalmente. Il cameriere apre lo sportello, ella gli ordina:

«Palazzo Braschi!»

E sale in carrozza, si getta un libriccino ai piedi, si strofina a furia le labbra, invece di parlare, col fazzoletto profumato, dice fremendo che ha dovuto baciar la mano al cardinale e ch’era tanto poco pulita. Però la visita è andata bene. Ah se suo marito sapesse! Ell’aveva fatto una parte veramente orribile. Il cardinale era quello famoso che si era incontrato una volta con Giovanni Selva nella biblioteca del monastero di Santa Scolastica a Subiaco, e lo aveva assalito chiamandolo profanatore delle mure sacre, promettendogli che sarebbe andato all’inferno e più giù. Donna Rosetta aveva soffiato nel suo fuoco per mandare a monte l’accordo segreto fra Vaticano e palazzo Braschi, era andata a raccontargli che la haute religiosa di Torino voleva l’uomo scelto dal Vaticano e sgradito al Quirinale. Quel diavolo di cardinale, conosciuto da lei nel salotto di un prelato francese, aveva sulle prime risposto solamente, col suo accento nè francese nè italiano:

«C’est vous qui me dites ça? C’est vous qui me dites ça?»

Infatti donna Rosetta aveva risposto ridendo:

«Oh c’est énorme, je le sais!»

Era un discorso che poteva costare l’Eccellenza a suo marito. Ma poi l’Eminentissimo le aveva quasi promesso che i voti della haute di Torino parrebbero stati soddisfatti:

«Ce sera lui, ce sera lui!»

Finalmente le aveva detto:

«Comment donc, madame, avez-vous épousé un franc-maçon? Un des pires, aussi! Un des pires! Faites lui lire cela!»

E le aveva dato un libretto sulle dottrine infernali e la dannazione inevitabile dei framassoni. Era il libretto che l’Albacina si era gettato ai piedi salendo in carrozza.

«Figuriamoci» diss’ella «se mio marito legge questa roba!»

Ma che ne importava a Jeanne? Jeanne era impaziente di conoscere le novità del ministero dell’Interno. E ora da chi si andava, al ministero dell’Interno? Dal ministro o dal sottosegretario di Stato?

Si andava dal sottosegretario di Stato, dal marito di donna Rosetta. Donna Rosetta aveva taciuto fino a quel momento il proposito e l’oggetto di questa visita per non lasciare a Jeanne il tempo di schermirsi nè di prepararsi troppo. L’on. Albacina sapeva dell’amicizia di sua moglie per la signora Dessalle e dell’amicizia della signora Dessalle per i Selva, tanto legati, alla loro volta, a Maironi. Egli aveva detto a sua moglie di voler parlare direttamente a questa signora, per fini suoi che intendeva tacere. L’avrebbe aspettata al ministero dopo le tre. Ce la poteva portare lei, sua moglie; ma senz’assistere al colloquio. Il movimento primo di Jeanne fu un’esclamazione di rifiuto. Donna Rosetta la persuase facilmente a mutar consiglio. Ella non poteva dire che progetti avesse in testa suo marito, non lo sapeva; ma secondo lei sarebbe stata follia di non andare, di non udire, poichè non ci poteva essere pericolo, da parte di Jeanne, d’impegnarsi a niente. Jeanne si arrese, benchè il silenzio serbato dall’Albacina fino all’ultimo in cosa di tanto momento, la facesse trepidare come un infermo cui si annunci, dopo molti discorsi scherzosi, la visita di un chirurgo celebre che verrà per dargli un’occhiata e non più.

«Non Le direi di andar sola» conchiuse sorridendo l’Albacina. «Gli uscieri ne hanno viste tante, al tempo di certi ministri e vice-ministri! Ma ci vengo io che al ministero sono conosciuta; e poi adesso quello che accadeva una volta non accade più.»


L’on. Albacina stava presso il ministro. Un deputato, chiamato allora allora per entrare, riconobbe donna Rosetta e le offerse di annunciarla a suo marito. Egli non aveva che due parole a dire, sarebbe uscito subito. Infatti dopo cinque minuti l’on. deputato uscì insieme ad Albacina che pregò Jeanne di passare dal ministro con lui. Le due signore non si attendevano a ciò, donna Rosetta domandò a suo marito se non fosse lui che voleva parlare a Jeanne. Sua Eccellenza non si smarrì per così poco, congedò sua moglie con modi molto sommarî e portò, di sorpresa, la Dessalle dal ministro. La presentò al superiore, imbarazzata, quasi offesa.

