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Questo testo fa parte della raccolta Poemetti italiani, vol. X


IL VETRO

POEMETTO

DEL SIGNOR

DI LOMONOSOU

POETA RUSSO

TRADUZIONE

DI

GIOANNI DE-COUREIL

PROVENZALE

CAPITOLO I.

     Lungi dal vero o Sciuvalof quant’erra
Nel giudicar chi più del Vetro apprezza
I minerali della nostra terra!
     Accoppia il Vetro utilità, bellezza,
Spesso dall’alto di Parnaso io scendo
Suoi pregi ad ammirar, e sua vaghezza.
     Oggi lassù ritorno, in man riprendo
L’eburnea cetra, e non le gemme, e l’oro
Ma il chiaro Vetro ad esaltare imprendo.
     Tacciasi chi per far a lui disdoro
L’assomiglia alla fragile fortuna,
Esser non può mai paragon fra loro!

     Se incorruttibil v’ha sostanza alcuna
Certo sia questa, che nel fuoco dura
Ei tutto strugge, e al Vetro sol da cuna.
     Il fuoco volle un dì colla natura
Generar degna prole d’ambidue,
Di salda inalterabile struttura.
     Nel cupo sen delle caverne sue
Ove abita, coll’onde ognor lottando,
Alfin compiuta la grand’opra sue.
     Ragunò le sue forze, e contrastando
Ogni strada, ogni passo all’oceano
Che della terra in sen scende filtrando
     Fe’ tutto traballar il suol sicano
Con alto mugghio, e si diffuse intorno
Immenso tenebror nell’aer vano.
     Cangiossi in buja notte il chiaro giorno
E la gran notte, in cui l’eterno Giove
Generò Alcide, sembrò far ritorno:
     Ma sola è Alcide, e qui del ver le prove
Etna darà, che il portentoso figlio
A eruttar si squarciò per ogni dove,
     Corse di fuoco al mar fiume vermiglio,
E il mondo già temea l’estremo fato
Quando cessò la tema, ed il periglio.
     Della madre natura il sen sgravato
Dissipossi la densa tenebria
E comparve alla luce il neonato.

     Chỉ mai fu questi? e chi s’aprì la via
Tra l’orror di quei sintomi fatali?
Il Vetro il Vetro, che fiammante uscia!
     Oh come l’ammirarono i mortali,
Poichè risplender videro sì caro
Sì prezioso don degl’immortali
     E l’arte emulatrice indi chiamare
Di natura a imitar gli alti portenti,
El’istessa natura oltrepassaro.
     Cristalli al par de’ suoi pini, e lucenti
Inventò l’uomo, e oltre ogni sua speranza
Dal Vetro ottenne poi beni, e contenti.
     Il Vetro è del buon vino eletta stanza
Immago è il Vetro d’ogni cuor sincero,
Non può ingannar diafana sostanza.
     Nella bevanda ei ci discuopre il vero
E della coscienza il guardo acuto
Penetrò della fraude il vel più nero.
     Ma ben altro di lodi abbia tributo,
Ben altri fregi gloriosi, e chiari
Da natura, e dall’arte ha ricevuto!
     Sono i giorni dell’uom torbidi e amari
Per tante infermitadi ond’è ricinto,
Cui del fisico in man stanno i ripari.
     Che se natura a secondar accinto
I farmachi falubri in opra pone
Depresso è il morbo e la natura ha vinto.

     Ma i farmachi nel Vetro egli compone,
Gli mischia, e tempra, e poi conserva illesi
Nel lucido cristal lunga stagione.
     Quali encomi al cristal dunque sien resi
Se a lui parte dobbiam della salute,
E invan per lui siam d’aspri morbi offesi?
     Lodi al Chinese ancor saran dovute,
Che vasi di sottile argilla fèo,
E d’appressarsi al Vetro ebbe virtute.
     Gli alpestri monti ei convertir potèo
In bianca creta, che da lunge invita
L’insaziabil desio dell’Europèo;
     Che sol per farsi acquisto, in sull’ardita
Prora, lascia la patria, e alle procelle
Ai tremendi uragani espon la vita.
     Eppur qual terra umil farebbon quelle
Tazze ancora a vil prezzo, e senza onori
Se un sottil Vetro non le fea più belle!
     Ei toglie ai fluidi attraversarne i pori,
Ei più salde le rende, e vi conserva
Pinte in color vivaci erbette e fiori.
     Nell’antica Città sacra a Minerva
Surse un Apelle, e pe’ pittori suoi
Europa tutta ancor di Roma è serva.
     Ma l’opra lor tu sol difender puoi
Converso in smalto, ed in mosaico, o Vetro
E intatte e fresche conservarle a noi.

