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CAPITOLO QUARTO.
Non sì tosto giunse la dolente comitiva al castello, che Ippolita e Matilda le andarono incontro, imperocchè Isabella aveva alle medesime per un servo mandato avviso di tale arrivo, come pure di tutto l’occorso. Le principesse fecero trasportare il marchese Federigo nella più vicina camera, indi ritiraronsi sino a tanto che avesse il chirurgo visitate le sue ferite. Quando comparve Isabella accompagnata da Teodoro, Matilda nel vedergli ambedue arrossò, ma per meglio nascondere il suo turbamento, corse ad abbracciar l’amica, ed a condolersi seco lei della sventura accaduta. In breve andò il chirurgo ad informare Ippolita che le ferite del marchese non eran mortali, e ch’ei desiderava veder la propria figliuola, e lei stessa. Teodoro sotto colore d’esprimere la sua allegrezza nell’intendere che il duello non era per divenir fatale a Federigo, non potè resistere agl’impulsi di correr là ov’era Matilda. Abbassava ella così sovente gli occhj nell’incontrare i di lui sguardi, che Isabella la quale riguardava Teodoro con tanta attenzione, quanta egli ne dimostrava nell’affissarsi in Matilda, indovinò ben presto qual fosse il tenero oggetto de’ voti di esso, siccome aveale detto nella caverna. Nel tempo di questa muta, ma espressiva scena, Ippolita domandò a Federigo, perchè mai si fosse servito di mezzi misteriosi per richieder la propria figlia, e si diffuse in far l’apologia del consorte, per aver egli conchiuso con modi, a prima vista indiretti, un matrimonio tra’ loro rispettivi figliuoli. Federigo, quantunque sdegnato contro Manfredi, andava non pertanto calmandosi alle umili persuasioni della principessa, ma sopra tutto rimase dolcemente ammollito dalle amabili sembianze della giovinetta Matilda, e desiderando di tenersele ambe vicine, colse il pretesto d’informarle delle accadutegli avventure, e così incominciò: “essendo io prigioniero degl’infedeli, sognai una notte che la mia figliuola, di cui non avevo inteso più novella dopo la mia schiavitù, era ditenuta prigioniera in un castello, e minacciata dei più spaventosi disastri, e parvemi udire una voce la qual mi diceva, che se mai ricuperavo la libertà, dovessi trasferirmi in una certa foresta presso Ioppa, dove sarei stato istruito del rimanente. Messo in apprensione da questo sogno, nè potendo andare a chiarirmi colà dov’erami stato indicato, vie più gravi che per l’innanzi mi divennero le catene. Mentre riandavo coll’animo varj mezzi, onde uscire dalla penosa servitù, ricevetti il fausto annunzio che i principi confederati, i quali guerreggiavano nella Palestina, avean pagato il mio riscatto, perlochè partii e m’incamminai subito verso quella foresta. Errai per tre intieri giorni colla gente del mio seguito, ma non potei in quella boscaglia abbattermi in veruna persona; se non che nella sera del giorno terzo capitammo ad una celletta in cui stava un venerabile eremita quasi agonizzante il quale fu da noi, col mezzo di opportune bevande ristorative, messo in istato d’articolare qualche parola. “Figliuoli miei,” ci disse il sant’uomo, “Dio vi rimeriti della vostra carità... ma ogni rimedio è inefficace per me... passerò tra momenti agli eterni riposi... contuttociò muoio contento, poichè mi è ora permesso di compiere la volontà del cielo. Quando mi ritirai in questo deserto, dopo essere il mio paese divenuto preda de’ miscredenti... oimè! sono ben cinquant’anni passati ch’io fui testimone di questa lagrimevole scena!... S. Niccola mi apparve in sogno, rivelandomi un segreto, con ordine di non palesarlo giammai ad alcuno, se non al punto della mia morte. Ecco precisamente l’ora tremenda, e voi, senza dubbio, siete i guerrieri eletti dal cielo, a’ quali soltanto fummi ordinato doverne dar contezza. Dopo adunque di aver resi gli estremi ufficj a questo mio vil corpo, andate, e fate uno scavo appiè del settimo albero che troverete a man sinistra nell’uscir dal mio povero tugurio, e le angosce vostre saranno... oh cielo! ricevi in pace l'anima mia; ed in così dire, il devoto anacoreta spirò. Tosto che avemmo, posto il santo corpo sotterra c’incamminammo sul far dell’alba per eseguir le avute istruzioni, ma qual fu il nostro stupore, quando, dopo avere scavato a sei piedi di altezza il terreno, trovammo una spada smisurata, ed è quella appunto che avrete veduta giù nel cortile. Sulla lama allora sguainata alcun poco, e poi rientrata nel fodero nel fare sforzi per estrarla di là, erano scritte queste parole... ma principessa,” disse il marchese, rivolgendosi ad Ippolita, “permettetemi di tacerle: siccome ho gran venerazione per voi, e pel vostro grado, così non vorrei commettere un’inciviltà, offendendo le vostre orecchie con parole che troppo vi affliggerebbero, facendo esse poco onore a persona la qual vi è cara.” Ippolita a tai detti tremò, persuasa, esser Federigo prescelto a dar compimento al destino che sembrava sovrastare alla sua famiglia; onde, riguardando Matilda con tenerezza espressiva, le caddero alcune lagrime sulle gote; ma facendo forza a se stessa, serenossi alquanto, dicendo a Federigo: “proseguite pure, signore; il cielo nulla opera invano. Noi, abitanti di questa valle di miserie, dobbiamo ricevere gli annunzj celesti con umiltà e rassegnazione, e pregare Iddio acciò allontani da noi il suo giusto sdegno, piegando la fronte a’ divini decreti. Dunque, dite pure, signore, ci siamo già rassegnate.” Dispiaceva a Federigo di aver detto più là di quello che avrebbe voluto; era pieno di rispetto in osservando la nobiltà di animo e la tranquilla fermezza d’Ippolita; e ciò, aggiunto all'affettuosa amorevolezza con cui la madre e la figlia tacite rimiravansi, gli richiamava quasi il pianto sugli occhj; contuttociò, temendo d’accrescere col silenzio il loro dolore, pronunziò con voce bassa ed interrotta le seguenti parole:
“ Quando si trovi un elmo il qual somigli
A questa spada in giusta proporzione,
Tua figlia cinta fia da gran periglj:
Della stirpe d’Alfonso può un campione
Salvarla, ed acquetar del prence l’alma
Errante invendicata, e ſenza calma.”
