< Il Sofista e l'Uomo politico
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Platone - Il Sofista e l'Uomo politico (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Giuseppe Fraccaroli (1911)
Capitolo IV — La tesi dell'uomo politico
III V



CAPITOLO IV.


La tesi dell'Uomo Politico





Sommario: 1. La scienza politica. — 2. Caratteristiche del dialogo. Il sofista, il politico e il filosofo. — 3. Il mito. — 4. La teoria dello Stato.


1. Che cosa è l’uomo politico? Che anche Socrate si ponesse questa domanda (l’abbiamo già notato), ce lo attesta Senofonte1, e nell’atto di cercarne la risposta ce lo rappresenta l’Eutidemo di Platone. E poiché nell’Eutidemo sono accennati sommariamente parecchi punti che poi nel Politico sono trattati più a fondo, riferirò qui per disteso quel brano, e gioverà, io credo, meglio di un commento.

Socrate riferisce a Critone una conversazione da lui avuta coi sofisti Eutidemo e Dionisodoro in presenza di Ctesippo e del giovane Clinia, e di discorso in discorso si viene alla questione, quale sia la scienza più utile ad acquistarsi. Non quella di scavar l’oro, perchè l’oro è inutile a chi non lo sappia adoperare; così nessun’altra arte del pari, la quale, pur insegnando a fare una cosa qualsiasi, non insegni anche a servirsene; e molte se ne passano in rassegna scartandole tutte, compresa anche quella del fare discorsi. Finalmente Socrate propone l’arte militare, ma a Clinia non pare neanche questa (p. 290 B).

— “Come? dissi io.

— È una specie di caccia degli uomini.

— E che perciò? dissi io.

— Nessuna specie, disse, dell’arte venatoria va più in là del cacciare e impadronirsi; quando poi se ne siano impadroniti, non sanno servirsi di ciò che hanno preso, ma i cacciatori e i pescatori lo dànno ai cuochi, e i geometri e gli astronomi e i computisti, — chè son cacciatori anche questi, perocchè non creano essi le figure2, ma pigliano quelle che ci sono, — come incapaci di giovarsene e sapendo soltanto rintracciarle, le trasmettono ai dialettici, acciocchè si servano delle loro scoperte, quelli di loro almeno che non sian del tutto sciocchi.

— Ebbene, dissi io, o bellissimo e sapientissimo Clinia, ma la è poi così?

— Senza dubbio. E anche i generali, disse, proprio così allo stesso modo, quando abbiano preso una città o un alloggiamento, lo consegnano agli uomini politici, perocchè essi non san che farsene di ciò che hanno preso, come, credo, coloro che pigliano le quaglie, le dànno a quelli che le allevano. Se pertanto, disse, abbiamo bisogno di quell’arte, la quale di ciò che essa abbia procacciato, sia producendolo, sia predandolo, sappia essa stessa anche servirsi, e questa deve fare felici, bisognerà, disse, cercarne qualche altra in cambio dell’arte militare„.

A questo punto Critone interrompe: egli non crede che un giovinetto come Clinia abbia potuto fare di tali osservazioni, e Socrate ammette che possa essere stato qualche altro; certo nè Eutidemo nè Dionisodoro. Allora Critone gli domanda se quest’arte poi l’abbiano trovata, e Socrate risponde (p. 291 E):

— “E dove trovarla, o benedetto? Eravamo anzi del tutto ridicoli, come i fanciulli che corron dietro alle allodole. Sempre credevamo, ciascuna che ci si presentava, di esser lì per prenderla, e sempre ci sfuggivano. Ma perchè te le avrei io a riferir tutte? Venuti finalmente all’arte regia, ed esaminandola, se mai fosse quella che ci dona e crea la felicità, cascammo qui come in un labirinto, e credendo di esserne già a capo, continuando a girare ci trovammo di nuovo come al principio della ricerca, e ci mancava ancora quel tanto che quando da principio l’avevamo iniziata.

Crit. — E come vi accadde ciò, o Socrate?

Socr. — Te lo dirò. Trovammo infatti che l’arte politica e la regia erano tutt’uno.

Crit. — E che allora?

