< Il castello di Otranto
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Horace Walpole - Il castello di Otranto (1764)
Traduzione dall'inglese di Jean Sivrac (1795)
Capitolo secondo
Capitolo primo Capitolo terzo

CAPITOLO SECONDO.



Matilda, ritiratasi per comando d’Ippolita nel suo appartamento, oppressa dal dolore per la morte del fratello, ed in sì acerbo modo accaduta, non si trovava disposta a prender riposo. Era eziandio sorpresa ed inquieta di non vedere Isabella, ma le strane espressioni del padre, e le arcane minacce da esso brutalmente fatte alla madre, aveano più di ogni altra cosa funestato il gentile animo suo, riempiendolo di spavento e sospetti. Stava ella attendendo con ansietà Bianca, giovine sua damigella, da lei già inviata per indagare cosa fosse d’Isabella addivenuto. Questa ritornò in breve coll’annunzio d’aver udito dai servi, non potersi la medesima in verun luogo rinvenire; narrò come il contadinello erasi trovato ne’ sotterranei, aggiungendovi anche il racconto delle sconnesse relazioni datele dai servitori; e si dilungò particolarmente intorno alla gamba ed il piè di figura gigantesca da essi veduti nello stanzone contiguo alla galleria. Quest’ultima circostanza avea per modo spaventata Bianca, che fu al sommo gioiosa nell’udire, non volersi Matilda coricare per quella notte, ma aver intenzione d’aspettar vegliando che la principessa madre si alzasse da letto.


Stavasi Matilda ruminando la fuga d’Isabella ed il pessimo trattamento usato da Manfredi verso la genitrice, e ragionando con Bianca le disse: “qual mai urgente affare può aver mio padre col cappellano! Vuol’egli forse far seppellire il mio fratello privatamente nella cappella!” “Oh signora!” replicò Bianca, “quanto vale ch’io l’indovino? ecco le mie congetture: siccome voi siete rimasta erede universale, il vostro genitore è impaziente di maritarvi, poichè avendo sempre ardentemente desiderato altri figliuoli, perdutane la speranza, non vede l’ora di aver de’ nipotini: deve esser per certo così; in somma, vi vedrò pure sposa una volta... oh! signora principessina, siete tanto di buon cuore... spero che non vorrete licenziare la vostra fedelissima serva Bianca... essendo al presente una gran principessa, non mi posporrete per questo a Donna Rosaura?.. non è egli vero?” “Povera Bianca!” disse Matilda, “come volano i tuoi pensieri! Io una gran principessa! E cosa hai tu osservato nelle maniere di mio padre, dopo la morte del fratello, da poter argomentare il minimo accrescimento di tenerezza per me? io non son mai stata l’oggetto della di lui benevolenza... ma egli è mio padre, e non debbo lagnarmene;.. se il cielo mi priva del suo amore, mi ricompensa abbondevolmente coll’affetto materno... oh! quanto cara madre!... sì, Bianca, le sue dolci maniere appunto mi fanno sentir maggiormente l’asprezza di quelle del padre; posso tuttavia sopportare il duro trattamento ch’ei fa di me, sentomi però straziar l’anima quando son testimone della severità che usa senza ragione verso di lei.” “Oh! questo è un nulla, signora,” disse Bianca, “tutti gli uomini fanno così colle mogli quando ne sono nauseati.” “E voi, ciò non ostante,” replicò Matilda, “vi congratulate meco, supponendo, voler mio padre disporre della mia mano?” “Nasca quel che sa nascere,” riprese Bianca, “io desidero che siate una gran signora, e non vorrei vedervi marcire murata in un convento, come pur bramereste se dipendesse totalmente da voi, e se la signora principessa Ippolita, la quale sa per prova, esser molto meglio avere un cattivo marito che starne del tutto senza, non procurasse distogliervi da questa melanconica idea... misericordia!.. che rumore è stato quello!.. oh! S. Niccola benedetto, mi raccomando a voi... no, no, non ho voluto biasimar lo stato monacale... lo dicevo per burla”... “Via, via,” rispose Matilda, “è stata una folata di vento che ha fischiato tra’ merli della torre quì sopra... non abbiate timore, avete sentito ciò mille volte”... “E poi,” replicò Bianca, “non ho detto cose cattive... il parlar di matrimonio non è peccato... e così com’io vi dicevo, se il signor principe Manfredi vi proponesse per marito un bel principino della vostra età, gli fareste