“Ebbene!” disse Teodoro alquanto irato, “quale arcano mai si ritrova in questi versi che possa tanto affliggere le principesse? Voi non dovevate, signor marchese, atterrirle colla vostra misteriosa ripugnanza, e con sì frivolo fondamento.” “Giovinetto,” risposegli Federigo, “la vostra riflessione è alquanto ìncivile, e sebbene la sorte vi abbia favorito una volta”... “Deh! caro padre,” interruppe Isabella, inquieta per la collera che ben si accorse, esser nata in Teodoro dal di lui amore per Matilda, “non vi lasciate turbare dalle osservazioni di questo giovine, il quale finalmente altro non essendo che figliuolo d’un contadino, le ha fatte forse per adulare, e per mitigare il duolo di queste dame, e si è dimenticato la venerazione a voi dovuta; a dir vero, ei non è solito”... “Ippolita, cui spiaceva l’insorto impegno, sgridò Teodoro per l’ostentata soverchia baldanza, ma lo fece però in modo da mostrare che aggradiva il di lui zelo, e cambiando materia al dire, domandò al marchese dove lasciato avesse il consorte. Voleva egli risponderle, quando si ascoltò fuori della camera un bisbiglio, ed essendosi alcun di loro alzato per andar a vedere donde provenisse, s’innoltrarono Manfredi, il P. Girolamo, ed alcuni della comitiva i quali tutti aveano avuto qualche sentore dell’accaduto. Manfredi andò in fretta verso il letto di Federigo per condolersi seco del funesto accidente, e per saper meglio le particolarità del duello, ma tutto in un tratto si ritrasse spaventato, esclamando: “aimè!... chi sei tu, o spettro terribile?... è forse giunta per me l’ora fatale?” “Ah, diletto sposo,” gridò Ippolita, stringendolo fralle braccia, “cosa vedete mai? perchè affissate gli occhj in tal guisa?” “Come! Ippolita,” ripetè Manfredi, “voi non vedete nulla?... sarebbe mai quest’orrendo fantasma inviato a me solo?... a me che non ho”... “Per pietà calmatevi, consorte amato,” soggiunse Ippolita, “riprendete coraggio, ed acquietatevi; quì non ci sono altre persone eccetto noi, tutti amici vostri”... “Come! e quello non è Alfonso?” esclamò di nuovo Manfredi, “non lo vedete?... sarebbe mai un puro delirio della mia immaginazione!” “Questo!” disse Ippolita; “questo è Teodoro, quel giovine infelice a voi ben noto.” “Teodoro!” replicò Manfredi angoscioso, battendosi colla palma la fronte; “ma sia pur Teodoro od un fantasma, egli ha perturbato il mio spirito... e come mai è quì venuto!... come si ritrova egli armato!” “Credo che sia andato a cercar Isabella,” soggiunse la principessa. “Isabella?” ripetè Manfredi, infiammato di rabbia; “ora mi risovvengo... ora capisco... sì sì, non vi ha dubbio... ma in che modo è fuggito dalla prigione dove l’avevo fatto rinchiudere? Isabella forse, o questo frate ipocrita l’ha fatto di là uscire?”... “E sarebbe, o signore,” rispose Teodoro, “da ascriversi a delitto, se un padre avesse procurato lo scampo del suo figlio?” Il P. Girolamo restò maravigliato nel sentirsi in tal maniera quasi accusare dal proprio figliuolo. Ei non sapeva nè cosa pensare, nè comprendere in qual modo Teodoro esser potesse dalla prigione uscito, nè per quale avventura si ritrovasse armato, nè come si fosse battuto con Federigo, e far non voleva interrogazioni per timore di provocar lo sdegno del prencipe contro il figliuolo. Manfredi intanto dal di lui silenzio argomentò e rimase convinto, che il solo religioso avesse liberato dalla carcere Teodoro, ed a lui rivolto, rimproverandolo, disse: “e così dunque, ingrato vecchio, ricompensi i favori da me e da Ippolita ricevuti? anzi, non contento di opporti a’ più premurosi desideri del mio cuore, vesti l’armatura al tuo bastardo, e lo conduci ad insultar me in casa mia?” “Signore,” riprese Teodoro, “voi maltrattate a torto mio padre; siate persuaso che nè io, nè lui siam capaci di macchinar cosa alcuna contro di voi... e se mai consideraste come un’insolenza l’aver io contribuito all’esecuzione degli ordini vostri”... ed in così dire, disarmossi, e pose la spada a’ piè di Manfredi, soggiungendo: “eccovi il petto ignudo, ferite, signore, ferite pure, se sospettate che ribellanti pensieri stian quì dentro celati; no, non troverete impressi nel mio cuore, se non sensi di venerazione e verso di voi, e verso queste rispettabilissime principesse.” Tutti quei che erano là presenti si sentirono propensi per Teodoro, il quale eseguito avea quella umile e generosa azione con somma gentilezza di atti e di parole. Manfredi medesimo ne fu commosso, ma standogli tuttora fissa nella mente la sua mirabil somiglianza con Alfonso, era il di lui stupore misto di amarissimo interno ribrezzo. “Alzati,” disse a Teodoro, “per ora scrutinar non voglio se viver tu debba o morire; ma fammi incontanente il racconto delle tue avventure, e dimmi, come e da quando in quà, conosci questo vecchio traditore.” “Principe,”... disse il P. Girolamo con risentimento. “Taci impostore,” interruppe Manfredi, “non vo’ che nessuno gli metta in bocca ciò che ha da dire.” “Signore,” incominciò Teodoro, “nel mio caso non v’è tal bisogno; uditemi, sarò breve: nell’età di cinque anni, fui condotto