< Il castello di Otranto
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Horace Walpole - Il castello di Otranto (1764)
Traduzione dall'inglese di Jean Sivrac (1795)
Capitolo terzo
Capitolo secondo Capitolo quarto

CAPITOLO TERZO.



Palpitò il cuor di Manfredi nell’osservare le piume del portentoso elmo scuotersi e piegarsi accompagnando il suon della tromba, e rivoltosi tutto confuso al P. Girolamo, non più considerandolo come il conte di Falconara, ma come un sacro ministro del cielo, gli disse: “che mai significan tai prodigj? Se io son colpevole”... in questo le piume fluttuarono con maggior veemenza, ond’egli continovò, esclamando: “infelice principe ch’io mi sono!... deh! assistetemi, o sant’uomo, colle vostre efficaci orazioni!” “Signore,” replicò il padre, “il cielo è senza dubbio contro di voi sdegnato, perchè sì villanamente dileggiate i servi suoi: sottomettetevi alla santa chiesa, e cessate dal perseguitare i sacerdoti; lasciate andar salvo questo giovine innocente, ed imparate a rispettare il mio sacro carattere: il cielo non vuol essere preso a scherno, e voi vedete”... La tromba suonando nuovamente lo interruppe, e Manfredi rispose: “confesso d’aver troppo precipitati i miei giudizj, ma sia per non fatto: deh! buon padre, andate voi alla vedetta, e dimandate chi è.” “Ebbene,” disse il religioso, “ mi accordate voi la grazia del mio Teodoro?” “Sì,” replicò il prencipe, “ma voi andate di grazia a veder chi è là fuori.”


Il buon vecchio, gettatosi al collo del suo figliuolo, versò un torrente di lagrime, lasciando libero il freno agli affetti del paterno suo cuore. “Ma voi mi avete promesso d’andar a vedere alla porta,” insistè Manfredi. “Ho creduto,” rispos’egli, “che Vostr’Altezza volesse concedermi di mostrarle la mia riconoscenza col pagar prima questo giusto tributo alla natura.” “Andate, padre mio,” disse Teodoro, “io non merito che per mia cagione indugiate più lungamente a sodisfar Sua Altezza.”


Avendo il pio religioso domandato chi fosse alla porta, gli fu risposto: “un araldo.” “Da parte di chi?” soggiunse egli; “da parte del cavaliere dalla spada gigantesca,” replicò l’araldo, “e devo parlare all’usurpatore di Otranto.” Il P. Girolamo, ritornato a Manfredi, gli ripetè le stesse udite parole. L’idea del primo pomposo titolo riempie il prencipe di spavento, ma quando intese chiamarsi usurpatore, si riaccese in lui l’usata rabbia, e riprese il solito coraggio, gridando: “io usurpatore! chi è questo insolente villano il quale ardisce contrastarmi la mia legittima sovranità?” e rivolto al religioso, gli disse: “partite; questi non sono affari che vi appartengano; parlerò io stesso a questo prosontuoso; e voi andate al convento e persuadete alla principessa di ritornare al castello: il vostro figliuolo resterà quì in ostaggio, e dipenderà la sua vita dal buon esito della datavi commissione.” “Giusto cielo!” esclamò il sant’uomo, “Vostr’Altezza mi ha pure, pochi istanti fa, accordata di buon cuore la grazia del mio povero figlio: e come, o principe, vi siete così presto scordato della propizia interruzione mandata dal cielo!” “Il cielo,” replicò Manfredi, “non manda araldi a porre in dubbio il possesso legale delle signorie... anzi io non so se manifesti mai la sua volontà per mezzo de’ frati... ma lascio a voi scrutinar tal questione; ora, questo è il mio stabil volere, e se quì non tornate colla principessa, vedrete se un arrogante araldo potrà liberare il vostro figlio dalle mie mani.”


Voleva il buon vecchio replicare, ma fu vano, imperocchè Manfredi comandò che fosse condotto alla porta segreta, e chiuso fuor del castello. Ordinò parimente ad alcuni de’ suoi di rinserrare Teodoro in cima della torre nera, e colà gelosamente custodirlo, permettendo appena a’ due infelici la trista consolazion d’abbracciarsi; quindi andò precipitosamente nel salone, e postosi in trono, fece ammetter l’araldo alla sua presenza.


Appena comparso, Manfredi ferocemente gli disse: “ebbene, audace, che vuoi tu da me?” L’araldo in tal guisa rispose: “a te ne vengo, o Manfredi, usurpatore del principato d’Otranto, da parte del famosissimo ed invittissimo cavaliere, il cavaliere dalla spada gigantesca. Egli in nome del suo signore Federigo marchese di Vicenza, dimanda la principessa Isabella di lui figliuola la quale hai tu vigliaccamente e traditorescamente ridotta in tuo potere, facendo al tuo intento servire finti e da te compri tutori nel tempo della sua assenza in lontani paesi: egli vuole adunque che tu rinunzj al principato d’Otranto, da te usurpato al suddetto Federigo, consanguineo più prossimo del legittimo signore Alfonso il Buono: se poi non ti disponi a consentir subito alle sue richieste, sappi ch’egli ti disfida a combatter seco in duello fino all’ultimo sangue:” così dicendo, l’araldo gettogli il guanto, usato segno della disfida.


“E dov’è questo mìllantatore che a me t’invia?” domandogli Manfredi. “Una lega di quà distante,” replicò l’araldo; “e viene apposta per far valere le pretensioni del suo signore contro di te, essendo egli leal cavaliere, e tu un usurpatore ed un ladrone.”


Per quanto offensiva si fosse cotale ambasciata, riflettè Manfredi, non convenirgli il provocar lo sdegno del marchese, sapendo esser ben fondate le sue ragioni, poichè non era quella la prima volta che venia minacciato della piena restituzione. Per meglio schiarire il fatto, si vuol sapere qualmente gli antenati di Federigo aveano pretensione sul principato d’Otranto dopo la morte d’Alfonso il Buono accaduta senza successione; tuttavolta Manfredi, il di lui padre, e l’avo erano potentissimi, e la casa di Vicenza troppo inferiore per levarnegli di possesso. Federigo, giovine bellicoso, e dedito agli amori, invaghissi d’una gentildonna straordinariamente bella e di leggiadria ripiena, e la tolse in consorte; ma quella nel dar la vita ad Isabella morì sopra parto, ond’egli ne rimase per tal modo afflitto, che presa la croce andossene nella terra santa, dove in una battaglia contro gl’infedeli, fu ferito e fatto prigioniero, vociferandosi in appresso, aver egli terminati i suoi giorni in cattività. Allorchè giunse tal novella a Manfredi, egli guadagnò con denaro i tutori d’Isabella, ed essi gliela dettero nelle mani come promessa sposa del suo figlio Corrado, proponendosi per tale alleanza di riunire ambedue le famiglie, ed ultimarne in simil guisa le pretensioni. Questo motivo avealo, dopo la morte di Corrado, fatto risolvere ad isposarla egli stesso; ed in quel punto pensò ad ottenere il consenso del marchese riguardo a tal maritaggio. Parimente per oggetto di politica tendente a simil fine, credette, dover invitare nel suo castello il campione di Federigo per timore che potesse la fuga d’Isabella giungere a sua notizia, e comandò poi a’ servitori e domestici suoi di non palesar ciò ad alcuno del seguito del cavaliere.


