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IL CALCIO AL PESCECANE
Da una settimana ci trovavamo fermi in Aden, in quella poco attraente città araba che gl’inglesi, che ne sono i padroni, chiamano, e non a torto, l’inferno del mondo.
Che sia una città strategica e superbamente fortificata nessuno lo nega; ma nessuno, ve lo assicuro, vorrebbe abitarla più di ventiquattro ore.
Non si vedono che rocce nude, senza un filo d’erba, bruciate da un sole implacabile che versa dall’alba al tramonto una vera pioggia di fuoco. Per fortuna gli arabi, vere salamandre, possono abitarla impunemente.
Nella città c’è qualche albero; ma quanto è costato agli inglesi il farli crescere così intisichiti e spelacchiati da far compassione! Figuratevi che passano degli anni senza che cada mai una sola goccia d’acqua! Pure non si muore di sete, poiché enormi distillatori provvedono acqua alla popolazione, alle navi, ed a quelle poche piante scheletrite e giallastre.
Una terribile tempesta che ci aveva sorpresi nell’Oceano Indiano portandoci via il bompresso, buona parte della murata poppiera, non so quante vele e sgangherandoci anche il timone, ci aveva costretti a fermarci per parecchi giorni, contro ogni nostro desiderio, in quella città infuocata.
Quindi, come potete immaginarvi, i bagni si succedevano ai bagni, quantunque più volte dallo stazionario inglese ci fossero stati segnalati non pochi pescicani all’entrata del porto.
Ogni mattina, dopo una visita alle grandiose cisterne che formano l’unica meraviglia di Aden, saltavamo dai bastinaggi a capofitto e non tornavamo a bordo se non quando la campana del cuoco ci avvertiva che il pranzo era pronto.
Un giorno si faceva a rincorrerci intorno al nostro veliero, cacciandoci l’uno l’altro sott’acqua per fare l’amara bevuta, quando udimmo squillare fragorosamente la tromba a bordo dello stazionario inglese che vigilava all’entrata della baia.
— I pescicani! I pescicani! Lesti, a bordo! — ci gridarono i compagni che erano rimasti in coperta per aiutare i carpentieri.
Interrompemmo subito i giuochi e, raggiunta la scala, ci arrampicammo come un branco di scimmie spaventate dalla presenza di un coccodrillo.
Nessuno di noi, ve lo assicuro, aveva desiderio di far conoscenza coi denti dei charcharias.
La nostra fuga precipitosa fu salutata da un grande scoppio di risa partito da una barca di pescatori negri che gettava le reti dinanzi alla prora del nostro bastimento. Una risata così ironica che ci fece saltare la mosca al naso.
I nostri marinai, che non erano molto pazienti, scaricarono sui pescatori una valanga d’ingiurie, senza ottenere altra risposta che nuovi clamorosi scoppi di risa.
Intanto dallo stazionario partivano alcune fucilate e la tromba non cessava di squillare per avvertire tutti i bagnanti della costa, che al solito erano numerosissimi, di mettersi in salvo.
Avevo preso un cannocchiale e stavo cercando quei maledetti squali che dovevano essere entrati nella baia coll’alta marea, quando un gabbiere mi avvertì che la barca dei pescatori ci aveva abbordato e che un negro era salito chiedendo di vedermi.
Fui lì lì per mandarlo nel paradiso di Maometto; poi, pensando che forse voleva venderci del pesce, mi diressi verso la scala di tribordo. Il pescatore saliva in quel momento.
Era uno splendido campione della razza negra, con un torace da bufalo, braccia e gambe da gorilla, un petto da ercole.
— Sadi, — mi disse appena fu in coperta, — tu hai paura dei pescicani?
— Non ho nessuna voglia di avvicinarli — risposi. — Questa però è una cosa che non ti riguarda. Sei venuto per vendermi del pesce?
— I pescicani li hanno fatti fuggire tutti ed io perderò la giornata — mi rispose il negro.
— Che cosa vuoi allora? Non abbiamo gallette da regalare.
— Io non vengo a chiederti nulla, Sadi; vengo invece a proporti di dare un calcio al pescecane.
Tutto mi sarei aspettato da quel negro, ma non certo una simile proposta.
— Tu sei stanco di vivere — gli risposi.
— No, Sadi, io andrò a dare il calcio allo squalo e tornerò qui a ricevere il premio del mio coraggio. Dammi uno scellino non ti chiedo di più.