in Algeri insiem con mia madre, essendo stati rapiti da’ corsari sulle coste della Sicilia, ma in men di un anno la sventurata mia genitrice morì di dolore”... Nel tempo di questa narrazione il buon religioso piangeva dirottamente, ed aveva impressi in volto mille intensi affanni; Teodoro in tal guisa continovò: “la madre mia, prima di morire, legò intorno a questo braccio sotto la vesta uno scritto da cui venni informato, esser io figliuolo del conte di Falconara”... “Sì, sì, è verissimo,” interruppe il P. Girolamo, “son io quell’infelice padre”... “Tacete, vi ripeto,” insistè Manfredi, “e tu prosegui,” soggiunse rivolto al giovane, il quale così riprese il discorso: “io rimasi dunque in ischiavitù, e fui liberato soltanto due anni sono, tempo in cui, ritrovandomi in corso sul mare col mio padrone, ci trovammo assaliti da un vascello cristiano il quale rimase vincitore; dopo di che, avendo scoperta la vera mia condizione al capitano, egli generosamente mi pose a terra nella Sicilia, dove, invece di ritrovar mio padre, riseppi, essere stati saccheggiati e devastati i suoi beni, come ancora abbruciato e diroccato il castello; e di più mi fu detto che in conseguenza di tal catastrofe avea mio padre, ritornando, venduto ciò che gli rimaneva, ed erasi fatto religioso nel regno di Napoli; ma niuno potè dirmi come, nè in qual convento. “Imbarcatomi alla prima occasione, navigai sino a Napoli, e di là poi son venuto di provincia in provincia fin quì, domandando da per tutto del genitore, ed ho pensato a sostentarmi col lavoro delle mie mani; ieri finalmente perdei ogni speranza di ritrovarlo, e credei avermi il cielo riserbata soltanto la pace del cuore, ed una povertà contenta per tutto il rimanente de’ giorni miei: ecco, signore, il racconto che mi avete richiesto. Il cielo mi ha fatto ritrovare il padre, e mi stimo felice; la sola mia presente sventura, quella si è d’aver incorso il dispiacere di Vostr’Altezza.” Finita la narrazione, si udì tra gli astanti un leggero bisbiglio che esprimeva contentezza e stupore; ed il marchese Federigo così parlò: “manca qualche particolarità nella di lui narrazione, nè io debbo tacerla, poichè s’egli è umile, a me conviene esser generoso... sì, bisogna che io confessi, esser lui uno de’ più valorosi giovani della cristianità. Egli è anche pronto, ed a tempo ardito; e sebbene io non lo conosca di lunga mano, mi rendo pure mallevadore della di lui sincerità; tengo per fermo che se vere non fossero le cose narrate, ei non le avrebbe dette;” e rivolto a Teodoro, continovò: “in quanto a me, io rispetto, illustre giovine, cotesta franchezza, effetto e contrassegno della vostra nascita, e sebbene mi abbiate offeso, tuttavia devesi ciò perdonare al vostro sangue che ha ribollito arrivando alla sorgente di cui andava in traccia da tanto tempo;” poscia, indirizzandosi a Manfredi, proseguì: “via, signore, se io gli perdono, potete farlo anche voi, tantopiù, non essendo colpa di questo giovine, se lo avete preso per uno spettro.” Tale amaro rimprovero scosse l’intollerante animo di Manfredi, per il che gli rispose con alterigia in tal guisa: “una somiglianza d’apparizione può bene atterrire l’umano spirito; il semplice braccio di un imbelle giovinastro non avrebbe potuto”... “Signore”, interruppe Ippolita, “l’ospite vostro ha bisogno di riposo; non sarebbe meglio lasciarlo in pace?” ed in così dire, porse la mano a Manfredi, e prendendo licenza da Federigo, precedè tutti gli altri. Non fu il prencipe scontento di troncare un discorso il quale faceagli sovvenire, aver il marchese discoperti i più intimi arcani suoi, onde si lasciò volentieri condurre al suo appartamento, e permise a Teodoro di andare a passar la notte nel monastero con suo padre, a condizione però che ritornasse la mattina dopo al castello, il che fu al giovane sommamente a grado. Matilda ed Isabella, essendo immerse in mille afflittive riflessioni, e mal soddisfatte l’una dell’altra, non bramarono di restar là insieme più lungamente per quella sera, e si ritirarono nelle lor camere, separandosi con molte cerimonie non troppo sincere, ciò che fu contro il loro costume.
Si lasciarono, è vero, queste due donzelle con tenui contrassegni di amorevolezza, ma provarono maggiore impazienza di ritornare insieme a parlamento, allorchè il nuovo sole comparve; imperciocchè, incapaci di prender riposo nella notte, la passarono amendue in riandare le domande che ciascheduna avrebbe bramato di far all’altra nella precedente sera. Matilda rifletteva che Isabella era stata da Teodoro assistita in due difficili circostanze, le quali non poteva indursi a credere totalmente fortuite. Inoltre, ricordavasi bene, avere il giovine fissati costantemente gli occhj in lei, mentre stavasi nella camera di Federigo; ma, sospettando che egli avesse ciò fatto per nascondere vie più il suo amore per Isabella, risolse di chiarirsene, temendo di offender la cara amica col fomentare un’amorosa passione pel di lei amante. Tali cose la gelosia suggerille, e l’amicizia le somministrò un pretesto per giustificare la propria curiosità.
