< Il Trecentonovelle
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Novella XCVIII
XCVII XCIX

Benci Sacchetti trae ad una brigata un ventre della pentola e mandaselo a casa per il fante, e in iscambio di quello mette nella pentola una cappellina.

*

Nella città di Vinegia furono già certi mercatanti fiorentini, i quali per lunga dimora aveano presa amistà e compagnia insieme, per tale che le piú volte mangiavano insieme, e spesso recava ciascuno la parte sua, e accozzavano insieme, e faceano tanisca, e per quello che io udisse già io scrittore da mio padre, il quale fu principio della presente novella, egli era uno Giovanni Ducci, Tosco Ghinazzi, Piero di Lippo Buonagrazia, Giovannozzo di Bartolo Fede, Noddo d’Andrea, ch’ancora è vivo, e Michel Cini, e Benci del Buon Sacchetti, e certi altri. Avvenne per caso che Giovanni Ducci, el Tosco, e Piero di Lippo, facendosi una vitella grandissima e bella, feciono borsa, e comperorono il ventre per mangiarlo la seguente domenica a cena, e fra loro puosono che niente se ne dicesse: ché, se gli altri compagni il sapessono, non lo potremmo avere in pace, poco ne toccherebbe per uno.
Disse il Tosco:
- Cosí si vuol fare, ché io n’ho aúto voglia un gran pezzo: io intendo farne corpacciata.
E cosí tennono il segreto, e messer Gherardo Ventraia fu portato a casa Giovanni Ducci.
Quella medesima mattina, che era sabato, andando, com’è d’usanza, Benci e Noddo a vedere la beccheria, per comperare per la domenica, capitorono al desco dove la detta vitella si vendea.
Dice l’uno:
- O questa è bella carne.
- Ben di’ vero.
- Quanto la libbra?
E comperaronne una pezza. E pesandola il beccaio, dice:
- Gnaffe! i compagni vostri ebbono poco fa il ventre.
Dice Benci:
- O chi?
E ’l beccaio dice:
- Giovanni Ducci, e tale, e tale.
- E a casa cui andò il ventre?
Dice il beccaio:
- A casa Giovanni Ducci; e là pare a me, che lo mangeranno doman da sera.
Dicono costoro:
- Or sia con Dio.
Tolgono la carne, e partonsi; e tornando a casa, dice l’uno all’altro:
- Questa cosa non vuole andare a questo modo.
Dice Noddo:
- Gnaffe! io piglierò la tenuta doman da sera a buon’otta.
Dice Benci:
- Noddo, e’ la non vuole andare a cotesto modo; vuo’ tu lasciar fare a me?
Dice Noddo:
- Sí bene.
Dice Benci.
- Non dir nulla; io credo far sí che noi aremo il ventre, ed egli avranno la broda; sta’ cheto, e non dir nulla: fa’ ch’io ti truovi domane due ore innanzi ora di cena, e farai com’io ti dirò, e vedrai il piú bel giuoco che tu vedessi mai -; e cosí si fermarono.
Benci, tornato a casa, va cercando d’uno fodero di cappellina vecchio bianco, e per avventura n’ebbe trovato una cappellina, la quale avea usato già il padre della donna sua che era grandissima e sucida; levonne il panno e tolse il fodero, e apparecchiò una bisaccia, e dentro vi misse il detto fodero; e trovò uno aguto di mezzo braccio, e feceli dalla punta un poco d’oncino, e misse nella bisaccia. Trovate queste masserizie, l’altro dí su l’ora imposta si trovò con Noddo, ed ebbono Michele Cini, che era sensale di mercatanzia, e strettisi insieme, dice Benci:
- Io non so, Michele, se tu sai questo fatto; la cosa sta sí e sí.
Michele fu tosto accordato. Dice Benci:
- Tu anderai un poco innanzi, e chiamerai la Benvegnuda, che ti rechi la chiave del fondaco, e che tu voglia vedere qualche balla di mercatanzia; Noddo e io intreremo dentro, e tu la tieni a bada quanto puoi; volgi e rivolgi le balle, e digli che t’aiuti; e andremo su alla cucina, e lascia fare a noi.
E cosí ordinorono, menando Benci un suo fante in mantello con la bisaccia e con l’altre masserizie. E Michele Cini giugne, e picchia l’uscio, e chiama la Benvegnuda, che rechi la chiave del fondaco. La Benvegnuda viene subito con le chiavi. Dice Michele:
- Va’ apri, ché voglio veder certe balle per farle vendere a Giovanni.
Dice la Benvegnuda:
- Serrate l’uscio.
Dice Michele:
- Giovanni è presso, che ne viene co’ mercatanti; lascialo pur stare aperto.
E cosí fece.
Andato ella per aprire il fondaco, la brigata della bisaccia entrano dentro, e vanno alla cucina. Quando Michele vede andato su Benci con gli altri, va nel fondaco, che la Benvegnuda avea aperto, e quivi volgi e rivolgi, aiutandogli la fante per buon spazio. Benci e gli altri, ch’erano in cucina, trovorono messer Gherardo che bollia forte, e Benci subito recasi in mano le masserizie, che parea volesse travagliare, e cava fuori l’aguto uncinuto e lo fodero della cappellina; e cacciato nella pentola il detto uncino, piglia messer Gherardo con la sua donna monna Muletta; e traendolo fuori del laveggio, il mise nella bisaccia, e diello al fante, e disse:
- Vanne a casa, e non dir nulla.
Andato il fante, Benci caccia il fodero della cappellina arrovesciato nella pentola, e pisciovvi entro, e coperta com’ella stava, s’uscirono della cucina, e scendendo la scala, per l’uscio ancora aperto se n’uscirono fuori. Michele, che era con la Benvegnuda nel fondaco, quando crede essere stato assai dice:
- Per certo Giovanni Ducci ha aúto qualche storpio; serra il fondaco, e io anderò a saper quello che fa.
La Benvegnuda cosí fece. Michele s’andò con Dio, e sul Rialto trovato Noddo, che scoppiava di risa, dice:
- Ov’è Benci?
Dice Noddo:
- È ito a casa a far trarre il ventre della bisaccia, e metterlo in una pentola a fuoco, perché se avesse manco di cotto, che si cuoca; e dissemi, quando fosse ora, noi andassimo là a cena.
E cosí feciono: ché su l’ora della cena Noddo e Michele con la maggior festa del mondo andarono a manicare il detto ventre, aspettando la gran festa che doveano avere di questa novella. Dall’altra parte la brigata che avea comperato il ventre, s’avviano andare a cena. Dicea Piero per la via:
- Io ho aúto voglia d’un ventre ben un anno, e non m’è venuto fatto d’averlo.
Dice il Tosco:
- Altrettal te la dico.
Dice Giovanni:
- Istasera ce ne caveremo la voglia -; e cosí ragionando, giunsono a casa: - O Benvegnuda, fa’ che noi ceniamo.
Data l’acqua alle mani, si posono a tavola. La Benvegnuda avea subito fatta la suppa, come si fa, con le spezie e tutto; e caccia il manico del romaiolo nella pentola, trae fuori, e mette in uno catino sí subito che avveduta non si fu di quello che era; ma subito porta a tavola quello e la suppa; e costoro cominciano a manomettere la suppa, e manicando truovano i taglieri, e fatto venire dell’aceto, e tutti scoperto il catino, e prese le coltella per tagliare un pezzo del ventre, mena il coltello, partire non si potea, e stettono buon pezzo.
Alla per fine dice uno:
- O che è cotesto?
Dice l’altro:
- Non so io, piglialo, e tiralo su.
- Buon buono! o che diavolo è questo? a me par’egli una cappellina.
- Una cappellina?
Chi avea della suppa in bocca, getta fuori:
- Alle guagnele, che noi ce n’abbiamo una...
Chiama la Benvegnuda; ed ella giugne:
- Buon pro vi faccia.
- Tu sia la malvenuta, - dice Giovanni Ducci, - o che ci hai tu recato in tavola?
Dice quella:
- Hovvi recato un ventre che voi mi mandaste.
Dice il Tosco, ch’era levato ritto, e stava dal lato di fuori:
- Guata se egli è ventre.
E levalo suso alto.
Dice la Benvegnuda:
- Oimè, che vuol dir questo?
Dice il Tosco:
- Vuol dir panico pesto -; e aperta questa cappellina, essendo la fante volta per tornar nella cucina, gli lo cacciò in capo.
La fante gettalo in terra:
- Che diavolo è questo che voi fate?
Dice Giovanni:
- Vie’ qua: dimmi il vero, chi c’è venuto?
Ed ella dice:
- Venneci Michele Cini.
Dicono costoro:
- I nostri compagni ce l’hanno calata.
E sappiendo come Michele era venuto, e ciò che avea fatto e detto, l’ebbono per lo fermo; dicendo Piero:
- Io ho ben veduto Noddo molto ridere da dianzi in qua.
Dice l’altro:
- Come che ci abbiano fatto la piú sucida beffa che noi avessimo mai, io credo ci abbiano fatto molto bene; avevamo diviso la compagnia per un ventre.
Dice Giovanni:
- Truovaci qualche marzolino; e metti questa cappellina in bucato, ché io la vorrò rendere al Benci, che debb’essere stato il principio di tutto questo fatto.
Dissono gli altri:
- Me’ faremo a mandarlilo ora -; e tolgono uno piattello, e coprono; e dicono: - Va’, di’ a Benci che Giovanni Ducci gli manda del ventre della vitella.
E cosí giugnendo a Benci con l’ambasciata e col presente, dice Benci:
- Di’ che gran merzè; ma che ’l tavernaio l’ingannò, ché cotesto è di pecora, e non è di vitella.
Ritorna il fante, e dice quello che Benci e gli altri hanno detto, e ch’egli era di pecora. Dice il Tosco:
- Ed egli ben ci ha trattato come pecore.
E con tutto questo, quelli che l’ebbono, e quelli che ’l doveano mangiare, furono troppo contenti di sí bella beffa; e poi, trovandosi l’uno con l’altro, tutti rideano a un modo, per tale che tutta Vinegia otto dí n’ebbe piacere.
Oggi se ne ucciderebbono gli uomini; e nota che da questo si dice: «Egli ha fatto una sucida beffa» però che quella cappellina era sucidissima.
E cosí si davano i mercatanti diletto, e insieme, di ciò che si faceano, erano contenti, e aveanlo a caro. Ma io credo bene che poi sia intervenuto il contrario; però che le risa son quasi per tutto convertite in pianto per li difetti umani, o per li iudicii divini.

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