Dopo tali riflessioni, così rispose all’araldo: “ritorna al cavaliere, e digli in mio nome che, prima di decidere colla spada la nostra lite, vorrei pur seco favellare, onde l’invito a venire nel mio castello, promettendogli sulla mia parola d’onore, e sulla fede di cavaliere cortese ricevimento e per lui e per tutta la sua comitiva: se non potremo decider l’affare in modo amichevole, giuro che ripartirà salvo, ed avrà da me piena soddisfazione, e conforme alle leggi invariabili della cavalleria: così mi dia forza e vittoria Dio e la Santissima Trinità.” L’araldo inchinossegli tre volte, e partì.


Mentre il prencipe dava udienza all’araldo, il P. Girolamo se ne ritornava al convento, combattuto da mille contrarj affetti, ed irresoluto circa al partito cui appigliarsi dovea. Tremava per la vita dell’amato figliuolo, ed il primo pensiero dell’agitata sua mente fu di persuadere ad Isabella di ritornarsene al palazzo; non temea però meno di vederla unita in matrimonio con Manfredi: d’altronde la sommissione illimitata d’Ippolita al voler del consorte non gli dava poco da pensare; e quantunque, venendogli conceduto agio di favellarle, si ripromettesse d’indurla a non dovere in coscienza acconsentire al divorzio, riflettea tuttavia che se Manfredi avesse risaputo che da lui proveniva tale ostacolo, ciò sarebbe stato a Teodoro egualmente funesto. Era altresì impaziente d’intendere da parte di chi venuto fosse l’araldo, il quale con tanta baldanza avea dichiarata illegale la sovranità di Manfredi, ma non voleva assentarsi dal monastero per farne inchiesta, temendo che di là se ne fuggisse Isabella, e potesse la sua fuga essere a lui stesso imputata. Riandava cammin facendo seco stesso tali pensieri, quando incontrò sotto il portico del convento un religioso, il quale a lui venendosene in aria melanconica e sconsolata, gli disse: “ed è pur vero, fratello, che abbiam perduta la buona principessa Ippolita nostra benefattrice?” Stupì il P. Girolamo, ed esclamò: “che dite mai, fratello! io vengo in questo momento dal palazzo, e l’ho lasciata in perfetta salute.” “Il Martelli”, riprese l’altro, “è di là venuto un quarto d’ora fa, e ha data la trista nuova che Sua Altezza era morta, per il che tutti i nostri fratelli son andati in coro a pregare per la di lei anima, ed hanno voluto farmi quì attendere il vostro arrivo, sapendo la santa amicizia che passava tra voi e quella benefica principessa, per consolarvi nell’amaritudine che deve avervi cagionata cotal disgrazia... oh sì! abbiamo ragion di piangere, perchè ella era veramente la madre del nostro monastero!... ma... siamo tutti pellegrini sù questa terra!... non bisogna lamentarsi, poichè dovremo tutti o presto o tardi spogliarci di questa fragil carne!... Dio voglia che la nostra vita rassomigli alla sua! e”... “Ma voi sognate, caro fratello,” interruppe il P. Girolamo; “vi ridico, esser la principessa in buona salute; io vengo in questo punto dal castello... parliamo d’altro: dov’è la principessa Isabella?” “Povera Dama!” replicò egli, “le ho data la dolorosa nuova, consolandola, quanto mi è stato possibile, col rappresentarle che siamo tutti mortali, e mi è sembrato questo momento opportuno per esortarla a prendere il velo, confortandola coll’esempio della beata principessa Sancia d’Aragona.” “Il vostro zelo è stato lodevolissimo, caro fratello,” riprese il primo con alquanta impazienza, “ma non era presentemente necessario: vi torno a dire che la principessa Ippolita si ritrova in perfettissima salute... almeno spero in Domeneddio che sia così... contuttociò la premura del prencipe... basta; ditemi dov’è la principessa.” “All’infausto annunzio,” soggiunse quegli, “ha pianto amaramente, e mi ha detto che andava a chiudersi nella sua camera.” Il P. Girolamo lasciò subito il compagno e corse là dove erasi rifugiata Isabella, ma non la trovò; domandonne ad ognuno; ne cercò per tutto; spedì dei laici nel vicinato per sapere se mai fosse stata veduta da alcuno, ma tutto invano. Estrema divenne la perplessità del sant’uomo dopo le inutili ricerche, e giudicò che sospettando forse Isabella, avere il prencipe affrettata la morte d’Ippolita per condur senza ostacolo a fine le sue male intenzioni, si fosse ella intimorita e ritirata in luogo, ove potesse rimaner meglio nascosta. Previde eziandio che venendo a notizia del prencipe questa nuova fuga, sarebbe la di lui collera divenuta eccessiva: d’altronde, sebben paressegli incredibile la morte della principessa, nulladimeno inorridiva in pensarvi, poichè venendo così Isabella a manifestar sempre più la sua avversione in accettar per isposo Manfredi, parevagli esposta ad inevitabil pericolo la vita del proprio figliuolo. Finalmente, dopo tutte queste riflessioni, determinossi di ritornarsene al palazzo accompagnato da varj religiosi, i quali potessero esser presso Manfredi testimoni della sua innocenza, ed unire, se ciò fosse stato necessario, le lor preghiere alle sue per interceder da esso la liberazione di Teodoro.


Frattanto il prencipe era andato nel cortile a dar l’ordine di calar il ponte e spalancar le porte del castello per ricever l’estraneo cavaliere con tutto il suo treno. Comparve in breve la cavalcata, e passò nell’ordin seguente: furono i primi due furieri colle mazze in mano; indi un araldo seguito da due paggi e due trombettieri; cento pedoni, ed altrettanti cavalleggieri; cinquanta staffieri con livree rosse e nere conforme a’ colori del cavaliere; un cavallo bardato condotto a mano; due araldi, in mezzo a’ quali un gentiluomo a cavallo che portava uno stendardo colle armi di Vicenza rinquartate con quelle di Otranto, il che dispiacque sommamente a Manfredi, quantunque dissimulasse; in appresso il confessore del cavaliere, dicendo il rosario; due cavalieri compagni del cavalier principale, armati da capo a piedi con visiera calata, e seguiti da’ respettivi loro scudieri i quali avevano imbracciati gli scudi colle imprese; lo scudiere del primario cavaliere; cento gentiluomini che portavano uno smisurato spadone, sembrando sostenerlo a gran fatica; ed infine, il principal cavaliere sopra un destrier baio castagno, anch’egli armato intieramente, con visiera calata, e colla lancia in resta, sul cui elmo sventolava un pennacchio di color rosso e nero. La marcia era chiusa da cinquanta guardie del corpo a piedi precedute da tamburi e trombe; e quelle tenean discosto il popolo affollato.