Il ministro l’accolse colla più rispettosa cortesia, da uomo austero solito a onorare la donna tenendosene a distanza. Egli aveva conosciuto il banchiere Dessalle, padre di Jeanne, e le ne parlò subito:

«Un uomo» disse «che aveva molto oro nei suoi forzieri ma il più puro nella sua coscienza!» Soggiunse che questa memoria lo aveva incoraggiato ad abboccarsi con lei per una faccenda delicatissima. Proferite ch’egli ebbe queste parole, anzi mentre le diceva, Jeanne sentì con certezza che quell’uomo sapeva il passato. Ella non potè a meno, di guardare alla sfuggita il sottosegretario. Gli lesse negli occhi la stessa scienza; ma lo sguardo del sottosegretario la turbava e la irritava; quello del ministro, invece, le apriva un’anima paterna. Il ministro entrò in argomento parlando di Giovanni Selva del quale fece ampie lodi. Si dolse di non avere con lui relazioni personali. Disse di sapere che Jeanne era amica della famiglia Selva. Egli si rivolgeva a lei per affidare a questi suoi amici una missione importante presso un’altra persona. E parlò di Maironi, sempre avendo cura d’interporre i Selva fra lo stesso Maironi e Jeanne, di evitare ogni accenno a possibili comunicazioni dirette fra l’uno e l’altra. Jeanne lo ascoltava, divisa fra l’attenzione alle sue parole, intensa, lo studio, pure intenso, di preparare una risposta prudente, misurata, e il fastidio sdegnoso che le dava la presenza del piccolo, mefistofelico Albacina. Il discorso del ministro fu diverso da quello che, in principio, ella si attendeva; migliore ma più imbarazzante. Egli le disse che non parlava come ministro ma come amico; che con lei non voleva fare misteri; che certe ombre non avevano avuto assolutamente corpo; che nè ministri, nè magistrati, nè agenti di P. S. avevano a occuparsi affatto del signor Maironi il quale era perfettamente libero di sè e niente aveva a temere dalla giustizia del suo paese, fattasi persuasa della inanità di certe accuse mossegli per odio religioso; ch’egli aveva molta simpatia per le idee religiose del signor Maironi e anche molta stima per i suoi propositi di apostolato, ma che il signor Selva doveva persuaderlo della opportunità di allontanarsi, almeno per qualche tempo, nell’interesse del suo stesso apostolato, da Roma dove gli si faceva dai suoi nemici religiosi una guerra tale, a colpi di calunnie, ch’egli era per rimanere ben presto, inevitabilmente, senza discepoli. Qui il ministro, anche credendo fare cosa gradita a Jeanne, affermò la propria religiosità; abbaglio tragico, pensò lei amaramente. Egli sperava che in un prossimo avvenire il signor Maironi potesse esercitare liberamente la propria influenza in luogo altissimo; vi erano molti segni di una prossima trasformazione di quel tale ambiente, di una prossima disgrazia degl’intransigenti; ma per ora gli era opportuno di eclissarsi. Questo era il consiglio amichevole ma pressante che si desiderava di fargli pervenire per mezzo del suo illustre amico. Accettava la signora Dessalle di parlare all’illustre amico?

Jeanne trepidava. Era da fidarsi? Era da dir cose che forse coloro non sapevano e cercavano sapere da lei? Guardò involontariamente il sottosegretario e gli occhi suoi parlarono così chiaro ch’egli non potè a meno di pigliare una risoluzione.

«Signora» disse col suo abituale sorriso sarcastico, «vedo che Lei non mi desidera. La mia presenza non è necessaria e me ne vado per ossequio al Suo desiderio: desiderio giusto e che si capisce.»

Jeanne arrossì ed egli se ne accorse, si compiacque di averla ferita con la coperta allusione che si conteneva nelle sue ultime parole e più ancora nel sorriso maligno.

«Però» soggiunse collo stesso sorriso «non me ne andrò senz’affermarle, sulla mia parola, che mia moglie Le è un’amica fedelissima, che non mi ha mai tenuto sul Suo conto un solo discorso indiscreto; come, sullo stesso argomento, non ne ho mai tenuto io a mia moglie.»

