< Il Tesoretto (Assenzio, 1817)
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XXI
XX XXII

XXI.


Or se ne va ’l maestro

  Per lo cammino a destro;
Pensando drittamente
  Intorno al convenente
De le cose vedute:
  E son maggiore essute,
Che non so divisare.
  E ben si de’ pensare,
Chi ha la mente sana,
  Od ha sale ’n dogana,
Che ’l fatto è ismutato,
  E troppo gran peccato
Sarebbe a raccontare.
  Or voglio ’ntralasciare
Tanto senno, e savere,
  Quanto fui a vedere,
Per contar mio viaggio:
  Come ’n calen di maggio.
Passati e valli, e monti,
  E boschi, e selve, e ponti,
I’ giunsi ’n un bel prato
  Fiorito d’ogne lato,
Lo più ricco del mondo.

  Ma or mi parea tondo,
Or’avìa quadratura;

  Or’avìa l’aria scura,
Or’è chiara, e lucente;
  Or veggio molta gente,
Or non veggio persone;
  Or veggio padiglione,
Or veggio casa, e torre:
  L’un giace, e l’altro corre,
L’un fugge, e l’altro caccia,
  Chi sta, e chi procaccia:
L’un gode, e l’altro ’mpazza,
  Chi piange, e chi sollazza.
Così da ogne canto
  Vedea sollazzo, e pianto.
Pero s’i’ dubitai,
  E mi maravigliai,
Ben lo de’ uom savere,
  Que’, che stanno a vedere.
Ma trovai quel suggello,
  Che da ogne rubello
Mi fida, e m’assicura.
  Così sanza paura
Mi trassi più avanti;
  E trovai quattro fanti,
Ch’andavan trabattendo:
  Ed i’, ch’ogn’ora attendo
A saper veritate
  De le cose passate;
Pregai per cortesia,
  Che sostasser la via,
Per dirne ’l convenente
  Del luogo, e de la gente,
E l’un, ch’era più saggio,

  E d’ogne cosa maggio,
Mi disse ’n breve detto:

  Sappie Mastro Brunetto,
Che qui sta Monsegnore,
  Cioè Iddio d’Amore.
E se tu non mi credi,
  Pass’oltre, e sì ’l ti vedi:
E più non mi toccare,
  Ch’i’ non posso parlare.
Così fur dispartiti,
  Et in un poco giti;
Ch’i’ non so dove, e come,
  Nè la ’nsegna, nè ’l nome.
Ma i’ m’assicurai,
  E tanto ’nnanzi andai,
Che io vidi al postutto,
  E parte, e mezzo, e tutto;
E vidi molte genti,
  Chi liete, e chi dolenti.
E davanti al Signore
  Parea, che gran romore
Facesse un’altra schiera,
  Et una gran carriera.
I’ vidi ritto stante
  Ignudo un fresco fante,
Ch’avea l’arco, e li strali,
  Et avea penne, et ali.
Ma neente vedea:
  E sovente traea
Gran colpi di saette;
  E là dove le mette,
Convien, che fora paja
  Chi, che pericol n’aja.
E questi al buon ver dire

  Avea nome Piacire.
E quando presso fui,

  I’ vidi presso a lui
Quattro donne valenti
  Tener sopra le genti
Tutta la signorìa.
  E de la lor balìa
I’ vidi quanto, e come;
  E sovvi dir lor nome.
È Amore, e Speranza,
  Paura, e Disïanza.
E ciascuna ’n disparte
  Adopera sua arte,
E la forza, e ’l savere,
  Quant’ella può valere.
Che Disïanza punge
  La mente, e la compunge,
E forza malamente
  D’aver presentemente
La cosa disïata:
  Et è sì disvïata,
Che non cura d’onore,
  Nè morte, nè romore,
Nè pericol d’avvegna,
  Nè cosa, che sostegna:
Se non, che la paura
  La tira ciascun’ura
Sì, che non osa gire,
  Nè solo un motto dire,
Nè fare pur sembiante:
  Però, che ’l fine amante
Ritiene a dismisura.
  Ben ha la vita dura,
Chi così si bilanza

  Fra tema, e disïanza.
Ma fine Amor sollena

  Nel gran disio, che menu;
E fa dolce parere
  E lieve a sostenere
Lo travaglio, e l’affanno,
  E la doglia, e lo danno.
D’altra parte Speranza
  Adduce gran fidanza
Incontro a la Paura;
  E tutt’or l’assicura
D’aver lo compimento
  Del suo ’nnamoramento.
E questi quattro stati,
  Che son di Piacer nati
Con esso sì congiunti,
  Che già ore, nè punti
Non potresti trovare
  Tra ’l loro ’ngenerare.
Che quand’uomo ’nnamora,
  I’ dico, che in quell’ora
Desia, et ha timore,
  E speranza, et amore
Di persona piaciuta:
  Che la saetta acuta,
Che muove di piacere,
  Lo sforza, e fa volere
Diletto corporate:

  Tant’è l’amor corale.
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