     Tu le belle e gli Eroi de’ tempi addietro
Ci serbi espressi in tinta eterna, e il duro
Tempo per lor costringi a cangiar metro.
     Allor che Borea avvolto in nembo oscuro
Cuopre la terra d’uniforme velo,
L’uom riparo si fa d’opaco muro.
     Ma saria forza, o che perisse in gelo
O in tenebre profonde i dì traesse,
Addio dicendo al bel fulgor del cielo;
     Se il benefico Vetro non schiudesse
Adito, a puri rai del sol ridente,
E dal soffio vernal nol difendesse.
     Mentre ei scorge di fuor regnar l’algente
Verno che tutto strugge, entro il suo tetto
Tepida aura d’april scherzare ei sente;
     Nè all’uom bastò si portentoso effetto
Volle che di Ceilan i fiori, e i frutti.
Nordico suol fosse a produr costretto.
     Nè fu deluso in suo desir, costrutti
Furon vitrei ripari ai germi estrani,
Dal più tepido Sud al Nord tradotti.
     Del Tinnico cultor fotto le mani
Il fico maturò, sbocciar’ le rose,
Qual di Sicilia ne’ fecondi piani.
     Mille fioretti d’essenze odorose
Impregnano le Russe aure gelate,
E della Neva le ninfe vezzose
     ” Amano averne e seno, e tempie ornate.


CAPITOLO II.


     O dotto Sciuvalof vate sublime
Siami volger per poco almen concesso
Alle vezzose Donne or le mie rime.
     Son colle muse d’un medesmo sesso
Hanno simil beltà, simil favella,
E dell’immago lor tuo cuore è impresso.
     Or che la guancia gioventù t’abbella,
No tu non puoi sdegnar ch’io volga il canto
Dell’uman germe alla metà più bella.
     Care, amabili Donne, oh per voi quanta
Util e dolce d’abbellirvi è l’arte!
Qual ne traete seducente incanto!
     Questa il freno de’ cuori a voi comparte,
Ed in voi sole a rinnuovar s’ingegna
Quante son grazie in la natura sparte.
     Ma il Vetro consiglier solo v’insegna
Qual d’esse a voi si presta, e più conviene
Qual la vostra beltà sfugge, e disdegna.
     Doppio fregio da voi, Donne, s’ottiene
Quando v’adornan il bel collo, e il crine
Le dell’Indico suol gemme serene,
     Il cui vivo fulgor par chè s’affine
Se da vitrei fioretti intorno ornate
Sono in foggie bizzarre, e pellegrine.

     Allor la primavera somigliate
D’odorosa ghirlanda il crine adorno,
Coi stille mattutine hanno imperlate.
     Tal di ricche cittadi entro il soggiorno
Gli abbellimenti delle donne sono,
Tai n’ebbe Alpasia o Cleopatra un giorno.
     Di più semplici ornati a voi fe’ dono
Campestri ninfe la natura, e un cuore
Puro a voi diede e ai dolci affetti prono.
     Fan rose e gigli al vostro crine onore,
Di mammolette vi fregiate il seno,
Dal fragrar dolce, e dal gentil colore.
     Ma queste figlie son d’un ciel sereno
Passa non dura la stagion fiorita,
Ei bei giorni d’april sono un baleno;
     A ornarvi allora e chi vi porge aita?
Se non il Vetro che i sabei diamanti
Le bianche perle vagamente imita?
     Ed al cupido sguardo degli amanti
Non lascia invidiar gemme Eritrèe
E men vaghi non fa vostri sembianti.
     Anzi incanto maggior colà si bèe
Ov’è semplicità coll’innocenza
Che vostra miglior pompa esser pur dèe.
     Cosi poichè di gemma ha l’apparenza
Sovra tutta la terra il Vetro è in pregio
Per chiarezza, per grazia, ed avvenenza.