Vendicatosi così, l’omino se ne andò, lasciando Jeanne agitatissima. Dio, intendevano proprio che avesse a parlare lei, a Piero? Supponevano che lo vedesse, pensavano essi pure che la santità di Piero fosse mentita? Si ricompose con uno sforzo supremo, cercò aiuto nello sguardo grave, mesto, rispettoso del ministro.

«Parlerò al signor Giovanni» diss’ella. «Credo però» soggiunse esitando «che il signor Maironi sia ammalato, che non possa viaggiare.»

Nel nominare Maironi le salirono le vampe al viso. Ella le sentì assai più che non si vedessero. Però il ministro se ne avvide e venne in suo soccorso.

«Forse, signora» diss’egli «Ella dubita di compromettere i Suoi amici Selva. Non abbia questo dubbio. Prima Le ripeto che il signor Maironi non ha niente a temere da nessuno e poi aggiungo che noi sappiamo tutto. Sappiamo ch’è in Roma, che sta, per poche ore ancora, presso un senatore del Regno, in via della Polveriera. Sappiamo pure ch’è ammalato ma ch’è in grado di viaggiare; anzi Lei può dire al signor Selva che io gli farò avere, se vuole, dal mio collega dei Lavori Pubblici un coupé riservato.»

Jeanne, tremante, fu per interromperlo, per esclamare: poche ore ancora? Si contenne appena e prese congedo per correre al Senato, sapere.

«Forse il signor Selva lo ignora» disse il ministro, accompagnandola verso l’uscio «ma il senatore aspetta non so quali parenti e non potrà più alloggiare il signor Maironi. Gli rincresce. Gran brav’uomo! Siamo vecchi amici.»

Jeanne tremava di avere intravveduta la verità. A palazzo Braschi si era macchinato che il senatore congedasse Piero; un’altra spinta per allontanarlo da Roma! Ma possibile che il senatore si fosse lasciato persuadere? Congedare un infermo in quello stato? Salì nel suo coupé, si fece portare a palazzo Madama, chiese del senatore. Non c’era. L’usciere che le rispose così le parve un po’ imbarazzato. Aveva una consegna? Non osò insistere, lasciò una carta colla preghiera di passare dal Grand Hôtel prima di pranzo. Ella stessa partì per il Grand Hôtel fremendo, e gemendo insieme nel suo cuore, battendo colla punta del piede il libretto contro la Massoneria, dimenticato da donna Rosetta. Avrebbe voluto che i due sauri volassero. Erano le quattro e tre quarti e il suo dovere quotidiano era di preparare la medicina per Carlino alle quattro e mezza.


II.


Mezz’ora prima ch’ella fosse di ritorno al Grand Hôtel, vi capitarono Giovanni e Maria Selva. In pari tempo vi capitò il giovane di Leynì che veniva egli pure a domandare della signora Dessalle e parve soddisfatto dell’incontro, però senza letizia. Udito che la signora Dessalle era fuori, i tre visitatori chiesero di aspettarla nella sala di conversazione. I Selva parevano ancora più tristi che di Leynì.

Dopo un breve silenzio, Maria osservò ch’erano le quattro e un quarto e che Jeanne non avrebbe potuto tardar molto perchè alle quattro e mezzo, ogni giorno, aveva un impegno presso suo fratello. Di Leynì pregò di venirle presentato, quando arrivasse. Aveva un messaggio per lei che non conosceva; un messaggio, del resto, che riguardava pure gli amici di Benedetto, quindi anche i Selva. Maria trasalì.

«Un messaggio di lui?» diss’ella, impetuosa. «Un messaggio di Benedetto?»

Di Leynì la guardò, sorpreso di quell’impeto, e tardò un poco a rispondere. No, non era di Benedetto ma lo riguardava. Poichè la signora Dessalle poteva sopraggiungere di momento in momento e si trattava di cosa non tanto breve, non tanto semplice, gli pareva opportuno di non cominciare a parlarne prima del suo arrivo. Domandò poi ingenuamente come mai avesse preso interesse alla sorte di Benedetto questa signora Dessalle che non si era veduta mai alle riunioni di via della Vite, e della quale non aveva mai udito il nome.

«Ma Lei» disse Maria «perchè crede che ci abbia interesse?»