Per una lira e pochi centesimi si poteva godere un simile spettacolo! Ebbi però qualche scrupolo, temendo che a quel povero diavolo, che giuocava la vita per una così miserabile somma, non avesse ad accadere qualche disgrazia.
— E se ti divorasse? — gli domandai.
Il negro sorrise, mostrando due file di denti, degni di figurare nella bocca d’un leone, poi alzando le spalle disse:
— Questo giuoco l’ho eseguito anche ieri dinanzi al comandante dello stazionario. Io non ho paura dei pescicani.
— Facciamo una colletta per questo povero negro e mandiamolo a casa — dissi. — Io non voglio prendermi questa responsabilità.
Mettemmo insieme non uno scellino, ma quattordici. Il negro li chiuse nella sua cintura di pelle, l’unico suo indumento; poi in due salti, senza ringraziarci neppure, attraversò la tolda e si precipitò in mare dall’opposta parte.
— Che fai, disgraziato? — urlai, precipitandomi verso la murata di tribordo.
Il negro era già sott’acqua. Ricomparve qualche minuto dopo e gridò:
— Grazie, Sadi. Ora ti farò vedere che io me ne rido dei pescicani.
— Torna alla tua barca — gridavo, ma era fiato sprecato.
L’ercole, che nuotava come un delfino, s’allontanava velocemente verso la bocca della baia, seguìto ad una certa distanza dalla sua barca, che era montata da quattro altri negri non meno robusti di lui.
I marinai del porto dovevano essere abituati a vedere quel pescatore scherzare coi pescicani, perché nessun grido di sorpresa s’alzò dalle navi ancorate presso la nostra; e questo mi rassicurò non poco.
Il negro continuava a nuotare, tuffandosi di quando in quando. Cercava certamente il pescecane o forse i pescicani, poiché noi non sapevamo quanti ne fossero entrati nella baia.
Ad un tratto lo vedemmo fermarsi ed agitare le mani fuori dell’acqua, poi tornare rapidamente verso di noi. Capii subito la sua manovra. Era andato a provocare qualcuno di quegli squali ed ora lo attirava verso le acque della nostra nave, perché noi potessimo osservare da vicino quel pericoloso giuoco.
Eravamo saliti chi sulle murate chi sulle gabbie per veder meglio e non tardammo a scorgere, a quindici o venti passi dal nuotatore, una larga pinna triangolare che fendeva l’acqua seguendo la via del negro.
— State attenti a portare un paio di carabine in coperta — gridai. — Il pescecane segue l’uomo.
Furono subito portati quattro ottimi fucili e caricati con palle incatenate per essere più sicuri di fermare, nel suo ultimo slancio, lo squalo, se avesse minacciato seriamente l’ardito nuotatore.
Tre minuti dopo il negro, che non portava indosso alcuna arma, giungeva a pochi metri dalla poppa del veliero.
— Sadi — mi gridò — guarda! Guarda!
Si era fermato, rovesciandosi sul dorso, mentre la sua barca si poneva un po’ di traverso per esser pronta a raccoglierlo.
Il pescecane giungeva rapidamente. Essendo l’acqua della baia d’Aden limpidissima, si poteva scorgere benissimo.
Era un grosso charcharias, lungo quasi cinque metri, con una bocca semicircolare così enorme da poter contenere comodamente un uomo di media statura preso a mezza vita.
Scorgendo a poca distanza l’uomo che si manteneva sempre quasi immobile, in un lampo gli fu addosso e si rovesciò sul dorso per stritolargli le gambe.
Un grido d’orrore sfuggì dalle nostre bocche. Grido che si tramutò subito in un urrah fragoroso.
Il negro aveva mantenuta la promessa. Nel momento in cui il mostro stava per afferrarlo si era allungato vibrandogli sulla punta del muso un calcio poderoso.
Mentre il pescatore fuggiva ridendo verso la barca, lo squalo, sorpreso da quella inaspettata accoglienza, era risalito a galla guardandosi intorno.
Comandai il fuoco. Quattro spari rimbombarono uno dietro l’altro e otto palle incatenate fecero degli strappi orrendi su quella brutta bestia, tagliandogli delle vere fette di carne.
Il mostro affondò in mezzo ad un cerchio di sangue; due ore, dopo era morto, e lo tirammo con gran fatica sopra coperta.
Sventratolo trovammo nel suo ventre due dozzine di calamai ancora vivi, che mi fornirono per quella sera una cena squisitissima.