     Al gelido Calmuck il Vetro è fregio,
E là del Senegal sui lidi adusti
Serve di pompa a diadema regio.
     Ah non deridan più gli uomini ingiusti
Quel fortunato American selvaggio,
Perchè vari da noi sono i suoi gusti!
     Del pallid’oro non l’abbaglia il raggio,
Di Vetro in cambio all’Europeo lo vende,
Che del Vetro gli par vile al paraggio.
     O quanto di noi meglio il vero intende
Che allontana da se l’oro fatale
Fonte esecrando di sciagure orrende!
     Ahi forse la membranza in lui prevale
Di quanti già degli avi suoi periro
Sotto l’acciar del Castiglian brutale!
     Oh negra atrocità! dunque s’uniro
Tanti guerrier, e per ignoto mare
In fragil legno ignota via s’apriro,
     Sol le Libiche Tigri ond’emulare
Rovesciando a torrente il sangue umano
Dell’avarizia sul nefando altare?
     Vinti i rischi d’un torbido oceano,
Ove lottato avean colla tempesta,
Giunti appena sul lido Americano,
     Dan segno colla tromba, e la funesta
Bandiera sventolar fan della guerra,
E rimorso, e pietà più non gli arresta.

     Le furie sue superstizion disserra,
Re Messicani, e generosi Incassi
Sotto l’Ispano acciar mordon la terra.
     Del reo conquistator precede i passi
Terrore, e morte, e, pasto ai corbi, un monts
Di vittime scannate ovunque fassi
     Nè sfuggir ponno dell’iniquo all’onte
L’ossa de’ morti chiuse in aurea tomba
Se non son lor tesori a ceder pronte.
     Fin sul bambin lattante il ferro piomba
E dalla strage universal chi avanza
De’ monti nelle viscere s’intomba.
     Là s’astringe a scavar profenda stanza
Ove si pasce l’avarizia d’oro,
E son morte la gioja, e la speranza.
     Miseri! intenti nel servil lavoro
Sol il peso sentian delle ritorte,
Nè il periglio scorgean sul capo loro!
     Si sfrana il monte. O avventurosa sorte
Che per sempre gli toglie a tanti affanni,
E lor dà nell’istante e tomba, e morte!
     Stanchi e non sazi alfin di tanti danni
Carchi tornano ormai d’ori e d’argenti
Alle sponde natie gli empi tiranni.
     Quai sfrenati desii volgon lor menti!
Già credonsi mercar l’Europa intera,
Ma coi tesor non si dà legge ai venti.

     Di quei perfidi cuori ancor più nera
Sorge, gli urta, sbaraglia, incalza, e affonda
Per l’ampie vie del mar vernal buffera.
     Là un sdrucito naviglio ingoja l’onda
Quà un nemico crudel gli assalta, e caccia,
Frangonsi là sovra straniera sponda
     Altri del patrio suol perde la traccia,
E dopo lungo errar sempre si vede
La fame allato, e la tempesta in faccia.
     Pochi riveggon la natia lor sede
E chi salvo pur giunge in cuore ha fitto
Rimorso eterno che spietato il siede.
     Ecco i tremendi frutti del delitto,
Che d’uno in altro, precipizio e scorta
Ah, non sia mai tal biasmo al Vetro ascritto,
     Che solo util verace all’uomo apporta!


CAPITOLO III.


     Per poco che a ferir Morte ci aspetti
La visiva virtù dell’occhio scema
Nè a discerner più val minuti obbietti,
     E ben chiamar si può miseria estrema
Di chi legger vorria, guarda, e non puote
E in perpetua convien noja che gema,
     Son l’ore sue d’ogni conforto vuote,
Ei tesori dell’arti e di natura
Diventano per lui ricchezze ignote.
     Eppur un Vetro in così rea sciagura
Tutto ripara, e da’ nostri occhi a un tratto
Fa qual larva svanir la nebbia oscura.
     Tal che esclama giulivo e stupefatto
” Rendasi al Vetro ogni dovuto onore
Che più bel dono all’uom Dio non ha fatto.
     Vedea l’antica età con suo stupore
Che il fuoco arde, discioglie, avviva e splende
Ed effluvio il credè del sommo Autore.
     Il volgo vil che quanto meno intende
Più s’invoglia a spiegar tutto da stolto
Di Prometeo sognò l’aspre vicende.
     Allo studio dell’arti ognor rivolto
Da Pallade costui fu in ciel rapito,
Vè al chiaro sol raggio di fuoco ha tolto.