una riverenza, dicendogli che amate meglio di farvi monaca eh?” “Grazie al cielo,” soggiunse Matilda, “non sono in questo caso, poichè sapete quante offerte ha rigettate, e...” “E voi,” disse Bianca, “come figlia riconoscente l’avete sempre ringraziato... non è egli vero?... ma sentite: supponiamo che domattina foste dal signor padre mandata a chiamare nella sala d’udienza, ed ivi trovaste al di lui fianco un principe giovine ed amabile con occhj grandi e neri, fronte spaziosa, bei capelli, d’aspetto maschio, ma gentile; in somma un giovine eroe, rassomigliante al ritratto d’Alfonso buono tal quale si vede nella galleria, e davanti a cui voi spesso sedete, riguardandolo con ammirazione per quattr’ore continove”... “Non ischerzate su quel ritratto,” interruppe con un sospiro Matilda, “so bene, essere straordinario il piacere che prendo in riguardarlo, ma non sono peraltro innamorata di una tela dipinta. Le virtù di quel degno principe, la venerazione ispiratami da mia madre per la di lui memoria, e le preghiere ch’ella mi ha sempre ingiunto di far con fervore avanti al di lui sepolcro, tuttociò ha contribuito a persuadermi, dipendere in certo modo il mio destino da qualche cosa relativa al medesimo.” “Oibò! come mai può esser questo?” disse Bianca; “io ho sempre sentito dire che la sua famiglia non è imparentata colla vostra, e non sò intendere perchè la signora principessa vi mandi a fare orazione davanti a quel deposito mattina e sera, anco quando è freddo e umido, mentre questo Alfonso non si trova fra’ santi del Lunario! Se dovete far delle preghiere, perchè la signora madre non vi comanda d’andare ad inginocchiarvi piuttosto innanzi al nostro gran santo S. Niccola?.. sì, vi confesso sinceramente che io stessa lo prego di mandarmi un marito.” “L’animo mio,” riprese Matilda, “sarebbe meno confuso se mia madre volesse palesarmene le ragioni, ma appunto l’arcano da lei custodito tanto gelosamente m’ispira questo... non so come debba chiamarlo... Siccome però ella non opera mai a caso, così son sicurissima, esservi nascosto un qualche arcano fatale, anzi lo so di certo, poichè nell’eccesso del suo dolore per la morte del figlio, si è lasciate sfuggir di bocca certe parole le quali fanno abbastanza intendere”... “Ah cara signora principessa,” interruppe ansiosamente Bianca, “cosa vi ha detto?” “No,” continovò Matilda, “quando una madre dice inavvertentemente qualche proposizione, e dipoi non vorrebbe averla detta, non deve una prudente figliuola riferirla ad alcuno.” “Come?” domandò Bianca, “dispiaceva poi alla signora principessa d’averla detta?.. non ostante di me vi potete fidare”... “Lo so,” replicolle Matilda, “ma non in ciò che riguarda mia madre: i figliuoli non debbono aver nè occhj nè orecchj se non a volontà de’ genitori.” “In coscienza siete nata,” soggiunse Bianca, “per diventar santa, e nessuno può certo resistere alla propria vocazione... vedo finalmente che andrete a finir i vostri giorni in un monastero... la signora principessa Isabella non sarebbe tanto riservata meco... oh! ella m’ascolterebbe bene se le parlassi di giovanotti... ogni volta che ha veduto venire nel castello de’ cavalieri belli e ben fatti m’ha confessato, desiderare che il vostro fratello somigliasse loro”... “Bianca,” riprese la principessa in aria seria, “non vi fate lecito di parlar con poco rispetto d’una mia amica: so ancor io, esser ella d’umore allegro, ma è altresì virtuosa e senza macchia; onde suppongo che, conoscendovi una ciarliera, abbia qualche volta voluto farvi animo a parlar di questo e di quello per isvagarsi, e ravvivare un poco la solitudine alla qual ci condanna mio padre; del resto”... “Vergine!” esclamò Bianca riscuotendosi, “eccolo un’altra volta... ah! cara signora principessina, sentite nulla?... questo castello è certamente incantato!”