Isabella aveva dal canto suo maggior fondamento di sospettare, e non potè neppur essa chiudere al sonno le luci. Rammentavasi con estrema pena che le parole e gli sguardi di Teodoro aveanle detto, essere il di lui cuore impegnato, ed era ciò vero; ma tuttavia immaginavasi che Matilda forse non lo riamasse, poichè erale sempre la medesima sembrata lontana dall’accogliere in seno amorosa fiamma; onde tra se diceva: “i di lei pensieri erano sempre fissi in celesti contemplazioni... e perchè mai mi son’io affaticata cotanto per distaccamela!... ah! son ora punita della mia generosità!... ma quando, e dove si son trovati insieme!... ciò non può essere... io mi sono ingannata... forse si videro iersera per la prima volta... certo egli deve aver riposto l’amor suo in altro oggetto... se fosse così, non sarei tanto infelice quanto pensavo; e se la mia carissima amica Matilda non è quella... come!... poss’io sospirar l’affetto d’un uomo il quale mi ha incivilmente, e da me non richiesto, fatto intendere di aver già dato ad altra il suo cuore:... egli me lo ha detto in un momento in cui doveva mostrarmisi, più che in altro tempo, cortese!... Sì, voglio andare dalla mia cara Matilda, la quale confermerà in me la doverosa idea di non curarlo... gli uomini son finti... vo’ pigliar dall’amica consiglio sullo stato monacale... ella si rallegrerà di sentirmi far tal discorso... e così le farò sapere che più non mi opponga alla sua inclinazione pel chiostro. Con tai pensieri in mente se ne andò alle stanze della principessa, e trovolla già vestita, sedendo pensierosa, e sostenendosi con una mano la testa. Tale atto esprimente ciò ch’ella risentiva in se stessa, risvegliò i concepiti sospetti nel cuor d’Isabella, e le persuase d’abbandonar totalmente la risoluzione di scoprirsi all’amica. Al primo vedersi arrossirono ambedue, ed eran troppo novizie per saper nascondere con destrezza i moti che risentivano in cuore: onde, dopo diverse vaghe interrogazioni e risposte, Matilda dimandò ad Isabella per qual motivo erasene fuggita; e l’altra che più non pensava al primo attentato di Manfredi, tanto avea l’anima ingombrata dalla presente circostanza, credendo che Matilda avesse voluto parlare della seconda fuga dal convento, così rispose: “Il Martelli portò la nuova della morte di vostra madre”... “Sì, sì,” interruppe Matilda, “Bianca mi ha narrata la cagione di tale sbaglio... io mi svenni, ed ella gridò: “aiuto, aiuto, la principessa è morta;” per lo che il Martelli il quale era venuto al palazzo a prendere la solita elemosina”... “Ma per qual ragione vi sveniste?” le domandò Isabella, cui non premeva di sapere il restante. Matilda, arrossendo, le replicò con interrotti accenti in tal maniera: “Nol so... mio padre... stava giudicando un reo”... “E chi era questo reo?” le chiese con dispetto Isabella. “Un giovine,” soggiunse Matilda; “credo... mi parve quel giovine”... “Chi? Teodoro?” disse Isabella. “Appunto,” rispose l’altra; “io non l’avevo mai veduto prima d’allora, e non so come avesse offeso mio padre... ma godo al sommo che gli abbia perdonato, poichè finalmente vi ha fatto qualche favore”... “A me?” replicò Isabella, “chiamate forse un favore l’aver ferito, e quasi ucciso mio padre? sebbene io non avessi mai conosciuto il mio genitore prima di ieri, spero tuttavia, o Matilda, che non supporrete in me tanto poca filial tenerezza da non essere sdegnata contro quel giovane per l’attentato da lui commesso, e che sarete persuasa, non poter io mai provar la minima affezione per uno il quale ha osato di alzare il temerario braccio contro l’autore della mia vita! No, Matilda, io l’aborro, e se voi nutrite tuttora per me quell’amicizia che tante volte mi giuraste, detesterete, son certa, un uomo il quale è stato in procinto di rendermi per sempre infelice.” A tai detti Matilda abbassò la fronte, e replicò: “io voglio sperare, carissima mia Isabella, che voi non dubitiate della mia sincera amicizia; credetemi adunque, io non ho mai veduto quel giovane prima di ieri, e mi era totalmente sconosciuto; siccome però il chirurgo ha dichiarato, esser vostro padre fuor di pericolo, non dovreste, mi pare, adirarvi così ingiustamente e senza carità contro di Teodoro il quale saper non poteva chi fosse la persona contro cui si difendeva.” “Per esservi tanto ignoto quanto dite,” riprese Isabella, “voi difendete con troppo ardore la sua causa! ed egli, s’io non m’inganno, nell’interno del suo cuore contraccambia assaissimo il vostro zelo.” “Spiegatevi meglio,” soggiunse Matilda; “cosa volete dire?” “Nulla,” replicò Isabella, ripentendosi d’averle dato un indizio, benchè leggero, dell’amorosa inclinazione del giovinetto per lei; e troncando tal ragionamento, le chiese come mai avesse Manfredi preso Teodoro in cambio d’uno spettro. “Come!” rispose Matilda, “non avete voi fatta attenzione alla viva rassomiglianza di lui col ritratto di Alfonso che si trova in galleria? Io lo feci osservare a Bianca prima di vederlo tutto armato, ma coll’elmo in testa egli sembra propriamente l’originale del quadro.” “Io non mi diletto in osservar pitture come voi fate,” rispose Isabella, “e molto meno ho esaminato quel giovine così attentamente come avete fatto voi... ah, Matilda, il vostro cuore è in pericolo!... ma lasciate ch’io vi ammonisca e vi consigli da vera amica... egli ha confessato a me di essere innamorato... di voi non può essere, mentre lo avete veduto ieri per la prima volta... non è egli vero?... almeno me lo avete detto.” “Certamente,” riprese Matilda, “ma potete voi inferire dalle mie parole che”... quindi fatta pausa per qualche momento, così riprese: “a proposito, egli ha veduto prima voi, e d’altronde io non ho la vanità d’immaginarmi che le mie scarse bellezze possano aver sedotto cuore a voi devoto... siate pur felice, Isabella, ed avvenga di Matilda ciò che piace al destino.” “Ah, dolce amica mia!” replicò Isabella, la cui virtù cedè a tante dimostrazioni di affetto; “sì, Teodoro ama voi sola, me ne sono accorta, anzi ne son persuasa, e l’idea della mia propria felicità non mi farà giammai pensare a competer con voi.” La tenera Matilde pianse in ascoltar quella sincera franchezza, ed in un subito la gelosia, che avea fatto nascere tiepidezza di affetto tra queste due amabili donzelle, cedè all’usata naturale sincerità, figlia del candor delle anime loro: onde si confessarono mutuamente la viva impressione che Teodoro fatta aveva su’ loro cuori, il che diè luogo ad una generosa contesa, insistendo amendue di voler lasciar l’una all’altra il libero possesso dell’oggetto adorato. Finalmente, risovvenendosi Isabella, essersi Teodoro quasi apertamente dichiarato per la rivale, raccolse tutte le virtù sue intorno al cuore, e determinossi a vincer i proprj affetti, ed a cedere il caro acquisto all’amica.