     Volle il Tonante il folle ardir punito
E l’inchiodò sovra duro macigno
Colà di Scizia nel remoto lito.
     E un istancabil’avvoltor ferigno
Eternamente gli divora e strazia
L’inconsumabil suo cuore maligno.
     Ma del ver nella luce oggi l’uom spazia
E spregiam la poetica finzione
Chimere ad inventar giammai non sazia.
     Oggi un Vetro sottile al sol s’oppone
E a discender, s’astringe in sulla terra,
l’ignea virtù dalla solar regione.
     Forse (se il ver la favola rinserra)
Fu Prometeo grand’uom, che all’ignoranza
Col lume di Sofia tentò far guerra,
     E invidia rea che l’uman cuor sua stanza
Avea già fatta, in empietà converse
Del genio creator util baldanza.
     Forse le vie del cielo egli si aperse
Con vetri industri, invenzion sublime
Cui lunga età poscia d’obblio coverse.
     Forse con specchio concavo le prime
Ignee scintille splender fè sul mondo;
E il fanatismo che virtù deprime,
     Sentir gli fè dalla sua rabbia il pondo
E (infausto pegno di futuri scempi)
Al supplizio il dannò qual mago immondo.

     Oh quanti abbiam fin da’ remoti tempi
Del falso zel, che verità detesta,
E la insegue, e l’opprime acerbi esempi!
     Ei di Religion prende la vesta
E di Giove usurpando il sacro telo
lo sua carriera la scienza arresta.
     Quanto meglio sarian le vie del cielo
Degli astri il giro, e della luna il regno
Chiari e disgombri d’ogni oscuro velo.
     Se d’un Cleanto vil l’invido sdegno
D’Aristarco immortal non s’opponea
All’animoso indagator ingegno.
     ” Un nuovo Briarco questi è, dicea:
” Che dal centro ove sta del firmamento
” Sbalza la terra e nuovi mondi crea.
     ” Dunque Pluto e Nettun staran là drento
” Agli abissi del mare, e dell’inferno
” In circolar perpetuo movimento?
     ” Iniqua idea, per cui rolare io scerno
” Qual I’infame Ission gli Iddii celesti
” Cui sol beati fa riposo eterno. ”
     Così l’Ipocrisia disse, e con questi
Artifici appannava i rai del vero
All’empie trame sue troppo moleste;
     Così per lunga etade al mondo intero
Fole insensate di bugiardi Dei
Chiuser della scienza il bel sentiero.

     D’un culto mentitor ministri rei
Temean che il mondo a esaminar prendesse
I portenti del ciel sì vari e bei
     E che le leggi d’un sol nume espresse
D’un nume creatore omnipossente
Nelle stelle, e nel sole alfin leggesse.
     Che il sommo Giove o il Dio dal gran tridente
Di quei bruti medesimi era più infame
Che offria sull’are l’ingannata gente.
     Che sanguigne del ciel non son le brame
E che servian le vittime svenate
Dei Preti solo a satollar la fame.
     Così dall’impostura ottenebrate
Centro credean la terra agli astri, e al sole,
Le ignare genti dell’antica etate.
     E in nebbia d’oscurissime parole
Spiegava i cicli suoi l’astronomia
Qual cieco che tenton proceder vuole.
     Ma Copernico alfin sgombrò la via
Di verità dal tenebror vetusto
E l’invida confusa ipocrisia
     Dell’universo il sol fè centro augusto
E ’l doppio moto annuo e diurno scorse
Di questo ove abitiam pianeta angusto.
     Distrusse i cieli, è in suo sostegno accorse
La fisica de’ fatti indagatrice,
E base eterna al suo sistema porse.

     Seguono poscia in secol più felice
Sue grand’orme Keplero Ugens Neutono
E ragion nuova da’ lor scritti elice.
     Della luce i misteri aperti sono
E l’alta legge de’ refratti raggi
Pongon alfin la veritade in trone.
     Degli astri or seguitiam gli ampi viaggi,
Di ciascun misuriamo il vario moto,
Senza l’ire temer de’ falsi saggi.
     E spaziando dell’immenso vuoto
Pe’ i vasti interminabili sentieri
Qual d’arcani scuopriam tesoro ignoto!
     Talchè assorti in estatici pensieri
Del infinita sapienza eterna
Adoriamo gli altissimi misteri.
     E come sciolta dalla scorza esterna
L’anima disiosa in un profondo
Religioso meditar s’interna.
     Con qual rapidità s’aggira a tondo
E fermo intanto su i cardini suoi
Sembra posar, divin portento! il mondo.
     Negò il grand’Agostin ne’ scritti suoi
Poichè l’alta città di Dio pingeva
Gli antipodi abitanti opposti a noi.
     Quai sensi di piacer provar poteva
Così non limitando in spazio breve
I discendenti della credula Eva!