Il cavaliere, giunto appena alla porta, fermossi, e l’araldo, avanzandosi, lesse nuovamente il cartello della disfida, cui Manfredi non sembrava far molta attenzione, perchè ritrar non potea gli occhj dalla spada gigantesca: tuttavolta lo riscosse dalla sua attenta meditazione un procelloso vento che dietro alle sue spalle subitamente levossi. Nel rivolgersi, vide le piume dell’elmo incantato agitarsi nella medesima straordinaria maniera che per l’avanti, e nullameno gli abbisognò della sua usata intrepidezza per non soccombere ad una serie di accidenti tutti funesti, i quali pareano prossimamente annunziare la di lui caduta; disdegnando però di comparir pusillanime alla presenza di tanto numero di forasteri, parlò colla solita arditezza al cavaliere nel modo seguente: “sia il ben venuto, o cavaliere; se tu sei di tempra mortale ritroverai quì egual valore, e se a te son note, come giovami credere, le leggi della cavalleria, non vorrai usare il vantaggio degl’incantesimi per giungere al fine per cui tu venisti. Partansi tali augurj dal cielo o dall’inferno, Manfredi affida se stesso alla giustizia della propria causa, ed al patrocinio di S. Niccola, il quale ha sempre protetta questa famiglia a lui devotissima. Smonta, o cavaliere, e vieni a prender riposo; domani avrai campo di mostrar la tua bravura: possa il cielo assister la parte che ha più ragione!”


Nulla rispose il cavaliere, ma scendendo da cavallo, fu da Manfredi condotto nel salone del palazzo insieme con i due suoi compagni. Fermossi quello, traversando il cortile, ad ammirare il prodigioso elmo, e genuflesso, sembrò fervorosamente orare per qualche minuto; indi, levatosi, fe’ cenno al prencipe di precederlo. Entrati nel salone, Manfredi invitogli a disarmarsi, ma il cavaliere scosse in segno di rifiuto la testa ed il prencipe gli disse: “cavaliere, tu non sei con me gentile, ma non credere ch’io voglia importi alcun obbligo, o corrucciarmi teco; no, non avrai da lagnarti del principe d’Otranto; io sono incapace di meditare alcun tradimento contro di te, nè tu, spero, contro di me;” e dandogli un anello continovò: “eccoti un pegno della mia fede; tu cogli amici tuoi vivrai sicuro all’ombra delle sacre leggi dell’ospitalità. Signori, riposatevi in questa sala sino a tanto che sia apparecchiata per ristorarvi la mensa; io andrò a dare gli ordini e provvedere pel vostro seguito, tornerò a momenti.” I cavalieri chinarono in segno di accettazione e ringraziamento la testa, e Manfredi comandò che le lor genti venisser condotte ad un vicino ospitale fondato dalla principessa Ippolita per alloggiarvi i pellegrini. Mentre quelle facevano il giro del cortile per ritornare verso la porta, la gigantesca spada fuggì repentinamente di mano a coloro che la portavano, e andando a cadere nel lato opposto all’elmo, rimase talmente fissa al terreno da non poter esser da forza umana distaccata. Il principe, benchè accostumato a soprannaturali avvenimenti, fu scosso tuttavia da questo nuovo prodigio, ma pure dissimulò; e ritornando nel salone ove tutto era già pronto, pregò i taciturni ospiti di porsi a mensa. Manfredi, quantunque pieno di confusione e disturbo, sforzavasi tuttavia di mostrar esterna disinvoltura, e di risvegliare allegrezza ne’ forestieri. Fece a’ medesimi varie interrogazioni, ma quelli risposero soltanto co’ gesti, nè alzarono le visiere se non quanto bastava a prender cibo, e ciò neppure abbondantemente. Il prencipe, osservata questa ritenutezza, disse loro: “Signori, voi siete i primi ospiti accolti e trattati in queste mura, che abbiano sdegnato di conversar meco; nè, siccome io penso, si è giammai molto usato dai principi di compromettere la lor dignità, fidando se stessi a genti sconosciute le quali ricusano di parlare. Voi dite venire in nome di Federigo di Vicenza, il quale ho sempre inteso, essere un valoroso e gentil cavaliere, ed ardisco dire che s’ei fosse quì presente, non crederebbe disonorarsi, conversando con un principe suo pari, ed abbastanza conosciuto per fatti d’arme... nè ancora mi rispondete?... ebbene sia com’esser si voglia... continuate pure... per le leggi dell’ospitalità e della cavalleria, siete ora padroni nel mio castello... fate come a voi piace... su via datemi un bicchier di vino; non ricuserete almeno di bere alla salute della vezzosa vostra padrona la principessa Isabella.” Il cavalier principale gettò a tai parole un sospiro, si oppose co’ cenni, e stava per levarsi da mensa; ma il prencipe, trattenendolo, gli disse: “fermatevi, cavaliere; l’ho detto soltanto per allegria, nè vi costringerò a far cosa alcuna di mala voglia: dunque, giacchè non vi aggrada stare in festa, sian pur melanconici i nostri ragionamenti... a voi piacerà forse più il parlare de’ nostri affari, ritiriamoci; venite ad ascoltar ciò che debbo manifestarvi, e possiate al mio discorso dar ascolto migliore che a’ vani sforzi, da me fatti per divertirvi.”


Allora Manfredi condusse i tre ospiti in una camera appartata, ne chiuse la porta, e fattigli sedere, voltandosi al principale tra essi, così prese a parlare.