«Eh» rispose di Leynì «ho un messaggio per lei, che riguarda lui, capirà!»

Di Leynì, devoto a Benedetto di una devozione senza confini, non aveva mai creduto alle voci calunniose sparse sul suo conto, le aveva respinte sempre con appassionato sdegno. Non ammetteva del suo maestro nè amori colpevoli nè amori ideali. Nel fare quella domanda non gli era potuto passare per la mente che fra la Dessalle e Benedetto vi fosse una relazione non confessabile. Giovanni troncò il discorso dicendo che la Dessalle avrebbe anche potuto tardare molto e che intanto di Leynì parlasse.

Di Leynì parlò.

Egli aveva visitato Benedetto. Arrivando in via della Polveriera da San Pietro in Vincoli, aveva riconosciuto due guardie travestite che passeggiavano. Poteva essersi ingannato oppure anche poteva essere stato un caso. Però era cosa da farne menzione. Il senatore lo aveva fatto pregare, appena entrato in casa, di passare nel suo studio. Là, parlando con molta cortesia ma con un manifesto imbarazzo, gli aveva detto ch’era lieto di vedere, proprio in quel momento, un amico del suo caro ospite; che Benedetto era fortunatamente senza febbre e, secondo lui, avviato alla guarigione; che un telegramma lo avvertiva dell’arrivo imminente di una sua vecchia sorella; ch’egli aveva una sola camera da letto, nel suo alloggio, oltre alla propria e a quella della fantesca; che gli era impossibile di mandare sua sorella all’albergo e anche impossibile oramai di telegrafarle che ritardasse la sua venuta perchè era già in viaggio; quindi…

Il senatore aveva lasciato a di Leynì la cura di venire alla conclusione. Di Leynì ch’era con altri pochi fedeli nel segreto delle trame contro Benedetto, era rimasto sbalordito. Cosa rispondere? Che il senatore era solo padrone in casa sua? Era forse l’unica risposta possibile. Di Leynì aveva osato esprimere riguardosamente il dubbio che un trasloco riescisse fatale all’ammalato. Il senatore si teneva certo del contrario. Credeva che un cambiamento di aria gli sarebbe utilissimo. Non aveva ancora potuto parlare al medico ma non ne dubitava. Suggeriva Sorrento. Siccome di Leynì nè sapeva più che dire nè si muoveva, il senatore lo aveva congedato pregandolo di recarsi in nome suo al Gran Hôtel dalla signora Dessalle, per le istanze della quale egli aveva ospitato Benedetto, e di invitarla a voler provvedere perchè sua sorella sarebbe arrivata la sera stessa, prima delle undici.

Di Leynì si era poi recato da Benedetto. Dio, in quali condizioni lo aveva trovato! Senza febbre, sì, forse; ma con l’aspetto e la guardatura di un moribondo.

Il giovine aveva le lagrime agli occhi nel parlarne. Benedetto non sapeva di dover partire. Gliene aveva parlato lui come di una cosa non sicura ma possibile. Benedetto lo aveva guardato in silenzio per leggergli nell’animo, e poi gli aveva detto sorridendo: devo andar in prigione? Allora di Leynì si era pentito di non aver aperto subito a un uomo tanto forte e sereno in Dio tutta la verità e gli aveva riferito per intero il discorso del senatore.

«Egli mi prese» disse il giovine con voce rotta dalla commozione «la mano e tenendomela e accarezzandomela pronunciò queste parole precise: “Da Roma non parto. Vuoi che venga a morire da te?” Io mi turbai tanto che non ebbi la forza di rispondergli, perchè poi non so nemmeno se il pericolo dell’arresto non ci sia veramente, se l’atto incredibile del senatore non sia appunto un pretesto per evitare che glielo arrestino in casa e come si potrebbe portarlo in un altro asilo sfuggendo alle guardie. Lo abbracciai, borbottai qualche parola senza senso e corsi via, corsi qua per parlare a questa signora Dessalle. Potrebbe forse venir lei dal senatore e persuaderlo.»

I Selva avevano spesso interrotto di Leynì con esclamazioni di sorpresa e di sdegno. Finito ch’egli ebbe il suo racconto, tacquero, sbalorditi. Prima a interrompere il silenzio fu la signora Maria.

«Questa Jeanne che non viene!» diss’ella, piano.