     Ma l’uom più saggio anche smarrir si deve
Quando d’Euclide le scienze ignora
Donde la verità lume riceve.
     Sul lido American si veggon ora
Lido antipodo a noi templi ed altari
Ve’ Dio verace un popol fido adora.
     Di Magellan sull’orme e terre e mari
Scorransi in giro, uomini ovunque avremo
A noi simili al ciel diletti e cari.
     Pesci, augei, fere, piante, e fior vedremo
Dall’infinita potestà creati
Dal nostro globo all’uno all’altro estremo.
     Ecco i dì delle tenebre cessati
E dall’austera fisica o Cleanti
Ecco gli errori vostri alfin svelati.
     Ma qui non han confin del Vetro i vanti
Apposto a lunghi tubi ei ci palesa
Nuove stelle nel ciel nuov’astri erranti.
     Ogni stella lassù risplende accesa
Dal proprio fuoco, e intorno ha varii mondi
Di cui mano di Dio centro l’ha resa.
     E intorno, o sole, ai raggi tuoi giocondi
Col satellite suo gira la terra
Girano gli astri, e son per te fecondi.
     Oh quant’imperi il nostro globo serra
Ma poscia al paragon dell’universo
È un atomo di polve che al vent’erra

     Pur degli enti il grand’Ente in uom converse
Su quest’atomo vil discender volle
Il nostro ad emendar fallo perverso.
     Tutta l’enormitade in se ne tolle
E in patibol cangiando il divin soglio
Là sul feral vaticinato colle
Spira, o Amor smisurato, o mio cordoglio!


CAPITOLO IV.


     Quante che ignote ai padri nostri furo
Arcane cose a noi palesi or sono
Mercè d’un Vetro trasparente e puro!
     Dolce gustar gli odori, udir il suono
Ma del nostr’occhio la virtù visiva
Della madre natura è il più bel dono.
     Pur questa, ancor che sia possente e attiva
Ha i suoi confini, e i più remoti oggetti
A discerner fra lor mai non arriva.
     Se in lungo tubo i rai non son ristretti
E attraversando alfin Vetro convesso
In un sol punto a riunirsi astretti.
     Pur scoprir tutto all’uom non è concesso
Piccolezza infinita incomprensibile
Quant’altri oggetti mai nasconde ad esso!
     Ma il miscroscopio a noi rende visibile
La potenza di Dio che in piccolissimi
Atomi infuse un’anima sensibile.
     Ve’ che nervi sottili e minutissimi!
Che picciol cuor! che impercettibil vene!
Che muscoli impalpabili, e agilissimi!
     Tai che il verme più vile in se contiene
Quanto concesse la madre natura
Alle del mar sovrane ampie balene.

     E nella più minuta creatura
L’onnipossente man splende d’Iddio
Come splende de’ cieli in la struttura,
     Tutti si, tutti il Vetro a noi scoprìo
I portenti onde il sommo alto fattore
Il mar, l’aria, la terra, i boschi empìo.
     Dell’occhio il Vetro alfin sgombrò l’errore
E sottopose a lui ciò ch’era innante
Dall’infirmo poter de’ sensi fuore.
     Qual varietà scopri nell’erbe! quante
Vene ignote finor nel corpo umano!
Quali intralciate fibre entro le piante!
     Nè basta ancora, e con portento strano
Chiuso in Vetro sottile il vivo argento,
(Cui finor d’indurir tentossi invano )
     Dell’aria nell’instabile elemento
Ci annunzia le volubili vicende
Or la pioggia, or il sole, ed ora il vento.
     Tal che l’agricoltor appieno intende
Se domani sarà fosco, o sereno,
E l’istante opportuno a scerre apprende.
     Ed il nocchiero alle fals’onde in seno
Or prevede la calma or la tempesta
E va del suo destin trepido meno.
     Ma pria ch’io taccia a rammentar mi resta
Del lucide cristal pregio novello,
E sua gloria minor non sarà questa.