“Cavaliere, siete quì venuto, a quel che intendo, primieramente per ridomandare, in nome del marchese di Vicenza, Isabella di lui figliuola, promessa già in isposa al figlio mio in faccia della santa chiesa, e colla permissione de’ legittimi di lei tutori; in secondo luogo per farmi rinunziare i miei stati al vostro signore il quale si spaccia per il più prossimo consanguineo del fu principe Alfonso di felice memoria. Incomincerò dal rispondere al secondo articolo: dovete adunque sapere, siccome al signor vostro è ben noto, che io possiedo il principato d’Otranto per la morte di Don Emanuello mio padre, il quale ne ricevè la signoria dal suo genitore Don Riccardo, ed a questo ne avea fatto dono lo stesso principe Alfonso, morendo senza successione nella terra santa, per ricompensare la di lui fedeltà ed i segnalati servigj prestatigli”... A ciò il forastiero scosse la testa in segno di negativa, e Manfredi con alquanto d’ira soggiunse: “cavaliere, sappiate che Don Riccardo era un uomo valente e devoto, siccome ne fa chiara fede l’aver egli fondata la quì vicina chiesa e due conventi; egli era particolarmente protetto da S. Niccola”... L’ospite continuava a far segno di no, e Manfredi insistè: “sì... il mio avo era incapace... vi ripeto che Don Riccardo era incapace... perdonatemi, i vostri cenni e le interruzioni vostre mi hanno alquanto fatto alterare... ho gran rispetto per la memoria del mio avo... per dir breve, signori, egli tenne questo dominio, e lo governò con la spada della giustizia e sotto il patrocinio di S. Niccola, come pure intendo io di fare; ma se questa mia pretensione vi sembra ingiusta per essere il marchese Federigo il più prossimo parente d’Alfonso, acconsento di rimettere alla spada la decisione del mio giusto possesso... Avrei potuto domandarvi dove si trovi ora il marchese Federigo, il quale credevasi morto in ischiavitù... voi dite, o almeno la venuta vostra fa credere ch’egli vive... non ne dubito... potrei dubitarne, signori... sì, potrei... ma non ne parliamo per ora. Qualunque altro sovrano avrebbe fatto rispondere a Federigo ch’ei si riprendesse i suoi stati colla forza, se pure ne ha possanza, e non vorrebbe porre in cimento la propria dignità in un duello, tanto più, dovendo trattar con persone incognite, le quali non voglion parlare... di grazia, signori, scusate il mio naturale... ponetevi nel mio caso, e come siete prodi cavalieri, credo che vi muoverebbe a giusto sdegno il sentir rivocare in dubbio l’onor vostro e quello de’ vostri antenati... ma veniamo al primo punto. Si vuol di più ch’io rimetta nelle vostre mani Isabella, ed avete voi, signori, l’autorità di pretenderla?” Il principal cavaliere fe’ cenno di sì, e Manfredi replicò: “di pretenderla!... ebbene, se ne avete l’autorità... ma poss’io domandarvi, nobil cavaliere, se avete pienissima e legale facoltà anche di disporne?” Quegli ripetè il segno affermativo, ed il prencipe soggiunse: “dunque ascoltate ciò ch’io sono per dirvi: voi vedete alla vostra presenza, o signori, il più sventurato fra gli uomini,” e cominciando a lagrimare, proseguì: “compatitemi, perchè in verità io lo merito; sappiate che ho perduto l’unica speranza mia, il mio conforto, il sostegno della mia famiglia... ah sì!... ieri il mio Corrado morì”... I tre cavalieri fecer segno di meraviglia, e Manfredi continovò: “così è, signori, il cielo ha voluto privarmi dell’unico figliuolo, ed Isabella ritrovasi in piena libertà”... “Dunque siete pronto a renderla?” esclamò il cavaliere, rompendo il silenzio. “Ascoltatemi con pazienza,” replicò il prencipe; “godo presentemente nel discoprir chiara la vostra volontà, e parmi che l’affare si aggiusterà fra noi senza spargimento di sangue... ho qualche cosa di più da dirvi, nè potrà a voi dispiacere d’intenderla, perchè non son mosso da fini indiretti a manifestarvi schiettamente le mie idee. Consideratemi prima di tutto come un uomo disgustato di questo basso mondo, mentre la perdita del figliuolo mi ha allontanato affatto dalle terrene cure, e la possanza o la grandezza non hanno oramai forza di più lusingarmi. Avrei bramato di trasmettere onoratamente al figlio mio lo scettro ricevuto da’ miei antenati, ma, siccome egli più non vive, ed io, sebben non mi curi di regnare, non ostante ho accettata la disfida per non parere un vile, perocchè un vero e degno cavaliere non può andar con gloria maggiore alla tomba, se non morendo coll’armi alla mano. Qualunque cosa abbia il cielo di me decretata, volentieri mi vi sottometto, giacchè sono... oimè! credetemelo, signori, sono un uomo pieno di amare afflizioni: deh! non vi figurate che esser possa Manfredi oggetto dell’altrui invidia... credo a voi già noti i miei casi”... Il cavaliere fece co’ gesti conoscere nulla saperne, e desiderar peraltro ascoltargli, onde il prencipe ricominciò: “è egli possibile che non abbiate mai inteso parlare d’affari relativi a me ed alla principessa Ippolita mia consorte?” L’ospite, negando, scosse la testa, ed egli continovò: “no?... ebbene, uditemi: voi forse mi credete ambizioso, ma, oimè! han gli ambiziosi un’anima ben diversa dalla mia; se tale io mi fossi, non sarei stato per tanti anni afflitto dagli scrupoli... ma non vorrei stancar la vostra pazienza... sarò breve: or dunque sappiate che il mio matrimonio colla principessa Ippolita mi ha sempre dato gran disturbo... oh! se sapeste quant’ella è adorabile! io l’idolatro come un amante, e l’amo come un amico il più caro... ma è pur vero, non esser l’uomo nato per godere di una perfetta felicità! La mia consorte è persuasa della realtà de’ miei scrupoli, ed abbiamo di comun consenso rimessa alla santa chiesa la decisione di tale affare, perchè passa fra noi l’impedimento della parentela; onde aspetto a momenti la definitiva sentenza per cui dobbiamo esser separati per sempre... son certo, cortesissimi signori, che voi mi compiangete... lo vedo bene... perdonatemi se non posso ritener le lagrime in vostra presenza.” I cavalieri faceansi reciprocamente segni di maraviglia, e pareano dimorar sospesi, aspettando la fine di tal ragionamento; e Manfredi proseguì: “io son persuasissimo, aver Alfonso voluto che il lignaggio di Riccardo si considerasse come a lui in parentela congiunto, e che tenesse questo dominio, ma sapendo nel tempo medesimo, essere Isabella una di lui discendente, benchè in lontano grado, bramavo evitare ogni quistione che avesse potuto insorgere per l’avvenire, e mettere anch’essa a parte del principato col maritarla al figliuolo. L’improvvisa sventurata morte di questo annullò il mio progetto, e colmandomi d’acerbo affanno mi spingeva a ritirarmi lontan da’ viventi; ma ero combattuto dalla dubbiezza di trovare un degno e legittimo successore, capace di governar con paterno affetto i miei sudditi, e di provveder saviamente ad Isabella, da me amata come se fosse mio proprio sangue. Io non conoscevo alcun parente d’Alfonso, se non Federigo vostro signore, il quale dicevasi morto in cattività, ma, quand’anche fosse stato e vivo e ne’ suoi stati, io mi figuravo o che egli non avrebbe accettata la mia rinunzia, non volendo abbandonare il bel paese di Vicenza, per venire a risedere nel meschino principato d’Otranto, o che, accettandola, ne avrebbe mandato al governo un vicereggente, nel qual caso, sapendo io quanto simili persone siano dure ed inesorabili, non avrei mai voluto abbandonar così il mio popol fedele che amo veracemente, e da cui son riamato. Allorchè giungeste, stavami appunto immerso in tali pensieri... ma voi mi domanderete forse, o signori, dove tenda questo mio lungo discorso; in brevi note eccovene il significato: il cielo sembra offrirmi col vostro arrivo un compenso per ovviare ad ogni difficoltà, ed un rimedio alle mie sventure. Concludiamo: Isabella è libera; io fra breve sarò sciolto dal vincolo matrimoniale, e non ricuso di sottomettermi a qualunque cosa pel bene del mio popolo... in somma: non parrebbe a voi mezzo opportuno, anzi l’unico, per estinguere ed estirpare ogni sorta d’inimicizia tralle due famiglie, ch’io sposassi Isabella?... Come!... voi fate atti di maraviglia!... è vero che le virtù d’Ippolita mi sono e mi saran sempre care, ma un sovrano deve dimenticar se stesso, e pensar d’esser nato soltanto per il suo popolo”... In questo, entrò nella camera un servo, avvisando Manfredi che il P. Girolamo, e diversi altri suoi religiosi compagni domandavano d’essere in quel punto medesimo ammessi alla sua presenza.