Socr. — Che a quest’arte e l’arte militare e le altre dànno a governare le cose di cui esse sono produttrici, come a quella sola che sa servirsene. Chiaramente pertanto ci pareva esser questa quella che andavamo cercando, questa la cagione del prosperare cittadino, questa veramente, secondo il giambo di Eschilo3,

Sopra la poppa dello Stato assisa

governando ogni cosa e tutte le cose dominando, esser quella che le rende tutte utili„.

La discussione intorno alla scienza politica continua ancora: essa dev’essere utile; esser utile vuol dire produrre un bene; e il bene, s’era visto, non è altro che la scienza.

“Pertanto„, conchiude Socrate (p. 292 C), “gli altri effetti che si potrebbero dire pertinenti alla politica, — e questi potrebbero esser molti, come, per esempio, il fare i cittadini ricchi e liberi e concordi, — tutti questi s’è visto esser nè buoni nè cattivi, e che bisognava invece farli saggi e partecipi di scienza, se questa dovea essere la scienza utile e che ci faceva felici„.

Insomma neppur la politica è la scienza delle scienze.

Quale è questa scienza? Sebbene l’Eutidemo non la determini, non v’ha dubbio essere la filosofia, ed è questa in sostanza anche la conclusione del Politico.

2. E per verità, nel Politico si delinea innanzi tutto anche nei particolari quella gerarchia delle scienze che nell’Eutidemo è intuita: la comunicabilità delle idee scoperta nel Sofista agevola la via a questa nuova ricerca, che è un’applicazione dello stesso principio, come applicazione dello stesso principio in genere può dirsi il contemperamento delle diverse indoli nell’unità dello Stato, che sul finire del dialogo è proposto come il fondamental problema che l’uomo politico deve cercar di risolvere. La speculazione platonica è un continuo divenire, e il procedimento è continuo: non c’è sosta, non ci sono salti, non ci sono ritorni, non ci sono palesi pentimenti; la fronda di oggi germoglia dal seme di molti anni addietro; l’antica intuizione cresce a scienza e coscienza.

E come il Politico continua il Sofista, così gli somiglia, oltre che nelle caratteristiche generali, di cui abbiamo discorso nel primo capitolo, anche in molti atteggiamenti speciali. Esso pure procede per dicotomie; esso pure si giova distesamente di un parallelo molto umile, quello del tesser la tela, come si fa nel Sofista con quello del pescar con la lenza; ed anche in esso la definizione del tipo che si cerca viene un po’ per volta sceverata dalle rappresentazioni simili o analoghe. Ma se pare meno importante del Sofista per ciò che non contenga alcuna speculazione così nuova e profonda come quella della comunione delle idee, esso però la compie e la svolge ulteriormente. Le conclusioni infatti del Sofista sulla classificazione delle specie vengono qui scientemente messe in pratica. Le bipartizioni fin da principio4 vi son condotte su di una norma dialettica, di cui gli interlocutori, in seguito alla discussione precedente, si mostrano pienamente consapevoli. Oltre di ciò5 vi si dichiara la norma fondamentale del bipartire, che è quella del seguire la specie (εἶδος) e non la parte (μέρος), ancorchè poi una tal nomenclatura non sia mantenuta sempre rigorosamente. E finalmente6 si ammette la possibilità di dividere in anche più di due sezioni. Così avviene che, provato nel Sofista essere le idee comunicabili tra loro, si tenda nel Politico a determinare quale sia il filo che le congiunge e come le congiunga, adoperando a tale uopo non solo l’analisi ma anche la sintesi7, ricorrendo più ampiamente alla analogia di esempi dichiarativi e suggestivi, distinguendo non solo l’identico dal diverso, ma altresì l’affine dall’affine, le cause dalle concause8, e segnatamente i rapporti reciproci e quelli con la giusta misura9. Così dalla classificazione delle specie si sale alla classificazione delle scienze singole come parti e membra dell’unità della scienza universale10. Dice perciò bene il Jowett11, che a questo dialogo converrebbe il sottotitolo del metodo.