     Chi d’intrepido cuor sarà mai quello
Che non si turbi allor ch’in alto mugge
Il trisulco di Dio igneo flagello?
     Quel flagel che in un punto abbatte e strugge
Al cui rimbombo il peccator smarrito
Come Orso dentro al suo covil rifugge!
     E cosa è mai codesto brando ignito?
Quel tuon? quei lampi orribili e fugaci?
”Ferma:” alcun grida: ”o indagatore ardito!
     ”Lo vibra il giusto Dio contro gli audaci,
”Di Dio quel tuon quel lampo è la minaccia
”Qual’altra causa indaghi? adora e taci!”
     Che? Fia delitto andar del vero in traccia?
Iddio, lo so, del nulla onde lo ha tolto
Può il tutto ritornar, quando a lui piaccia,
     Ma, allor che l’ocean muggire ascolto
E navi squarcia affonda, è colpa forse
Dir, che da venti opposti ei fu sconvolto?
     Se nell’Egizia terra il gran non sorse
È colpa, al Nilo attribuirne il danno,
Perchè quei campi ad inondar non corse?
     Ligie al cenno di Dio così se stanno
Le folgori nel ciel, qualche cagione
Pur di natura infra le leggi avranno.
     Ma dell’uom sbigottita la ragione
S’ode il fulmin scoppiar rifugge addietro.
Nè origin naturale in lui suppone.

     Or poichè ha visto un confricato Vetro
Spontaneo tramandar scoppi, e scintille
Tosto cambio de’ suoi pensieri il metro.
     Già della fama empir le cento squille
Tai meraviglie, e lungo tempo il mondo
Tra dubbio e speme raccontare udille.
     Fu pria materia di piacer giocondo
L’importante scoverta e non subbietto
A profittevol meditar profondo.
     Sol si tento per lei destare in petto
Ad uomo infermo la salute prima,
Nè fu sempre il desto vuoto d’effetto.
     Ma ormai l’ingegno umano in sulla cima
Delle nubi s’innalza ed in sua cuna
A rintracciare il fulmin si sublima.
     Già il mondo sa che in quella nube bruna
La folgore nascosta è quell’istesso
Fuoco che il chiaro Vetro in se raduna.
     E come questi ne versò l’eccesso
Ne’ vicin corpi, anche la nube densa
Lo scaglia nella nube a lei d’appresso;
     E dilatando allor con forza immensa
L’aere d’intorno il cupo tuon succede
Al scintillar di quella fiamma accensa.
     Somiglianza cotal poichè si vede
Tra la scintilla che dal Vetro elice
Ed il fulmin che l’aria introna e siede.

     Se condur quella ove bramiam pur lice
Forse il fulmin ancor ligio farassi
Qualche mente sublime, ed inventrice.
     Forse.... ma che più dubbi?... Ecco a gran passi
S’avanza nella fisica carriera
Francklin, e strada tra le nubi fassi.
     E dove la procella appar più nera
Un’asta ergendo, invola al cielo irato
Il fulmin distruttor con mano altera.
     Dell’asta in sen l’igneo vapor guidate
Scende, e si filtra nella bassa terra
Invisibile, muto, e disarmato.
     Portento! in picciol verga ecco si serra
Quel tuon che torri eccelse, e augusti tempi
A un colpo sol urta, seonquassa, e atterra.
     Salve, immortal Francklin! tuoi grand’esempi
Segue l’Europa, ed un sentier la morte
Trova di meno a fabbricar suoi scempi.
     Varcasti omai d’eternità le porte
Emule di Neuton Sofia t’acclama
Ed il tempo, l’obblio, l’ingiusta forte
Son inermi a ferir l’alta tua fama.

Nemico d’ogni impostura dichiaro che sono stato assistito nella traduzione di questo poemetto dal sig. Nikita Drosd Boniacousky gentiluomo Russo segretario della legazione Imperiale Russa in Toscana, persona versata ugualmente nella letteratura italiana che in quella della sua nazione, e non men rispettabile per i suoi talenti e cognizioni, che per le sue virtù morali. Sotto la di lui scorta spero di dare un giorno all’Italia una traduzione in ottava rima della Russiade poema epico del signor consigliere di Kerascou; e mi lusingo che mediante i lumi di quel mio rispettabile amico potrà presentare agli amatori della poesia straniera un capo d’opera tanto poco conosciuto quanto meritevole d’esserlo.

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