Il prencipe irritato per simile inopportuna interruzione, e temendo che il religioso discoprir potesse a’ forastieri, essersi dovuta Isabella ritirare in luogo sacro, era sul punto di negar loro l’ingresso; risovvenendosi però che doveano indubitatamente venire per dargli parte del ritorno della medesima, prese ad iscusarsi con i cavalieri per dovergli qualche momento lasciare; ma nel tempo medesimo i religiosi entrarono nella stanza. Manfredi gli riprese aspramente dell’esser così senza licenza passati avanti, e voleva forzargli ad uscirne fuori, tuttavia l’agitazione in cui trovavasi il P. Girolamo non gli permise di por mente alle parole del prencipe, nè di lasciarsi rispingere, e manifestò ad alta voce la fuga d’Isabella, protestando, esserne egli del tutto innocente. Stupefatto Manfredi a tale inattesa novella, e confuso non meno perchè giungeva questa a notizia de’ forestieri, ebbe appena forza di proferir poche e sconnesse parole, ora rimproverando il religioso, ora scolpandosi con i cavalieri. Si ritrovava variamente combattuto dal desiderio d’informarsi di ciò che fosse addivenuto di lei, dal non volere che gli ospiti il sapessero, e dall’impazienza di correrne egli medesimo in traccia, ma nol mostrò chiaro, temendo che eglino pure andasser con esso lui. Offerse di spedir gente a raggiungerla, allorchè il principal cavaliere, rompendo affatto il silenzio, apostrofò con amari detti contro Manfredi, rimproverandolo pel suo procedere ambiguo, e chiedendogli la cagion prima per cui erasi dal castello allontanata Isabella. Il prencipe, dando una torva occhiata al P. Girolamo per impedirgli di parlar più oltre, volea far credere, averla esso medesimo, dopo la morte di Corrado, posta in monastero, sin tanto che determinasse il miglior modo di disporne; ed il religioso, tremando per la vita del proprio figlio, non ardì contradire tal falsità: ma uno dei suoi compagni, il qual non era nel caso stesso, dichiarò francamente, come erasene la precedente notte fuggita in sacro asilo nella lor chiesa, ed invano tentò il prencipe d’ovviare agl’inconvenienti d’una simile discoperta la quale riempievalo di vergogna e dì confusione. Quei che era primo tra’ forestieri, maravigliatosi per i ragionamenti di Manfredi opposti alle relazioni de’ religiosi, e sospettando forte, aver egli voluto con tai raggiri nasconder la principessa, quantunque gli sembrasse oltremodo sorpreso per la di lei fuga, levandosi e correndo verso la porta, gli disse: “principe, tu sei un traditore, ma Isabella si troverà.” Manfredi procurò di trattenerlo; gli altri due cavalieri però assisterono il compagno il quale, fuggendo dalle mani del prencipe, corse nel cortile e chiamò a se la sua gente. Manfredi, vedendo impossibile l’impedirgli di andar in cerca d’Isabella, si offerse di farsegli guida, onde, accompagnato da’ suoi, e diretto in suo cammino dal P. Girolamo e dagli altri religiosi, partì con essi dal castello, dando prima ordini segreti, perchè si stesse in guardia contro le genti del cavaliere, mentre fe’ sembiante di spedire alle medesime un messo per dimandare assistenza.