L’uomo politico del resto, lo si afferma subito nel principio del dialogo, è ben diverso e migliore del sofista. Il sofista è maestro di menzogna: egli finge di sapere ciò che non sa, e lo dà ad intendere come lo sapesse: se anche in un certo senso egli imita il vero, egli non lo imita che per deformarlo: è la somiglianza che ha il lupo col cane. L’uomo politico non è invece affatto di sua natura così ignobile, e se è tale, è in quanto egli sia sofista12: e poichè questo è il caso di gran lunga più generale13, non solo per colpa degli uomini ma anche per la natura stessa delle cose, è da meravigliarsi non già che gli Stati vadano in rovina, bensì che durino a resistere più che non si crederebbe14. Idealmente parlando anzi il solo vero uomo politico sarebbe il filosofo, colui che conosce e che sa, sia egli o non sia investito di autorità nello Stato15. Egli è il politico vero per natura sua e per sua essenza, non per capriccio di fortuna e degli uomini. Platone, osserva bene ancora il Jowett16, non si cura più di immaginare uno Stato in cui il filosofo dova esser fatto re17; il filosofo è già re per sua natura, e tanto gli basta. E questo filosofo che è re per sua natura, ed è perciò migliore d’ogni codice, è insomma quel buono e savio tiranno che viene descritto nelle Leggi18, il quale dovrebbe far felice lo Stato, se, nota sempre il Jowett, a ottenere il bene dello Stato potesse bastare il capo sapiente senza la cooperazione dei cittadini19.

Se pertanto il vero sofista era non solo diverso ma l’opposto del filosofo, e se il vero politico (non quello che si chiama abusivamente con tal nome) è invece il filosofo stesso, come siamo giunti a tal conclusione, ci troviamo aver ben più che delibato anche la materia della terza parte del programma, e questa mi pare una spiegazione sufficente del perchè il terzo dialogo non fu scritto. Politico e filosofo sono una cosa sola anche nel Timeo20: a che pro una trattazione separata? Per quella evoluzione che è propria di ogni pensiero e specialissima poi del pensiero platonico, procedendo la trattazione, anche qui il problema si cambiò: la proposta di prima non avea più ragione di esser mantenuta21.

Gli è che Platone riconosce che questo ideale di politico filosofo è praticamente impossibile trovarlo, e che bisogna perciò accontentarsi delle meno peggiori tra le altre forme cattive di governo. Il principe filosofo vale di gran lunga meglio della legge, ma l’impero della legge è infinitamente meno disastroso del capriccio e dell’arbitrio del non filosofo. E poichè intendenti di politica che si accostino al tipo ideale è men difficile trovarne pochi che molti e più facile uno che più, ne viene che la monarchia corretta dalle leggi, la monarchia costituzionale, diremmo noi, è il reggimento migliore e più tollerabile a viverci22; monarchia costituzionale per altro diversa parecchio da quella di cui molti ora si contentano, dove quell’uno che dovrebbe reggere lo Stato è ridotto all’ufficio di automa, e quei più che dovrebbero esser custodi delle leggi s’adoperano continuamente, ciascuno per suo conto o molti insieme, a torcerle e a violarle.

La rappresentazione dell’uomo politico pertanto si differenzia da quella del sofista in un punto capitale che non credo sia stato abbastanza notato, ed è questo: il sofista falsifica l’Essere in quanto è oggetto del conoscere; l’uomo politico cerca imitarlo in quanto è soggetto; in altre parole, l’uno guarda l’Essere in quanto è passivo, l’altro in quanto è attivo, l’uno in quanto è, l’altro in quanto opera23. Questo lato della concezione dell’Essere, abbiamo veduto come nel Sofista sia accennato quasi per incidenza e più in forma di energica asseverazione che non di dimostrazione: qui ripiglia la parte principale. Il governo paradimma è il governo di Dio, e il vero uomo regio deve imitare l’azione di Dio in questo governo: l’Essere attivo qui è Dio veramente ed esplicitamente, non le idee; è già il demiurgo del Timeo.

3. Questo spiega l’introduzione del mito e ne è il senso. Il governo di Dio e il paradimma, ancorchè sia aggiunto subito come e perchè l’imitazione se ne deva necessariamente scostare di gran lunga. Che se è evidentissimo, e non può su questo esservi dubbio di sorta, che il Dio che nel mito fa girare il mondo nella direzione opposta al suo moto naturale, non sia adatto da prendere per più che un simbolo plastico, e la favola sia introdotta espressamente come uno scherzo, non è affatto scherzo il principio a cui il simbolo serve di veste.