Durante quel conflitto d’amìcizia, Ippolita entrò nella camera, e disse: “Isabella, tale è l’amorevolezza vostra verso Matilda, e per effetto di natural gentilezza, mostrate voi pure tanto dolore di ciò che affligge la nostra sventurata famiglia, che neppure deve restarvi nascosta alcuna di quelle cose che dovrei dire alla mia figliuola soltanto.” Rimasero le giovani principesse attente e perplesse ad ascoltarla, ed essa continuò: “sappiate dunque, che essendo io convinta dagli strani avvenimenti dei due scorsi infausti giorni, aver il cielo decretato che lo scettro d’Otranto debba passare dalle mani di Manfredi in quelle del marchese Federigo, ho avuta un’ispirazione la quale mi porge uno spediente onde evitare la nostra total rovina; questo è l’unione delle due case, ed ho già partecipata al mio consorte l’idea di maritare quest’adorabile creatura a Federigo”... “Io maritarmi al marchese Federigo!” esclamò, interrompendo Matilda; “giusto cielo!... ah, mia cara madre!... ed avete dunque fatta di ciò menzione al mio genitore?”... “Sì,” rispose Ippolita, “ed egli, assentendo benignamente alla mia proposta, è andato a farne parola al marchese.” “Ah! infelice principessa!” gridò Isabella, “cosa mai avete fatto! cotesta malavveduta bontà ha preparata la vostra inevitabil rovina, la mia, e quella ancora dell’innocente Matilda!” “Come la nostra rovina!” disse Ippolita stupefatta; “che vuol dir questo?” “Oimè!” soggiunse Isabella, “l’innocenza del vostro cuore v’impedisce di veder l’altrui depravazione... Manfredi... quell’empio”... “Sospendete,” riprese Ippolita, “ed in mia presenza parlate di Manfredi in altra guisa; egli è il mio consorte e signore, onde”... “Non sarà tale per lungo tempo,” riprese Isabella, “se pure dar potrà compimento a’ suoi scellerati disegni”.... “Questo linguaggio straordinario mi sorprende,” replicò Ippolita: “so che il vostro naturale è focoso, ma non siete mai giunta ad un tale eccesso: cosa vi ha fatto Manfredi per il che si possa in voi giustificare la strana maniera di parlarne, come se fosse per divenire un omicida?” “Voi siete troppo credula, virtuosa principessa,” le replicò Isabella, “egli non macchina, per vero dire, attentati contro la vostra vita, ma bensì va indagando i mezzi di separarsi da voi, e repudiarvi”... “Repudiarmi!”... “Ripudiar mia madre!” gridarono ad un tempo Ippolita e Matilda. “Sì,” aggiunse Isabella, “e, per compiere il suo delitto egli pensa... ah!... non so dirlo”... “E che mai dir potreste di più spiacevole?” dimandolle Matilda. Frattanto dimorava Ippolita in uno stupido silenzio, poichè il dolore le impediva la parola, e rammentandosi degli ambigui ragionamenti di Manfredi, confermavasi in ciò che allora udiva da Isabella la quale, vedendola in tale stato, non diè all’amica risposta, ma corse a gettarsi a’ suoi piedi, e con sincerità mista di fermezza le disse: “Deh, cara madre!... che tal poss’io ben chiamarvi... sì... credetemi... fidatevi pure di me; io mi protesto di voler morir mille volte prima di acconsentire a farvi ingiuria, e prima di stringere un sì odioso”... “V’intendo... sì, v’intendo... ah! questo è troppo!” esclamò Ippolita, “a quali delitti apre un delitto la strada!... alzatevi, diletta Isabella... io non dubito della virtù vostra... ah, Matilda, vedo che questo colpo è per te troppo grave a soffrire!... non piangere, figlia mia, non far lagnanze... te ne scongiuro, anzi te lo comando... sovvengati ch’egli è tuo padre”... “Ma voi pure siete mia madre,” rispose con veemenza Matilda; “voi siete dotata d’ogni virtù, e indegna d’un simile trattamento... e non dovrò io... non dovrò io dunque lagnarmi?” “No, nol dovete,” soggiunse Ippolita; “consolatevi, tutto andrà bene, se piace a Dio. Manfredi nell’eccesso dell’amarezza per la morte del vostro fratello, non poteva riflettere a quel che diceva; e forse anche Isabella, allora sopraffatta, nol capì bene... ah! cara figliuola mia, tu non sai tutto!.. credi a me... un destino già maturo pesa sul nostro capo, e la mano della Provvidenza sta aggravata sopra noi tutti... sarò in parte contenta, se potrò salvare almen te dai minacciati danni... ah sì! l’unico sacrifizio di me sola basterà forse per tutti... son risoluta... andrò io stessa ad offrirmi volontaria al divorzio... non penso a ciò che potrà accadere... voglio ritirarmi nel quì vicino monastero, dove mi propongo di passare il rimanente de’ giorni miei in isparger lagrime, ed in pregare il cielo per te, mia cara figlia, e per lui... sì, anche per lui.” “Voi siete,” soggiunse Isabella, “tanto buona ed utile a questo mondo, quanto è Manfredi esecrabile e dannoso... ma non crediate già, o signora, che la vostra condescendenza possa servir d’incentivo alla mia... giuro anzi, e chiamo in testimonio tutti gli angeli del cielo”... “No, non proseguite più oltre, ve ne prego,” interruppe Ippolita, “ricordatevi che non siete padrona di voi stessa, ma soggetta alla paterna autorità”... “Mio padre,” replicò Isabella, “è bastantemente pio, ed ha l’animo abbastanza nobile per non comandarmi un’azione indegna; ed inoltre ha egli un padre facoltà di obbligare contro un giuramento?... come! potre’ io, già promessa al figliuolo, dar la mano al genitore!... no, principessa, non vi sarà forza umana capace di strascinarmi all’odiate nozze dell’aborrito e dispregevol Manfredi: le divine ed umane leggi proibiscono questa unione... ed oltre a ciò, come potrei lacerare il cuore della mia cara Matilda, facendo un torto sì manifesto alla di lei adorabile genitrice, che tale considero anche per me, non avendone conosciuta altra giammai... “Ah sì!”, esclamò Matilda, “ella è madre comune di ambedue noi... e