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XXII.
Et in un ricco manto
Che li atti de l’Amore,
Che son così diversi,
Rassembra, e mette ’n versi.
Et i’ mi trassi appresso,
E dimandai lui stesso,
Ched elli apertamente
Mi dica ’mmantenente,
E lo bene, e lo male
De lo fante, e de l’ale,
De li strali, e de l’arco:
E donde tale ’ncarco
Li viene, che non vede.
Et elli ’n buona fede,
Mi rispose ’n volgare:
De la forza d’amare
Non sa, chi non lo prova,
Perciò se a te ne giova,
Cercati fra lo petto
Del bene, e del diletto,
Del male, e de l’errore,
Che nasce per amore.
Assai mi volsi ’ntorno
E la notte, e lo giorno,
Credendomi fuggire
Dal fante, che ferire
Lo cor non mi potesse.
E s’io questo tacesse,
Fare’ maggior savere:
Ch’io fui messo ’n potere,
Et in forza d’amore.
Però, caro Signore,
S’i’ fallo nel dettare,
Voi dovete pensare,
Che l’uomo innamorato
Sovente muta stato.
E così stando un poco,
I’ mi mutai di loco,
Credendomi campare:
Ma non potetti andare,
Ch’io v’era sì ’nvescato,
Che già da nullo lato
Potea mover lo passo.
Così fui giunto lasso;
E messo, ’n mala parte.
Ma Ovidio per arte
Mi diede maestria;
Sì, ch’io trovai la via,
Ond’i’ mi trafugai.
Così l’Alpe passai,
E venni alla pianura.
Ma troppo gran paura,
Et affanno, e dolore
Di persona, e di core
M’avvenne ’n quel viaggio,
Ond’io pensato m’aggio
Anzi, ch’i’ passi avanti,
A Dio, et a li Santi
Tornar divotamente:
E molto umilemente
Confessar li peccati
A’ preti, et a li frati.
E questo mio lïbretto
Con ogne altro mio detto
Ched io trovaio avesse,
S’alcun vizio tenesse,
Commetto ogne stagione
A loro correzzïone,
Per far l’opera piana
Con la fede cristiana.
E voi, caro Signore,
Prego di tutto core,
Che non vi sia gravoso,
S’i’ alquanto mi riposo:
Finchè di penitenza
Per fina conoscenza
Mi possa consigliare:
Ch’ho uomo, che mi pare
Ver me iniero amico;
A cui sovente dico,
E mostro mie credenze,
E tengo sue sentenze.