Non è scherzo quanto alla metafisica. Nel Sofista infatti si era dimostrata la comunicabilità dell’Essere col Non essere: nel Timeo si dimostrerà che la creazione è composta di identico e di diverso, e i due moti che li rappresentano saranno rappresentati da quello delle stelle fisse e quello dei pianeti combinati insieme nei due sensi opposti: qui siamo nello stadio di mezzo, e i due moti sono distinti e successivi. Ma se questa soluzione è ben lungi dall’avere il carattere scientifico di quella del dialogo posteriore, il problema è lo stesso: conciliare l’Essere e il Non essere. Poichè il mondo dei sensi non è, ne vien di conseguenza che il movimento suo naturale sia il diverso, e di necessità questa volta l’antitesi di quello dell’Essere.

Non è scherzo, specie nelle sue conseguenze, quanto alla logica. Se infatti questo è il paradimma del governo, non è più necessario dimostrare che la imitazione più vera dovrebbe esser quella per la quale lo Stato sia retto da un principe filosofo che lo guidi secondo scienza e verità24. Ma poichè trovarlo sia impossibile e si debba perciò attenersi al minor male, ecco che ritornano per tal modo a riaffacciarsi i problemi trattati già nella Repubblica, il reggimento dei filosofi, il corrompersi delle forme di governo, le norme per il matrimonio e la famiglia, e con essi la conclusione che la vera arte regia consiste nell’intrecciare anche nella tela dello Stato i simili e i diversi. È dunque un’applicazione al mondo della pratica di quel principio logico di comunicabilità delle idee che era stato dimostrato nel Sofista.

Ma oltre al valore logico e metafisico che il Politico ha comune col dialogo precedente, non si può disconoscere in esso, specie come irradiazione del mito, anche un senso simbolico e mistico che lo ricollega alle dottrine pitagoriche, le quali, note a Platone assai prima25, diventano assolutamente preponderanti nei dialoghi dell’ultima maniera, specie in questo nostro26 e nel Timeo. Il mito in Platone infatti (è questa una caratteristica generale) suol essere un simbolo di verità che non sono ancora assurte, o non possono assurgere ad una formulazione razionale: esso non è di natura sua dimostrativo ma suggestivo: esso rappresenta la verità in forma fantastica, e dalla logica differisce quanto un’intuizione da un’argomentazione. Per questo suo contenuto sostanziale si spiega l’insistenza frequente di Platone nel voler farlo credere come vero. E vero è infatti; o se non è verità logica, si può dire per lo meno che esso è immagine della verità, come il mondo sensibile dell’intelligibile. E tale è anche il mito del Politico.

Ad uno stato di innocenza infatti succede in esso un periodo di corruzione: che se il cambiamento non è determinato da una colpa attuale, esso, ciò che è peggio, è inerente alla materia, la quale porta in sè per natura sua il germe del diverso. È notevole per altro che anche quella vita di innocenza, che Platone si finge, non è per sè stessa vita perfetta e interamente passiva sotto il governo di Dio. Come il primo uomo nel Paradiso Terrestre poteva obbedire e non obbedire al comando del suo padre e creatore, così quello del mito platonico, ma con più limitata libertà, poteva approfittare delle sue vantaggiose condizioni per procedere innanzi nella conquista del vero, e poteva invece perdere il tempo in frivolezze. Ad ogni modo esso aveva la vita facile e sana, e la elezione sua, si può dire, si limitava a goder del bene o a cercare il meglio, una differenza di grado sempre nella stessa direzione. Ma come Dio lascia il governo del mondo, e questo gira come porta la propria natura del diverso, anche l’uomo ripiglia la sua libertà piena e intera, e la libertà è la causa del male: essa è però altresì la causa di meritare. Lo scopo della vita, anche nell’attuale ordine del mondo, è il conoscere; e quanto è più difficile raggiungere questo scopo in quest’ordine, tanto maggiore è lo slancio necessario, e quindi il merito di raggiungerlo. Platone lo dice chiaramente: non è la facilità della vita il bene finale dell’uomo. Terminata infatti la descrizione di quell’età di innocenza, il Forestiero eleate domanda al suo interlocutore, se tra quella vita e la nostra egli saprebbe distinguere quale sia più felice; e l’altro risponde che non lo sa in alcun modo. Sì, soggiunge il Forestiero, quelli là erano di gran lunga più felici, qualora per altro, ciò che non sappiamo, si siano rivolti alla filosofia; se no, no. È facile la conclusione, che una vita virtuosa, cioè una vita intesa tutta al conoscere, è per sè superiore a una vita innocente, e che l’uomo che è capace di rilevarsi, come anche afferma il dogma cristiano, non ha perduto nulla per il suo cadere. Nè rilevarsi per altro potrebbe senza l’aiuto di Dio. Platone infatti dichiara espressamente, che neanche durante le attuali condizioni Dio ha abbandonato l’opera sua: egli si ritira solo nella sua specola27 a osservare, pronto a riprenderne il governo, quando essa fosse in procinto di perire; e intanto soccorre indirettamente alla nostra debolezza procurandoci i mezzi di difenderci e di salvarci, come il fuoco, le arti, e quanto è indispensabile alla vita.