Fece un segno impercettibile a suo marito e gli propose di andare insieme a vedere se fosse rientrata e non l’avessero avvertita. Nell’attraversare il jardin d’hiver gli disse che le pareva necessario di far sapere a di Leynì chi fosse veramente la signora Dessalle. Jeanne non era rientrata. Giovanni prese a parte il giovine, gli parlò sotto voce. Maria, che lo guardava, lo vide trasalire, spalancare gli occhi, impallidire; quindi parlare alla sua volta, domandare qualche cosa. Jeanne Dessalle entrò frettolosa, sorridente.

Il portiere le aveva consegnato un biglietto del medico. Diceva: «Non credo di poterci ritornare. Stamane era sfebbrato. Speriamo che l’accesso non si rinnovi.»

Jeanne notò subito che non vi si parlava di portare l’ammalato altrove. Ell’abbracciò la signora, stese la mano a Selva che le presentò di Leynì. Ella si scusò poi con tutti di doverli lasciare per cinque minuti. Suo fratello l’aspettava. Uscita che fu promettendo di ritornare subito, di Leynì si affrettò ad appartarsi ancora con Selva. Maria gli vide ricomparire in viso l’ansia di prima, vide che faceva molte domande e che alle risposte di suo marito si andava ricomponendo. Vide finalmente suo marito posargli le mani sulle spalle, dirgli qualche cosa ch’ella indovinò, una segreta cosa, ancora non conosciuta da Jeanne; vide negli occhi del giovine una commozione, una riverenza profonda.

Un cameriere entrò a dire che la signora Dessalle aspettava i signori nel suo alloggio. Vi era molto movimento nell’albergo. Sussurri di strascichi e sordi tocchi di passi si confondevano sui tappeti dei corridoi, sommesse voci straniere, gaie, crucciose, lusinghiere, indifferenti, andavano e venivano, agli ascensori si faceva ressa. Ciascuno della piccola comitiva silenziosa aveva in cuore lo stesso senso amaro di quella mondanità indifferente. Jeanne era nel suo salotto, attiguo alla camera di Carlino che vi stava accompagnando al piano il violoncello di Chieco. Ella venne incontro ai suoi amici con un sorriso che insieme alla musica, un’antica musica italiana semplice e serena, strinse loro il cuore. Parve un po’ sorpresa di vedere di Leynì, del quale non attendeva la visita. Li aveva fatti salire per parlare più libera; disse invece che aveva pensato di offrir loro un concerto di Chieco, il quale però non voleva che si aprisse l’uscio. Del resto si udiva egualmente abbastanza bene. Giovanni l’avvertì subito che il cavaliere di Leynì aveva un messaggio per lei del senatore.

«Mentre Loro parlano» diss’egli «noi ascolteremo la musica.»

E si scostò con sua moglie da Jeanne ch’era diventata pallida e nascondeva male malgrado estremi sforzi l’angosciosa impazienza di udire questo messaggio. Seduto presso a lei, di Leynì cominciò a parlarle sottovoce.

Il violoncello e il piano scherzavano insieme sopra un tema pastorale, pieno d’ingenua tenerezza ilare e di carezze. Maria non potè a meno di mormorare: «Dio, poveretta!» E suo marito non potè a meno di seguire sul viso di Jeanne, al suono della tenera musica ilare, le parole affliggenti del suo interlocutore. Osservava pure il viso del giovine, il quale, parlando alla signora, guardava spesso lui come per significar pena e attingere consiglio. Jeanne lo ascoltava con gli occhi fissi a terra. Quando egli ebbe finito, li alzò ai Selva, i grandi occhi pietosamente addolorati; guardò l’una, guardò l’altro, dicendo muta, involontariamente: «voi sapete?» Gli occhi tristi dell’uno e dell’altra le risposero: sì, sappiamo. La musica ebbe uno scoppio sonoro di gioia. Maria ne approfittò per mormorare al marito:

«Le avrà riferito anche il discorso del voler morire a Roma?»

Il marito rispose che sarebbe stato meglio, che lo sperava. Jeanne pose gli occhi all’uscio onde veniva il fragore della musica, attese un poco e poi accennò ai Selva di avvicinarsi, disse con voce tranquilla che il senatore avrebbe dovuto far avvertire loro, che non sapeva perchè si fosse rivolto a lei. Vedessero loro, adesso, che fosse a fare.