Tostochè fu uscita dal castello la comitiva, Matilda cui stava grandemente a cuore la sorte del contadinello dopochè lo avea sentito condannare nel salone, e i di cui pensieri non si erano da quel momento in poi in altro raggirati, se non che nello studiare i mezzi di camparlo da morte, fu da alcuna delle sue damigelle informata che il padre avea spedite in varie parti tutte le guardie in cerca d’Isabella. Tale ordine era stato da lui frettolosamente dato, ed in modo sì generale che non eragli caduto in mente d’eccettuarne le sentinelle poste a custodir Teodoro; ed i servitori, premurosi d’obbedire ad un padrone così violento, e spinti anche dalla curiosità di vedere il fine dì questo nuovo accidente, eransene tutti andati via, lasciando il castello da una sola persona guardato. Matilda, disparendo destramente dagli occhj delle sue damigelle, sen corse ratta alla cima della torre nera, e tiratone il chiavistello, aperse la porta, e presentossi a Teodoro il quale si maravigliò fortemente in vederla. “Giovinotto,” gli disse ella, “benchè il dover di figlia, e la femminil modestia condannino la mia presente risoluzione, viene essa tuttavia giustificata dalla carità che mi ha indotta a superare ogni altro riguardo, e mi ha determinata a questa buona azione. Fuggite; le porte della prigione sono aperte; mio padre e tutti i servi son fuori di quà, posson peraltro ritornare a momenti: andatevene libero, e gli angeli del cielo si degnin pure di reggere i passi vostri in sicurezza.” “Voi siete senza dubbio un di quegli angeli,” soggiunse l’attonito Teodoro, “perchè solo un angelo potrebbe così dolcemente parlare, così santamente agire, ed essere al par di voi bello e gentile... poss’io sapere il nome della mia celeste protettrice?... mi pare d’avervi inteso dire, “mio padre,” sarebbe forse Manfredi!... chi è suo sangue, può egli mai risentir pietà!... voi non mi rispondete, amabilissima dama!... come siete quì voi stessa venuta? come non avete pensato alla sicurezza vostra nel muovervi a compassione per un infelice qual’è Teodoro!... venite... fuggiamo insieme, giacchè se non isbaglio, dovete averne de’ forti motivi; questa vita che voi salvate sarà impiegata in vostra difesa.” “Oimè!” risposegli, sospirando, Matilda, “voi siete in errore, io son figliuola di Manfredi, ma nulla ho da temere.” “Oh sorpresa!” replicò Teodoro, voi pietosamente mi ricompensate per il servigio da me fattovi, o che almeno ebbi in animo di farvi iersera!” “Vi ripeto che siete in errore,” riprese la principessa; “ma questo non è il momento di meglio spiegarmi... fuggite! deh, fuggite, giovine virtuoso, finchè sta in mio potere il salvarvi! se mio padre ritornasse, voi ed io avremmo giusta ragion di tremare.” Teodoro le replicò: “e come potete voi figurarvi, adorabile principessa, che io voglia pensare a salvar la mia vita, mentre voi restate in pericolo! vo’ soggiacere a mille morti piuttosto che abbandonarvi.” “No,” soggiunse Matilda, “io non corro alcun rischio, se pure voi non vi trattenete di più; partite; nessuno potrà mai sospettare, aver io tenuto mano alla vostra fuga.” “Ebbene,” replicolle Teodoro, “giuratemi per tutti i santi del cielo, non poter voi cadere in sospetto, altrimenti son risoluto di aspettar quì con pazienza il mio destino.” “Voi siete troppo generoso,” risposegli Matilda; “pure assicuratevi, non potermene accader verun danno.” “Dunque,” ripetè Teodoro, “in segno che voi per troppa pietà non m’ingannate, porgetemi la vostra bella mano; concedetemi di bagnarla con lagrime di tenera gratitudine, e... “No,” interruppe la principessa, “ciò non è permesso.” “Oimè!” ripigliò Teodoro, “ho fino a quest’ora sofferte mille calamità... forse non avrò in tutto il corso della mia vita altra buona ventura simile a questa... deh! soffrite un onesto sfogo dell’anima mia desiderosa d’imprimere su quella bianca mano”... “Cessate da tali istanze, e partite,” disse la principessa; “se fosse presente Isabella non sopporterebbe volentieri di vedervi a’ miei piedi”... “E chi è questa Isabella?” domandò con sorpresa il contadinello. “Ah! io temo,” riprese la principessa, “di favorire un ingannatore; vi siete forse scordato della curiosità in cui eravate questa mattina?” “Le sembianze, le azioni, e tutta la bellissima persona vostra,” soggiunse Teodoro, “vi fanno a me parere una divinità; ma le parole sono inintelligibili e misteriose... parlate, signora, deh! parlatemi in modo ch’io vi possa capire!” “Eh voi m’intendete molto bene!” replicò Matilda... “ma per carità partite, ve ne prego, anzi ve lo comando: se vi facessi perdere in vani discorsi un tempo prezioso, mi parrebbe d’esser rea della vostra morte, giacchè l’impedirla ora sta in mio potere.” “Sì, vado, signora,” aggiunse Teodoro, “poichè voi il volete, ed anch’io brame di risparmiare un acerbo cordoglio al mio povero vecchio padre il quale ne morrebbe d’affanno; ma voi, adorabile principessa, fatemi di nuovo intendere dalle vostre labbra che avete pietà di me”... “Aspettate,” disse Matilda, “voglio io stessa condurvi all’entrata dell’andito sotterraneo per dove prese la fuga Isabella; di là potrete andare nella chiesa di S. Niccola”... “Come!” interruppe Teodoro, “e voi non foste quella che assistei a trovar il passaggio sotterraneo?” “No, fu altra persona,” riprese Matilda; “ma non perdete tempo in farmi delle interrogazioni: voi mi spaventate, restando più a lungo; fuggite di grazia, ritiratevi in luogo sacro.” “In luogo sacro!” replicò Teodoro, “no, principessa; ci vadano le orfane fanciulle incapaci per se medesime di difesa, o vi si ritirino i delinquenti. Io non mi sento reo di alcuna colpa, nè voglio apparir tale: procuratemi soltanto una spada, e vedrà il padre vostro, come io disprezzi una fuga vergognosa.” “Inconsiderato!” gli disse mezzo adirata Matilda, “ed alzereste il temerario braccio sopra il principe d’Otranto!” “No, non ardirei d’offendere vostro padre,” riprese Teodoro; “credetelo, principessa... deh, perdonatemi! non pensavo a ciò... e poi, come poss’io, affissandomi nel vostro angelico volto, ricordarmi che siete figlia del tiranno Manfredi?... ma egli vi è padre, ed io fin da questo momento dimentico le iniquità da lui sofferte.” “Mentre stavano in tali ragionamenti, ascoltarono un lamentoso forte gemito il quale sembrava venir di sopra, per il che si scossero ambedue impauriti. “Giusto cielo! siamo scoperti!” disse tremando la principessa. Stettero alcun poco attenti ad udire, ma null’altro ascoltando, argomentarono, esser stato un vento racchiuso, e romoreggiando svanito; e senza più trattenersi, Matilda precedette pian piano Teodoro, onde non fare strepito, e condottolo nell’armeria, l’aiutò a rivestirsi d’un’armatura; ed avendolo accompagnato alla porta segreta, gli disse in lasciarlo: “non passate per il villaggio, nè dirigete i passi per questa parte, perchè incontrereste mio padre ed i forestieri; andate di là, e dopo aver traversata la foresta, troverete una lunga fila di rupi, donde di caverna in caverna giungerete al mare; là potrete rimaner nascosto, sino a tanto che vi riesca per via di segni fare approdare un vascello che vi trasporti altrove: andate, il cielo vi sia di scorta... e qualche volta... ricordatevi... nelle vostre orazioni... ah sì! ricordatevi di Matilda!” Teodoro se le gettò a’ piedi, e presa per forza la di lei mano, impressevi molti baci ad onta della sua renitenza, e manifestò ardente desiderio d’esser creato cavaliere, quanto più presto avesse potuto, scongiurandola a permettergli di dichiararsi in avvenir suo campione. Prima che la principessa potesse rispondergli, udissi un tuono improvviso che fece tremare i merli delle mura. Teodoro non vi prestò orecchio, ed avrebbe pur voluto continuare a parlar seco; ma ella atterrita si ritirò in fretta, comandandogli di partire, e si espresse in modo da non esser disobbedita; ond’egli slontanossi, sospirando, ma tenne sempre lo sguardo fisso alla porta, sinchè Matilda, chiudendola, pose fine all’abboccamento, durante il quale aveano i cuori di amendue bevuto per gli occhj a gran sorsi l’amoroso veleno, ai medesimi per l’avanti sconosciuto.