Per tal modo Iddio, che è il bene, non è e non può essere autore del male; egli soltanto lo permette, e questa permissione, più che un atto suo, è una parziale sospensione del suo atto, per la quale la natura corporea riprende, per così dire, il suo diritto, e si manifesta per quello che è, cioè diversa dal bene. La creazione è buona, dice il Timeo: poichè però essa non è ma diviene, era necessario assumere in essa anche un elemento mutevole: essa perciò è buona per quanto poteva essere, ma non buona assolutamente: essa anzi perirebbe, se Dio non intervenisse a salvarla, qui restaurandola di tanto in tanto e raddrizzandola, nel Timeo28 conservandola costantemente e perseverando nel voler conservarla in eterno. In altre parole Dio è la fonte unica dell’immortalità e della vita, e non vi sono due potenze divine, l’una per il bene, l’altra per il male: il concetto del male, dopo la discussione del Sofista, diventa più di negazione che di opposizione al bene: esso è solo in quanto anche il Non essere è.

4. Più lungo discorso richiederebbe l’esame della teoria dello Stato, la quale in questo dialogo ci si presenta parecchio diversa da quella anteriore della Repubblica, e simile, ma non identica, a quella posteriore delle Leggi. Ma poichè sono tre stadi di un concetto solo, che si viene man mano modificando ed elaborando, la trattazione di questo argomento sarà più a proposito congiungerla col primo o con l’ultimo dialogo, quando la teoria si traccia o la si conchiude, anzichè a questo luogo dove è rappresentata in un momento transitorio e in forma più sommaria delle altre due volte.

Qui basti richiamare l’attenzione dello studioso sulla diversità tra il principe ideale di Platone e quello che ci rappresenta Senofonte nella Ciropedia, dalla quale diversità scaturisce il diverso e opposto successo pratico dei due statisti. Platone, che immagina gli uomini come dovrebbero essere, è ingannato e burlato dall’uno e dall’altro Dionisio; Senofonte, che li conosceva per quello che sono, seppe cansarsi dalle insidie dei potenti anche nei frangenti più pericolosi29.