potremmo, cara Isabella, amarla quanto essa merita!” “Non più, amatissime figlie mie,” soggiunse Ippolita sommamente commossa, “la vostra tenerezza mi opprime... ma pure mi convien cedere... l’elezione dello stato non dipende mai dalle donne, tocca bensì a decidere della nostra sorte al cielo, a’ nostri genitori, ed a’ nostri mariti. Vi prego dunque a soffrir di buon animo, sino a tanto che sappiansi le vere determinazioni di Manfredi e di Federigo. Se il marchese accetta la mano di Matilda, son certa ch’ella sarà prontissima ad obbedire; quanto al rimanente il cielo si degnerà d’interporre la sua mediazione, ed impedirà ogni mala ventura”... quindi, rivolta a Matilda, la quale prostrata a’ suoi piedi scioglievasi in lagrime senza parlare, continovò: “ebbene che vuol dir questo?... ma no, seguite pure a tacere, figliuola mia, poichè non devo udir parola contro i desiderj del padre vostro.” “Aimè!”... replicò la figlia, “non temete della mia cieca obbedienza e verso di lui e verso di voi, malgrado l’orrore che ne risento... ma non posso, o madre mia, ricever da voi tanti contrassegni di tenerezza e di bontà, senza palesarvi i più intimi segreti di questo cuore”... “Matilda... Matilda,” disse Isabella, tremando, “cosa mai volete svelarle!... deh, rientrate in voi stessa”... “No, Isabella,” replicò l’altra, “io non meriterei d’aver questa madre incomparabile, se continuassi a tener racchiuso in petto, un segreto... no, io l’ho offesa, soffrendo che in questo mal guardato seno s’introducesse un affetto, senza il di lei consentimento... ma lo scaccerò per sempre... fo voto al cielo ed a lei”... “Figliuola mia... che volete mai dire?... a qual nuova calamità ci riserba il destino!... voi un affetto segreto!... voi!... e di più in questo momento in cui minacciati siam tutti di totale inevitabil distruzione!”... “Ah! ben conosco tutti i miei torti,” disse Matilda, “ed aborro, me stessa, se ciò cagiona affanno alla madre mia, essendo essa la cosa più cara ch’io m’abbia in sulla terra... ah no... non lo vedrò mai più!” “Isabella,” soggiunse Ippolita, “voi siete a parte di questo fatale segreto; qualunque siasi, parlate.” “Come!” gridò Matilda, “ho io totalmente perduto l’amor della mia genitrice che ella non vuol permettermi d’accusar da me stessa il mio proprio fallo!... ahi! sventurata Matilda!”... “Deh, principessa,” disse allora Isabella, “non imitate la crudeltà di Manfredi! come potete vedere quest’anima virtuosa in tante angustie, e non averne pietà!”... Ippolita, stringendo Matilda fralle braccia, replicò: “le colpe della mia figlia non possono esser gravi... so quanto è buona, tenera, ed obbediente... sì, io ti perdono, virtuosa fanciulla, unica speranza mia.” Poscia Matilda narrò alla principessa la loro scambievole inclinazione per Teodoro, e l’intenzìon d’Isabella di volerlene cedere generosamente il possesso. Biasimolle Ippolita per tale imprudenza, e fece conoscere alle medesime l’improbabilità che potessero i padri loro accettare per erede un giovine totalmente sprovvisto di beni di fortuna, quantunque nato d’illustre sangue: peraltro confortossi nell’intendere che le medesime nutrivano in cuore un affetto non inveterato, di cui avea Teodoro avuto soltanto un leggero indizio, e per fine ordinò ad amendue di evitare ogni ulteriore familiarità con esso lui. Matilda dal canto suo promesse con salda determinazione di eseguire il comando materno; ma Isabella, dandosi a credere che l’amica meditasse unicamente di facilitare la di lei unione con Teodoro, nulla rispose, tantopiù, non potendosi risolvere a porlo del tutto in oblio. “Voglio andare al monastero,” riprese Ippolita, “per far dire altre messe, onde il cielo ne dia grazia di sottrarci a questa nuova calamità”... “Ah madre mia!” disse Matilda, “volete dunque abbandonarci! pensate forse di ritirarvi in convento, e dare al genitore più agio di effettuare il funesto suo proponimento? Deh no, nol fate!... eccomi a’ piedi vostri... avete forse già risoluto di darmi a Federigo?... lasciatemi venir con voi in monastero”... “Acquietati, figliuola mia,” soggiunse Ippolita, “in breve ritornerò, nè mi separerò più da te, sin che non sappia, esser tale la volontà del cielo, e richiederlo il tuo bene.” “Deh! non mi celate le vostre determinazioni:” replicò Matilda, “io non acconsentirò mai ad isposare il marchese, se pure non mel comandate espressamente... oh Dio!... cosa avverrà di me!”... “E per qual ragione così ti disanimi?” riprese Ippolita; “ti ho pur promesso di tornar quì a momenti”... “Ah madre mia!”... replicò Matilda, “non vi partite, e difendete me da me stessa: un vostro severo sguardo avrà più forza di tutto il furore del padre. Tropp’oltre sono scorsi i miei affetti, e voi sola raffrenargli potete”... “Non più,” interruppe Ippolita, “voi non dovete ricader nell’errore.” “Sì, posso scordarmi di Teodoro,” rispose Matilda; “ma come avrò forza d’acconsentire ad altre nozze!... deh, permettetemi di venire in sacro asilo con voi, e di separarmi per sempre dai viventi!” “Il vostro destino,” soggiunse Ippolita, “dal genitore solo dipende, ed io vi avrei ingiustamente amata, se non aveste ancora imparato che non dovete rispettare nel mondo alcun più di lui... addio, figliuola, vado a fare orazione per voi.”
Erasi Ippolita seco stessa proposta di andare a domandare al P. Girolamo, s’ella poteva in coscienza non acconsentire al divorzio. Aveva eziandio più volte istigato Manfredi a rinunziare al principato, la cui posseduta signoria erale un peso troppo enorme; e simile scrupolo concorreva a renderle la separazione dal consorte meno acerba di quello che le sarebbe in altra circostanza sembrata.