Teodoro andò pensieroso verso il convento per informare il padre della sua fortunata liberazione. Ivi seppe, esser egli andato in traccia d’Isabella, e, per la prima volta, udì qualche particolarità intorno alla di lei fuga per la botola. La costui natural bravura gli fe’ nascere il desiderio di prestarle soccorso, ma non poterono i religiosi nè infermarlo del cammino ch’ella avea preso, nè farglielo congetturare. Non voleva egli però vagar molto lungi per ricercarla, imperocchè l’immagine di Matilda, scolpita vivamente nel di lui cuore, non permettevagli d’andar molto lontano dal luogo ov’ella abitava. Si aggiunse a tal considerazione l’affettuosa tenerezza dimostratagli dal religioso suo genitore, onde si determinò a non perder di vista nè il castello, nè il convento. Volendo attendere sinchè il padre verso sera ritornasse, risolse di andare ad aspettare l’imbrunir della notte nella foresta indicatagli da Matilda; e giuntovi s’inoltrò nel più folto, giudicando, esser quella tranquilla opacità ritiro opportuno per abbandonarsi a quell’aggradevol melanconia, che tutta riempieva d’insolita dolcezza l’anima sua. Passeggiando così sopra pensiero, si condusse senz’accorgersene alle grotte le quali aveano, ne’ tempi andati, servito di ricovero agli eremiti, e modernamente correa voce tral volgo che fossero abitate da’ maligni spiriti per forza d’incanto. Rammentatosi di tal popolar tradizione, ed essendo coraggioso e vago di cercar ventura, soddisfar volle alla propria curiosità, visitando i secreti recessi di quel petroso labirinto. Non eravisi molto internato, allorchè gli parve di sentir un calpestio di persona la qual sembrava fuggire innanzi a lui. Teodoro, comecchè ben fondato in tutto ciò che la religione ingiunge a’ fedeli di credere, era persuasissimo, non poter essere i buoni abbandonati senza causa alle malfaccenti potestà delle tenebre, e s‘immaginò che quel luogo fosse infestato da ladroni, e non già da spiriti infernali, i quali dicevansi dar molestia e disviarei passeggeri. Siccome era impazientissimo di dar prove di valore, così sfoderò la spada ed avviossi posatamente innanzi, seguitando sempre la direzione dell’ascoltato rumore, e similmente la persona fuggitiva, udendo dietro di se lo sbattere della di lui armatura, camminava velocemente per evitarlo: onde, convinto egli, non essersi nelle sue congetture ingannato, affrettò il passo; ed accorgendosi che maggiormente si avvicinava alla persona, la quale tanto più precipitosamente fuggivalo, si vide all’escir di quelle tenebre cader ansante a’ suoi piedi una donna. Subito rialzolla, ma era essa soprappresa da sì grande spavento ch’egli temè, dover la medesima svenirsegli in braccio; laonde, usò ogni gentile espression di parole per discacciar da lei ogni timore, assicurandola che, ben lungi dal farle ingiuria, era pronto anzi a difenderla a costo della vita. Avendo la dama ripreso coraggio pe’ di lui cortesi modi, si affissò nel suo protettore, e gli disse: “per certo io ho sentita altre volte cotesta voce!” “Nol so; ma può essere,” riprese Teodoro: “e voi sareste per avventura la principessa Isabella?” “Cielo!” esclamò ella, “vi han forse spedito in cerca di me?” e così dicendo, se gli genuflesse davanti, scongiurandolo a non rimetterla nelle mani di Manfredi. “Nelle mani di Manfredi?” gridò Teodoro; “no principessa, vi ho liberata una volta dalla sua tirannia, e voglio ora, ad onta d’ogni difficoltà, porvi, totalmente fuor di pericolo di ricevere ulteriori affronti da lui,” “Sarebb’egli possibile,” diss’ella, “che voi foste quell’incognito generoso da me iersera incontrato ne’ sotterranei del castello? ah! voi non siete certamente un uomo, ma bensì il mio angel custode: lasciatemi prostrare innanzi a voi per rendervi grazie”... “No, gentil principessa,” rispose Teodoro, “non fate atto vile, non vi umiliate davanti un giovine povero e senz’amici, come son io. Se però il cielo mi ha scelto per vostro liberatore, condurrà la santa opra a buon fine, dando al mio braccio valor bastante per difendere la vostra causa... ma qui siamo troppo vicini all’uscita della caverna; ritiriamoci più addentro... non posso viver tranquillo, se non vi vedo in salvo.” “Che dite mai!” soggiunse la principessa; “sebbene questa nobile azione, e tali parole manifestino la purità dell’anima vostra, vi par egli tuttavia conveniente ch’io debba venir con voi sola in questi sospettosi nascondiglj? Che si penserebbe di me, se fossimo trovati insieme ed in simil luogo?” “Io fo grande stima,” dissele Teodoro, “della vostra verecondia, nè voi, siccome penso, nutrite in cuore un sospetto all’onor mio oltraggioso. Altro non desidero, se non condurvi in una delle più appartato caverne, ed impedirne l’entrata ad ogni persona vivente; inoltre,” proseguì egli, sospirando forte, “per quanto bella e perfetta voi siate, e sebbene io non miri tant’alto, debbo non pertanto confessarvi che ho consacrato tutto il mio cuore ad un’altra, e quantunque”... Un rumore improvviso impedigli di continuare, ed in breve ascoltarono distintamente una voce la quale disse: “Isabella... Isabella... dove siete? Isabella”... per il che, smarritasi la principessa, ricadde nel suo primiero tremore. Teodoro procurò invano di rassicurarla, giurandole, voler piuttosto morire che restituirla a Manfredi, e pregatala di tenersi celata, si fece avanti, per impedire di accostarsi a chiunque venuto fosse a ricercarla.