La musica tacque, si udirono Carlino e Chieco discorrere. Di Leynì, che abitava un quartierino di scapolo alla salita di Sant’Onofrio, l’offerse. Ma se c’era un mandato di arresto? Se non si attendeva, per eseguirlo, che l’uscita di Benedetto da quella casa?

Jeanne smentì, pacatamente, la possibilità dell’arresto. I Selva la guardavano pieni di ammirazione per quella calma voluta. Jeanne aveva supposto da un pezzo ch’essi sapessero il nome vero di Benedetto; come non sarebbe sfuggita una parola a Noemi, malgrado tutti i divieti? E un istante prima, nel tacito scambio di sguardi dolorosi, i Selva e lei si erano intesi. Giovanni e sua moglie comprendevano che Jeanne si faceva eroicamente violenza non per loro ma per di Leynì. E adesso anche di Leynì, per le confidenze di Giovanni, sapeva! Parve loro di avere quasi commesso un tradimento.

Essi si tennero certi che se Jeanne diceva di non credere alla possibilità dell’arresto doveva averne ragioni da loro non conosciute. Osservarono che Benedetto avrebbe potuto accettare l’ospitalità loro. Jeanne ricordò pronta che Benedetto stesso aveva espresso un desiderio e che la salita di Sant’Onofrio pareva più adatta di via Arenula per il soggiorno di un ammalato bisognoso di pace. Però, secondo lei, non era possibile ammettere che il trasporto avesse luogo senza un’espressa licenza del medico. In questo si accordarono tutti. I Selva diedero incarico a di Leynì di riferire al senatore che gli amici di Benedetto avrebbero provveduto a trovargli un altro asilo ma però a condizione che il medico curante autorizzasse in iscritto il suo trasporto. Mentre Giovanni parlava, irruppe dalla stanza vicina un tumultuoso allegro del piano, tutto singhiozzi e grida. Egli tacque, non volendo alzar troppo la voce, lasciò passare l’impeto della musica straziante. E straziante fu la parola che gli occhi di lui e gli occhi del giovine si dissero durante quel silenzio delle labbra.


Di Leynì non aveva tempo da perdere, prese congedo. Gli spiaceva di andare solo, avrebbe desiderato presentarsi al senatore con qualcuno fra gli amici di Benedetto che potesse mettergli un po’ di soggezione, perchè il suo contegno non si capiva.

Giovanni Selva mormorò qualche cosa circa una vicepresidenza del senato cui quel vecchio aspirava e che non otterrebbe. Amaro dolore, scoprire miserie tali dove meno si sarebbe creduto! Maria si alzò, offerse a di Leynì di andare con lui.

«Lei resta?» chiese Jeanne, vivacemente, a Giovanni. L’accento diceva: Lei deve restare. Selva rispose che sarebbe rimasto a ogni modo e l’espressione della sua voce, del suo viso fu tale da significare a Jeanne che gli pesavano sul cuore parole tristi non ancora dette. Oh, pensò Jeanne, se adesso Chieco uscisse, se Carlino chiamasse e non fosse più possibile di parlarsi! Perchè anche lei doveva parlare a Selva. Gli doveva riferire il discorso del ministro. I due musicisti avevano nuovamente smesso di suonare, discorrevano. Jeanne bussò discretamente all’uscio, vi soffiò dentro due paroline gaie:

«Bravi! Già finito?»

«No, bella mia» rispose Chieco, di dentro. «Accidenti a Voi se vi seccate!»

E modulò un fischio infernale, da forare l’uscio. Jeanne battè le mani. Piano e violoncello attaccarono un grave andante.

Ella si volse a Selva che rientrava dall’avere accompagnato fuori sua moglie per dirle di telegrafare a don Clemente. Gli andò incontro a mani giunte, colle lagrime agli occhi.

«Selva» mormorò con voce soffocata, «Lei già sa tutto, a Lei non posso nascondermi. Vi è qualche cosa di peggio, mi dica la verità.»

Selva le prese le mani, gliele strinse in silenzio mentre il violoncello rispondeva per lui, amaro e grave: «Piangi, piangi, perchè non è sorte di amore e di dolore come la tua sorte.» Egli stringeva le povere mani di ghiaccio, non riuscendo a parlare. Lo capiva bene, di Leynì non aveva osato riferirle le parole terribili — vengo a morire da te — ; toccava a lui di darle il primo colpo.