  1. Mem. I, 1, 16.
  2. Cfr. Soph. pag. 219 DE.
  3. Sept. adv. Th. vv. 1-4.
  4. Pag. 258 C.
  5. Pagg. 263 B e 286 D.
  6. Pag. 287 C.
  7. Questo doppio procedimento era stato affermato occasionalmente anche nel Fedro, pag. 265 D E.
  8. Cfr. nota a p. 281 C.
  9. Cfr. nota a p. 283 D. Questo principio, formulato qui per la prima volta e svolto poi da Aristotele nell’Etica, prelude e spiega quello del Timeo, p. 35 A, per il quale il rapporto costituisce un’essenza mediana che sta in serie proporzionale tra i due estremi. Qui invece questa medietà è fissa; e non è un rapporto, ma un canone. È del resto un principio verissimo, ancorchè più facile a intuirsi che a determinarsi: basta pensare alle opere d’arte, la misura delle quali è tutt’altro che arbitraria. L’arca di Can Signorio fu riprodotta per il duca di Brunswick, ma in maggiori proporzioni, e non è più quella: così vediamo tante volte una bella bambina, pur conservando le stesse fattezze, diventare una donna non bella.
  10. Soph., p. 257 C; Pol. p. 258 E.
  11. O. c. IV, p. 435.
  12. Pag. 291 C.
  13. Pag. 303 B C. Che i sofisti e i retori loro fratelli germani dirigessero la loro attività alla vita pratica e intendessero addestrare alle lotte politiche è risaputo: di tal loro palese professione è testimonio e capital documento tutto il Protagora.
  14. Pag. 302 A.
  15. Anche Socrate affermava questo: Mem. III, p. 9-10.
  16. L. c. p. 428.
  17. Convenir che i filosofi diventassero re o i re filosofi, è convinzione che Platone afferma aver avuta già prima del suo primo viaggio in Sicilia: Epist. VII, p. 326 B.
  18. IV, pp. 729 E sgg.
  19. J. Eberz in “Archiv. für Gesch. der Philos.„ XV 2 (1909), pp. 252 segg., sostiene che l’autore nel rappresentare il vero nomo politico ebbe in mente Dione. E perchè non Dionisio? Gli argomenti stessi possono valere e per l’uno e per l’altro, a seconda della data che si voglia attribuire alla redazione del dialogo; ma mi pare una questione mal posta. Io non so pensare vi sia stato alcuno che nel foggiarsi un personaggio ideale non abbia avuto in mente uno o più personaggi reali; e in questi limiti era anche naturale che Platone pensasse successivamente a questi due signori: ma nessun artista neanche riprodusse mai nemmeno i personaggi storici tali e quali, e tanto meno Platone, che avea da rappresentare non un personaggio ma un’idea.
  20. Pag. 20 A.
  21. Cfr. Jackson, “Journ. of Philol.„ XV. pp. 287, 294. Che poi, come crede il Ritter (Neue Unters., p. 66), al terzo dialogo Platone non abbia mai pensato, io non me ne posso persuadere: nel Sofista, p. 217 A, è detto troppo esplicito che i tipi da studiare sono tre. Del resto anche lì, a un certo punto del ragionamento (p. 253 C), era balzato fuori il filosofo, ma lo si era subito abbandonato per correr dietro al suo contraffattore: notisi però che ivi appunto nell’abbandonarlo, lo si rimanda sempre a una prevista trattazione futura, “se ne avremo ancora voglia„, ἂν ἔτι βουλομένοις ἡμῖν ᾖ (p. 254 B). In ogni modo è assurdo il pensare che il terzo dialogo possa essere o il Parmenide o il Filebo o alcun altro, e per le ragioni ovvie da altri addotte, e perchè la parte del protagonista anche in esso, secondo la proposta da principio fatta, doveva esser sostenuta dal Forestiero Eleate di seguito alle altre due trattazioni.
  22. Pag. 302 E.
  23. F. Horn, Platonstudien, Neue Folge, p. 375, nota come capital differenza tra i due dialoghi questa, che nel Sofista si cerca la definizione di un fenomeno della vita reale contemporanea (e ciò non è del tutto esatto: cfr. cap. preced. nota a p. 53); nel Politico si constata non tanto che cosa gli uomini politici sono, quanto che cosa il vero uomo politico deva essere. Ma posto che questa sia la differenza, ciò non dice ancora perchè tal differenza si dia.
  24. La pratica della vita molte volte scioglie o pare sciolga i problemi essenziali innanzi di porseli, quasi li intuisca senza esserne consapevole. Così la monarchia assoluta, dai Tolomei e anche prima fino ai tempi prossimi ai nostri, cercò la sua giustificazione nel diritto divino: un re che partecipi della divinità o sia da essa ispirato, se veramente ci fosse, non vi potrebbe esser dubbio che avrebbe il diritto, anzi il dovere, di comandare da padrone. Soltanto perchè questa pretessuta ispirazione non è che una mera ciurmeria, non si dà neanche questo diritto.
  25. Cfr. p. es. Gorg. pp. 507 E-508 A.
  26. Pitagorica è la teoria della μίμησις sostituita alla μέθεξις: pitagorico pare fosse anche il concetto del principe filosofo: cfr. Campbell, O. c “Introd. to the Statesman„, p. xxv-vii, che cita parecchi testi a sostegno di questa opinione.
  27. Pag. 272 E.
  28. Pag. 41 A.
  29. Cfr. Grote, O. c. II, p. 490.


Note

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