Sull’entrata della caverna incontrò un cavaliere armato a parlar con un contadino, il quale protestavagli d’aver veduta una dama entrar là dentro. Il cavaliere s’innoltrò, ma Teodoro se gli parò davanti col ferro nudo, gridando che non entrasse per quanto gli era cara la vita. “E chi sei tu?” disse il cavaliere con altiera voce, “che troppo a tuo danno ardito mi contrasti di passar oltre?” “Son uno che di te non paventa, e ciò ti basti,” rispose Teodoro. “Io vengo,” aggiunse quegli, “a cercare Isabella, e sono informato, essersi ella rifugiata fra questi scoglj; dunque non ti opporre, o te ne farò pentire.” “L’impresa tua,” replicò Teodoro, “è tanto temeraria, quanto è da dispregiarsi il tuo sdegno; ritorna donde sei venuto, o vedremo chi di noi due sia più negl’impeti della collera da temersi.” Questo cavaliere, capo di quei tre giunti da parte del Marchese di Vicenza, erasi partito velocemente dal castello nel tempo in cui Manfredi trattenevasi per distribuir le sue genti da mandarsi in cerca della principessa, e per istruirle come contenersi dovessero, onde impedire ch’ella non cadesse nelle mani de’ forestieri o del seguito loro. Aveva egli sospettato altresì, voler Manfredi nasconderla, per il che, insultato da un uomo in arme, il quale tenne per certo, essere ivi stato posto dal prencipe per custodire Isabella, confermossi nel concepito sospetto, credendo Teodoro un capitan di Manfredi, e senza dargli risposta, alzò la spada, lasciandogli cader sopra un fendente il quale avrebbe decisa ogni contesa fra loro, se il giovinetto, dopo la prima offensiva risposta, non si fosse messo in guardia, e non avesse a tempo parato collo scudo il terribil colpo. Il valore, che fin allora, era stato racchiuso nel seno di Teodoro, scoppiò ad un tratto in questo primo cimento; onde lanciossi impetuosamente sopra il cavaliere, il cui nobile orgoglio, e l’irritato sdegno spingevanlo alle ardite solite imprese. Fu il combattimento fiero bensì, ma non lungo, imperciocchè Teodoro ferillo in tre luoghi; e quegli, venendo meno pel sangue perduto, fu dal vincitor disarmato. Il contadino sua guida, essendosi dato alla fuga al primo incontrarsi delle spade, andò ad avvisare di tal duello i servi di Manfredi, che ritrovavansi per suo ordine dispersi nella foresta in traccia d’Isabella, onde accorsero là di volo, e giuntivi appunto mentre il vinto cadeva in terra, lo riconobbero subito per l’ospite principale. Quantunque Teodoro odiasse Manfredi, di cui ministro e strumento esser credea, come abbiam detto, l’atterrato guerriero, non poteva contuttociò pensare alla sua vittoria, senza risentire in cuore moti di generosa pietà; ma fu anche più dolente, allorchè venne informato della qualità del suo competitore, potendo arguire dai discorsi de’ servi che quegli non era un aderente di Manfredi, ma anzi un di lui nemico, essendo venuto con armi e seguaci, per farlo rinunziare al principato, e per ritorgli Isabella. Gli assistè dunque in dispogliarlo dell’armatura, ed in procurare di stagnar il sangue che usciva in gran copia dalle ferite. Il cavaliere rinveniva a poco a poco; e Teodoro, vedendo ch’egli era in istato di udire le altrui parole, gli disse: “fatevi coraggio, anch’io difendo Isabella contro Manfredi.” Il vinto, sforzandosi a parlare, con vooe tremante così rispose: “generoso nemico, abbiamo ambedue preso abbaglio; io vi credevo un reo ministro d’un più reo tiranno, e voi pure tale mi avete sventuratamente creduto; ma non è questo il tempo di fare scuse... mi sento mancare... se Isabella non è di quì lungi, fatela a me venire... ho importanti segreti da scoprirle... ah!”... “Ei muore,” disse uno degli assistenti... “c’è qualcheduno che abbia un Crocifisso?... Andrea, raccomandagli l’anima”... “Andate a prender dell’acqua, e fatelo bere,” soggiunse Teodoro; “intanto mi affretterò a far venire Isabella.” In questo, volò alla medesima, ed esposele brevemente, e con modestia, aver egli avuta la sventura di ferire per isbaglio un gentiluomo cortigiano del padre suo, il quale, prima di morire, desiderava manifestarle importantissime cose. Isabella, che al primo sentirsi chiamar dalla voce di Teodoro era venuta avanti, rimase sorpresa in udir ciò, nulla sapendo de’ cavalieri in Otranto arrivati. La novella prova di coraggio data dal suo difensore, la persuase ad andar senza tema, colà dove giacea per terra il cavaliere bagnato nel proprio sangue, senza far parola e cogli occhj semichiusi; ma, veduti i servidori di Manfredi, s’intimorì nuovamente, e si sarebbe data alla fuga, se Teodoro non le avesse fatto osservare, esser eglino tutti disarmati, e non l’avesse incoraggita col minacciare i medesimi ad alta voce di volere uccider chiunque di loro tentasse arrestarla. Lo spossato cavaliere, veduta, nell’aprir gli occhj, una donna, le disse: “siete voi... ditemi, vi prego, la verità... siete voi Isabella di Vicenza?”... “Sì, io son quella,” rispose; “il cielo vi serbi in vita”... “Dunque... tu dunque,” riprese il cavaliere, agitandosi per darsi forza a parlare, “vedi... tuo padre... dammi un abbraccio”... “Come!” esclamò Isabella, “oh maraviglia!... oh orrore!... che ascolto!... che vedo!... mio padre!... voi mio padre!... e come siete quì venuto!... per amor del cielo, raccogliete i vostri spiriti, e parlate... deh! soccorretelo, amici, altrimenti morrà.” “Sì, egli è vero,” soggiunse a gran fatica il cavaliere, “io sono il marchese Federigo tuo padre... sì, io son venuto per liberarti... ma... non potrò... dammi l’ultimo amplesso, e ricevi”... “Signore,” dissegli Teodoro, “non vi affaticate cotanto, lasciate che vi portiamo al castello”... “Al castello!” interruppe Isabella, “forse non sì può ottener soccorso, se non nel castello? vorreste dunque espor mio padre all’ira del tiranno?... s’egli ci va, non ho coraggio d’accompagnarlo... e come lo posso lasciare!”... “Figlia mia,” soggiunse Federigo, “non m’importa in qual luogo io sia portato, perchè sarò fra non molto fuor del pericolo... ma sino a tanto che stanno aperti questi occhj per vederti, non mi abbandonare, Isabella. Questo valente cavaliere, il quale non so chi sia, proteggerà la tua innocenza”... e rivolto a Teodoro, continovò: “spero, signore, che vorrete impiegare il vostro braccio in favore della mia figlia; non è egli vero?” Teodoro, versando lagrime sulla propria infelice vittima, e giurando di assistere la principessa a costo della vita, persuase a Federigo di lasciarsi condurre al castello; e fasciando le di lui ferite meglio che poterono, lo posero sopra il cavallo di uno de’ servidori, sostenendol per via. Il giovinetto non si partiva dal suo fianco, ed Isabella, non potendo da lui staccarsi, addolorata il seguiva.



fine del capitolo terzo.

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