«Cara» diss’egli dolcemente, paternamente, «non Le ha egli detto al Sacro Speco che in un’ora solenne La chiamerebbe a sè? L’ora è venuta, egli la chiama.»

Jeanne diede un balzo, le parve di non aver capito.

«Oh, come? No!» diss’ella.

Poi, tacendo Selva con la stessa pietà negli occhi, ebbe un lampo al cuore, fece «ah!», si porse tutta in una muta angosciosa domanda. Selva le strinse le mani ancora più forte, un singhiozzo represso gli scosse il petto, gli contorse le labbra serrate. Ella non disse niente ma cadeva se non la sorreggevano le mani di lui. La sorresse, la pose a sedere.

«Subito?» diss’ella. «Subito? È una cosa imminente?»

«No, no, La chiama per domani. Lui crede che sia domani, ma può essere che s’inganni, speriamo che s’inganni!»

«Dio, Selva, ma se il medico scrive ch’è senza febbre!»

Selva fece il gesto di chi è costretto ad ammettere una sventura senza comprenderla. La musica taceva, egli parlò sotto voce. Benedetto gli aveva scritto. Il medico lo aveva trovato senza febbre ma egli presentiva un nuovo accesso dopo il quale sarebbe venuta la fine. Iddio gli faceva la grazia di un’attesa quieta e dolce. Aveva una preghiera da fargli. Sapeva che la signora Dessalle, amica della signorina Noemi, era in Roma. Egli aveva promesso a questa signora, davanti a un altare del Sacro Speco, di chiamarla a sè, prima di morire, per un colloquio. Molto probabilmente la signorina Noemi gliene potrebbe dire il perchè.

Selva s’interruppe. Aveva in tasca la lettera, fece l’atto di cavarla. Jeanne se n’avvide, fu presa da un tremito convulso.

«No no» diss’egli. «Le ripeto che può ingannarsi.»

Aspettò che si chetasse e invece di trarre la lettera, ne disse l’ultima parte a memoria:

«L’accesso ritornerà stasera o stanotte, domani sera o dopodomani mattina sarà la fine. Desidero vedere domani la signora Dessalle per una parola nel nome del Signore, al quale vado. Ho testè pregato il senatore di ottenermi questo colloquio ma egli si scusò. Mi rivolgo dunque a Lei.»

Jeanne si era coperto il viso colle mani e taceva. Selva credette bene di suggerire speranze. L’accesso poteva non ritornare, poteva esser vinto. Ella scosse violentemente il capo ed egli non osò insistere. A un tratto le parve udire Chieco prender congedo. Trasalì, scostò le mani dal viso spettrale fra i capelli scomposti. Invece scoppiarono le prime allegre note del Curricolo napoletano, il pezzo che Chieco suonava sempre per ultimo. Ella balzò in piedi, parlò convulsa, senza lagrime:

«Selva, so che Piero muore, so che non s’inganna. Lo faccia restare dov’è, s’è possibile. Gli conduca i suoi amici, me lo giuri che glieli condurrà, che gli procurerà questo conforto. Dica tutto ad essi di me, dica loro la verità, dica loro quanto è puro, quanto è santo, Piero. Io aspetto qui. Non mi muovo. Andrò quando Lei mi dirà, dove lei mi dirà. Sono forte, vede, non piango più. Telegrafi a don Clemente che il suo discepolo muore e che venga. Facciamo tutto quello che dobbiamo fare. È tardi, vada. E Lei già in un modo o nell’altro lo vedrà, Piero, stasera. Gli dica...»

Qui un colpo di spasimo ruppe la parola. Chieco entrò zufolando, battendo palma a palma nella sua bizzarra maniera e Selva scivolò fuori dell’uscio. Jeanne gli corse dietro nel corridoio scuro, gli afferrò una mano, v’impresse un bacio frenetico.