Il P. Girolamo, tornando nella precedente sera dal castello, avea severamente ripreso Teodoro, per averlo in faccia di Manfredi dichiarato come istrutto e complice della sua fuga. Confessò il giovine, aver ciò fatto col buon fine di togliere al prencipe ogni sospetto sopra Matilda, scusandosi col dimostrargli che l’amor di padre, la nota illibatezza de’ suoi costumi, ed il sacro carattere mettevanlo in sicuro dalla collera del tiranno, e dalle riprensioni di chiunque si fosse. Il buon religioso fu dolente oltremodo nell’udire l’inclinazion del figliuolo per la giovine principessa, e lasciatelo andare a prender riposo, gli promise d’informarlo nella vegnente mattina intorno ad alcuni importanti segreti che lo avrebbero evidentemente persuaso a vincere tal passione. Teodoro, siccome Isabella, era poco accostumato a vivere sotto la paterna autorità, onde sottomettervisi di buon grado, e contro gl’impulsi del proprio cuore ripieno di bollor giovanile, per lo che non troppo curavasi di ascoltar le ragioni del P. Girolamo, e molto meno sentivasi inclinato a conformarsi colle medesime, avendo la leggiadretta Matilda fatta sul di lui animo impressione maggiore della doverosa filiale ubbidienza. Ebbe nella notte la mente ripiena di sogni amorosi, e la susseguente mattina era già tardi, quando si risovvenne, avergli il sant’uomo ordinato d’attenderlo davanti la tomba di Alfonso.
Allorchè il P. Girolamo lo vide arrivare, gli disse: “Teodoro, questo ritardo mi spiace; non avete voi ancora imparato a rispettare i comandi paterni?” Risposegli il giovane con frivole scuse, attribuendo l’indugio, massimamente al non essersi egli potuto in tempo svegliare. “E che bei sogni avete fatti, eh?” domandogli il padre: Teodoro arrossì, tacendo, e l’altro riprese: “pensate, giovane inconsiderato, che questa è una follia, e bisogna levarsela dalla mente... sì, mio caro figliuolo, sradica questa colpevole passion dal tuo cuore.” “Colpevol passione!” esclamò il giovine; “e può esser colpa l’amare la bellezza innocente e la modesta virtù!” “Sì, è una colpa," replicò il P. Girolamo, “d’amar coloro di cui il cielo ha decretato il totale esterminio: la terra deve essere purgata dalla schiatta de’ mostri, ed il cielo punisce i tiranni fino alla terza e quarta generazione.” “Ma come è mai possibile,” aggiunse Teodoro, “ch’egli punisca in una persona giusta i falli d’un delinquente! La bella Matilda ha virtù bastanti da”... “Da mandarti in perdizione,” interruppe il padre; “hai tu forse dimenticato che il brutal Manfredi ha pronunziata due volte contro di te la sentenza di morte?” “No,” aggiunse Teodoro, “ma sovvienmi altresì che la caritatevol bontà della sua figliuola mi ha sottratto al di lui cieco furore... posso bene scordarmi delle ingiurie, de’ benefizj giammai.” “Le ingiurie che la stirpe di Manfredi ti ha fatte,” rispose il religioso, “son grandi, e molto più crudeli di quello che tu possi immaginarti... sii persuaso... non replicare, ma volgiti a quel simulacro per te sacrosanto: dentro quell’urna riposano le ceneri del buono Alfonso, principe ornato d’ogni virtù, padre del popolo, delizia del genere umano. Inginocchiati, giovine incauto, e raffrena le tue voglie, mentre un padre ti svela l’orribile arcano che deve dall’animo tuo discacciare ogni altra idea, e destarti una brama ardente di giustissima indispensabil vendetta... o crudelmente ingiuriato Alfonso!... comparisci ombra sdegnosa; attenebra intorno a noi quest’aria, e quì fermati sin che le mie labbra tremanti abbiano... ah!... chi mai si appressa!”... “La più sventurata tralle donne,” rispose Ippolita, entrando nella cappella... “padre, vorrei parlarvi; avete voi tempo di ascoltami?... ma cosa fa questo giovine ginocchioni?... che significa l’orrore impresso su’ vostri volti? e perchè davanti a questa venerabil tomba?... avete forse veduto qualche cosa?... per pietà, rispondete”... “Stavamo quì pieni di confusione,” replicò il religioso, “pregando fervorosamente il cielo onde si degni por fine ai mali che affliggono questa deplorabil provincia... deh, unitevi con noi, e la pura anima vostra sarà, spero, valevole ad impetrare dall’Altissimo la diversione delle terribili sciagure, le quali sembrano annunziate alla famiglia vostra dai prodigj negli scorsi giorni accaduti.” “Sì, prego istantemente il cielo di liberarcene,” soggiunse la devota principessa; “voi sapete che ho sempre impiegata questa vita ad implorar benedizioni sopra il mio consorte e sopra i figlj innocenti... oimè!... ne ho perduto uno!... restami solo a chiedere grazia per la mia povera Matilda... deh, santo religioso, pregate per lei!” “Ogni cuor buono pregherà per la medesima,” esclamò Teodoro con enfasi di tenerezza... “Taci, giovane imprudente,” dissegli il P. Girolamo;” “e voi, ottima principessa, rassegnatevi a’ supremi voleri. Iddio dà, Iddio toglie... benedite il suo santo nome, e piegate la fronte a’ suoi decreti.” “Lo fo con tutto il cuore,” soggiunse Ippolita; “ma posso io sperar la salvezza dell’unico mio conforto?... dovrà forse perire anche Matilda?... altra cagione però a voi mi ha condotta in questo momento: son venuta... piacciavi d’allontanare il vostro figliuolo, poichè nessuno, se non voi, ascoltar deve ciò ch’io sono per dire.” “Voglia il cielo accordarvi ogni grazia, benigna principessa,” dissele Teodoro, scostandosi; “ma un’occhiata del padre gl’impose silenzio, e lo fe’ partire.
Quindi, Ippolita narrò al religioso lo spediente da lei suggerito a Manfredi, e come egli avealo approvato, andando subito ad offrire la mano di Matilda a Federigo. Non potè il P. Girolamo nascondere la sua ripugnanza riguardo a tal proposta, ma dissimulò e colori il suo turbamento coll’addurre per difficoltà il non sembrargli probabile che il marchese Federigo, siccome il congiunto più prossimo di Alfonso, volesse imparentarsi coll’usurpatore de’ suoi diritti, ed appunto in quel momento medesimo in cui era venuto per farsi render ragione di ogni affronto. Vie più grande però fu la di lui perplessità nel doverla consigliare, allorchè la medesima, dichiarandosegli pronta ad assentire al divorzio, domandogli, se valido fosse e lecito il di lei consentimento; onde il P. Girolamo, non volendo mostrarsi direttamente contrario all’union di Manfredi con Isabella, si volse a dimostrarle quanto peccaminoso sarebbe stato un tal suo consenso, l’atterrì colla minaccia d’incorrere nello sdegno del cielo se vi aderisse, e con severe parole imposele di ricusar costantemente il divorzio con santa giustissima indignazione.