Qualche ora dopo, verso le dieci, Jeanne stava leggendo il Figaro a Carlino sprofondato in una poltrona con le gambe avvolte in una coperta, e sulle ginocchia, strettavi a due mani, una gran tazza di latte. Jeanne leggeva talmente male, talmente noncurante di punti e di virgole, che suo fratello la interrompeva ogni momento, s’impazientiva. Leggeva da cinque minuti quando la cameriera venne ad avvertirla che c’era la signorina Noemi. Jeanne gettò il giornale, balzò in un lampo fuori della camera. Noemi raccontò frettolosamente, in piedi, premendole per l’ora tarda di ripartire, che mentre Giovanni e Maria stavano al Grand Hôtel, il professor Mayda, reduce da Napoli, era venuto a casa Selva, fuori di sè, a chiedere spiegazioni della scomparsa di Benedetto da casa sua; che allora ella gli aveva raccontato tutto; che Mayda era andato direttamente in via della Polveriera; che ci aveva trovato Maria, di Leynì, il senatore e il medico, il quale era di opinione che Benedetto si potesse trasportare; che fra il medico e Mayda vi era stato un diverbio a proposito di ciò e che Mayda lo aveva troncato dicendo: «ebbene, piuttosto di lasciarlo qui, me lo riporto via io.» Ed era ritornato più tardi con una carrozza piena di guanciali e di coperte, se lo era portato via. Pareva che il viaggio fosse andato bene.

Udito il racconto, Jeanne abbracciò silenziosamente l’amica, stretta stretta. E l’amica, palpitante, lagrimosa, le sussurrò:

«Senti, Jeanne. Per domani, preghi?»

«Sì» rispose Jeanne.

Tacque, lottando contro l’insorgere di una tempesta di pianto. Quando ebbe vinto, riprese sotto voce:

«Non so pregar Dio. Sai chi prego? Prego don Giuseppe Flores.»

Noemi le posò il viso sur una spalla, disse con voce soffocata:

«Vorrei che dopo egli ci vedesse lavorare insieme per la sua fede.»

Jeanne non rispose ed ella partì.


Jeanne ritornò da Carlino per la lettura e Carlino l’accolse aspramente. Le dichiarò che ne aveva abbastanza di quella vita e ch’ella doveva prepararsi a partire con lui l’indomani per Napoli. Jeanne rispose che era una follia e che non sarebbe partita. Allora Carlino diede in escandescenze, le afferrò i polsi, la scosse a segno da farle male. Doveva assolutamente partire! Poichè resisteva, era venuto il momento di dirle che si sapevano i motivi dei suoi andirivieni, dei suoi misteri, dei suoi occhi rossi, del suo leggere male e anche, ora, del suo non voler partire da Roma. Egli n’era stato informato da lettere anonime. Guai a lei se non la rompesse con quel pazzo! Guai a lei se gli sacrificasse le sue idee, se si lasciasse conquistare dalla superstizione, dal bigottismo, dalla religione dei preti! Non l’avrebbe mai più guardata in faccia. L’avrebbe rinnegata per sorella, da libero pensatore come voleva vivere e morire. No no, troncare, troncare, Napoli, Palermo, l’Africa, se occorresse!

«Libero pensatore? Certo. E la libertà mia?» disse Jeanne senza sdegno, a ricordo di un diritto e non per il proposito di usarne. Carlino intese invece che proprio volesse usarne come a lui non piaceva e perdette addirittura il lume degli occhi. Jeanne tramortì nell’udire quell’uomo nervoso ma creduto da lei buono e gentile scagliar tante ingiurie con tanto fiele. Non rispose niente, si ritirò, tutta tremante, nella sua camera, gli scrisse due righe per dirgli che la sua dignità non le permetteva di restare con lui fino a che non si fosse disdetto delle sue offese, che se ne andava, che s’egli avesse una parola per lei la mandasse a casa Selva. Non prese con sè che una piccola borsa e uscì accompagnata dalla cameriera lasciando la lettera sulla scrivania.

Non vide carrozzelle presso l’albergo e si avviò verso l’esedra per prendervi il tram. Infuriava il tramontano, i lecci del viale si dibattevano stridendo, era buio, si camminava malissimo sul suolo tutto sossopra, la cameriera esclamò sgomenta:

«Gesummaria, signora, dove andiamo?»

Jeanne, col capo in fiamme, col cuore e i polsi in tumulto, continuò la via senza rispondere; parendole venir portata dai flutti di un mare ignoto, nelle tenebre, verso lui.

Verso lui, verso lui. Anche verso il suo Dio? Il vento potente la stordiva ruggendole sopra e ai lati. Le parole di Noemi, le parole di Carlino le straziavano l’anima con opposta violenza. Anche verso il suo Dio? Ah che ne poteva sapere? Intanto verso lui!



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