In questo frattempo aveva il prencipe fatta parola al marchese sulla doppia maritale unione, ed egli, essendo già preso della leggiadra bellezza di Matilda, ascoltò con grande attenzione l’offerta. L’affetto che aveva indebolito il suo cuore gli fece in un subito scordare l’inimicizia per Manfredi, tantopiù, non credendosi possente abbastanza per ritogliersi la signoria d’Otranto con la forza dell’armi; e riflettendo eziandio che il principe ritrovavasi in età da far ragionevolmente sperare che non potesse aver successione, parvegli, essere il maritaggio suo con Matilda l’unico mezzo per rientrare un giorno, e senza usar violenza, al possesso del principato. Finse peraltro maravigliarsi a tal proposizione, e per mera formalità non volle dar decisiva risposta, prima di saper le intenzioni d’Ippolita. Manfredi si prese a carico l’approvazione della consorte, ed estremamente gioioso d’aver riuscito nel suo intento, siccome pure colmo d’impazienza di vedersi in istato d’aver figliuoli, corse all’appartamento d’Ippolita, determinato di ottenere ad ogni patto dalla medesima il consentimento. Allorchè gli fu detto, esser ella andata al convento, avvampò d’ira, imperciocchè la reità della sua coscienza gli fece supporre che, avendole Isabella manifestato il di lui proponimento, si fosse la consorte colà ricoverata in asilo, sin a tanto che avesse fatti nascere tanti ostacoli da render vano il meditato divorzio. Tendevano a confermarlo maggiormente in tale idea i sospetti che avea riguardo al P. Girolamo, e temeva, aver quegli non solo dissuasa la principessa dall’aconsentire al di lui intento, ma averla eziandio sollecitata a ritirarsi in luogo sacro. Colla mente piena di tali pensieri, e coll’idea d’impedire l’esecuzione de’ progetti in lei supposti, affrettossi d’andare al convento, e vi giunse appunto mentre stava il religioso esortando la principessa ad opporsi al divorzio.
“Che fate quì?” disse Manfredi ad Ippolita; “perchè non avete aspettato il mio ritorno dalle camere del marchese?” “Son venuta,” rispose la principessa, “a pregare il cielo d’ispirare ad ambedue rette intenzioni nel tempo della vostra conferenza.” “Le mie conferenze,” soggiunse Manfredi, “non han bisogno che si ricorra alle invenzioni de’ frati... e poi, non ci sono al mondo altre persone, con cui piacciavi ragionare, in fuor di cotesto vecchio traditore?” “Empio!” riprese il P. Girolamo, “ed innanzi all’altare vieni a dire ingiurie ai ministri d’Iddio!... ma ascoltami, o Manfredi, son già noti gli scellerati tuoi disegni; il cielo non gli ignora, e questa virtuosa gentildonna gli sa... cedi... non guardare intorno sì torvo... abbassa quell’orgogliosa cervice... la chiesa disprezza le tue minacce, e i di lei fulmini strideranno più efficacemente del tuo rabbioso e pazzo furore. Persisti, seppure ardisci, nella rea intenzione dell’immaginato divorzio, sinchè l’ecclesiastica potestà abbia pronunziata la sentenza; che io qui, per autorità di lei, fulmino la scomunica sul tuo capo!” “Ribelle insolente,” soggiunse Manfredi, procurando di celare il timore ispiratogli dalle parole del sant’uomo, “ed hai anche ardire di minacciare un legittimo principe?”... “Tu non sei legittimo principe,” replicò il religioso; “no, non sei principe... va’... va’ a discutere con Federigo le tue pretensioni; e quando avrai fatto ciò”... “Ciò è già fatto,” replicò Manfredi; “Federigo accetta la mano di Matilda, ed è pronto a cedere alle mia linea masculina il perpetuo dominio di questo stato”... Mentre dicea tai parole, tre gocce di sangue caddero dal naso della statua d’Alfonso, per il qual nuovo prodigio Manfredi impallidì, e la principessa si gettò ginocchione davanti al simulacro. “Vedi! vedi!” disse il P. Girolamo, “osserva questo miracolo: ciò significa che il sangue d’Alfonso gronda a goccia a goccia, sdegnando di mischiarsi col tuo.” “Deh, amato consorte!” soggiunse Ippolita, “rassegnatevi a’ celesti voleri; non pensate già che, essendo stata io sinora moglie obbediente, voglia ribellarmi dalla vostra autorità; io non ho altro volere, se non quello che può esser conforme al voler della chiesa ed al vostro; ricorriamo al santo suo tribunale, giacchè non possiam da noi stessi sciogliere i sacri vincoli da cui siamo ambedue stretti. Se la chiesa approverà il discioglimento del nostro matrimonio, sia pure... mi restan pochi anni da vivere, e son quegli appunto della ritiratezza e dell’umiliazione. E come potrò io spender meglio la vita, che pregando appiè di questo altare per la salvezza vostra e di Matilda?”... “Ma frattanto voi non dovete rimaner quì,” replicò Manfredi; “ritornate meco al castello, e là consulteremo insieme come debba compirsi la nostra separazione... non deve però venirci questo frate raggiratore il quale ardisce mischiarsi ne’ fatti altrui; questo turbolento traditore non dee più metter piede nella mia tranquilla casa... in quanto poi al tuo bastardo,” disse al padre, “io lo esilio da tutti i miei stati: qualunque sia lo sposo che toccherà ad Isabella, questo non sarà certo il figliuolo del P. Girolamo Falconara, da lui fatto scaturire non si sa nè di dove, nè come.” “V’ingannate, signore,” riprese il religioso; “chiamate piuttosto scaturiti non si sa nè di dove, nè come coloro i quali s’intrudono ne’ seggj de’ legittimi principi, e che poi appassiscono a guisaFonte/commento: Pagina:Walpole - Il castello di Otranto, 1795.djvu/267 dell’erba del campo, nè il loro stato più oltre gli riconosce. Manfredi, guardando con disprezzo il religioso, fe’ cenno alla consorte di precederlo; ma giunto alla porta della chiesa, parlò all’orecchio di uno de’ suoi, ordinandogli di tenersi nascosto intorno al convento, per osservare se alcuno del castello colà ne andasse, e recargliene pronta e segreta notizia.