... “Zitta” soggiunse Matilda, “ascoltiamo... mi pare d’aver sentita una voce... eh, è stata l’immaginazione... credo che voi facciate paura anche a me.” “Davvero, davvero,” replicò Bianca singhiozzando, “ho sentita certo una voce”... “Dorme qualcheduno nella camera quì sotto?” domandolle la principessa. “No signora,” rispose Bianca, “tutti hanno avuto paura di dormirci, dacchè il famoso astrologo precettore del signor principe Corrado, si affogò... sicuramente, signora, la sua anima e quella del principino son ora insieme giù in camera... per l’amor del cielo fuggiamo nell’appartamento della vostra signora madre.” “Vi ordino di non muovervi,” soggiunse Matilda, “poichè se sono anime che soffrono, possiamo, parlando con esse, alleggerirne le pene... non debbono volerci far del male, perchè non le abbiamo ingiuriate, e se mai avessero tale intenzione, nulla a noi gioverebbe cangiar di stanza: datemi la corona, diremo prima il rosario, e poi parleremo con loro.” “Io!.. oh! non vorrei parlar ad esse per tutto l'oro del mondo!” gridò Bianca sempre più spaventata; e mentre proferiva tai parole sentirono aprire la finestra del camerino situato sotto la stanza ov’erano. Rimasero entrambe tacite, trattenendosi quasi di respirare, ed in brevi momenti parve alle medesime sentire canterellar qualcheduno, ma non poteano indovinar chi fosse. “Questo non può essere uno spirito maligno,” disse sottovoce la principessa; “è senza dubbio qualcun di casa: aprite la finestra, e così potremo forse conoscer chi sia.” “Oh in verità, signora, non mi ci arrischio!” soggiunse Bianca. “Via, quanto siete sciocca,” replicò Matilda, aprendola pian pianino, e subito la persona ch’era abbasso cessò di cantare; dalla qual cosa inferirono entrambe, aver la medesima sentito il rumore delle invetriate: “vi è alcuno quì sotto,” disse la principessa. “Sì, vi son io,” rispose un’incognita voce. “Chi è,” proseguì Matilda. “Uno che non è di casa,” le fu replicato. “Ma chi siete dunque, e come quì ed in quest’ora?” soggiunse la principessa. “Mi ci trovo,” riprese lo sconosciuto, “contro la mia voglia, e per esserci stato racchiuso... ma perdonatemi se ho disturbato il vostro riposo... non sapevo di dover esser ascoltato... non potendo prender sonno nel mio letticciuolo, ho voluto passar queste ore noiose col canterellare, e mi divertivo alla finestra nel veder spuntar la vicina aurora, aspettando con impazienza d’esser lasciato uscire da questo palazzo; deh! non vi prendete pensiero di me, e tornate pure a riposarvi.” “Al sentir la vostra voce, e le vostre parole,” dissegli Matilda, “voi mi sembrate scontento; se mai siete infelice, vi compiango, e se a caso siete povero non mel celate; io vi raccomanderò alla principessa Ippolita la quale ha un cuor molto compassionevole pe’ bisognosi, ed essa vorrà soccorrervi.” “Ah sì! voi vi apponete,” replicò l’incognito; “io sono infelice, nè so che voglia dire ricchezza; pure non mi lamento della sorte in cui il cielo mi ha posto, poichè son giovine, sano, e non mi vergogno di guadagnarmi il pane colle mie braccia: non crediate però che io sia superbo, o che io ricusi di accettare tali generose offerte, anzi mi ricorderò di voi nelle mie orazioni, e pregherò per la vostra misericordiosa persona, e per la vostra pia e rispettabil padrona; se mi sentite sospirare, ciò è per altri, e non per me.” “Ora capisco, signora,” disse Bianca all’orecchio di Matilda: “egli è certamente il contadinello; e giurerei di più che è innamorato... bene, bene... questo è un accidente curioso... caviamogli di bocca qualche cosa... già, a quel che ha detto, non vi conosce, e vi ha presa per una cameriera della principessa Ippolita.” “E non vi vergognate?” disse Matilda a Bianca; “e qual diritto abbiamo di spiare i segreti del cuore di questo giovine? egli par buono e sincero, e di più confessa ingenuamente d’esser sventurato: dobbiam noi forse arrogarci autorità sopra di lui perchè il suo stato è infelice?.. convien forse indagar i fatti suoi?” “Oh quanto poco v’intendete d’amore;” riprese Bianca: “sappiate che gli amanti non hanno maggior piacere di quello di parlar delle loro innamorate.” “Vorreste dunque,” soggiunse Matilda, “farmi la confidente di un contadino?” “Via, lasciatelo interrogare a me,” disse Bianca; finalmente io non ero gran cosa prima d’aver la fortuna d’esser damigella d’onore di Vostr’Altezza, e poi, ogni disuguaglianza amore agguaglia, come dice il proverbio; e quando si tratta d’innamorati, non si guarda tanto nel sottile... io per me, compatitemi, ma ho gran rispetto pe’ giovani innamorati”... “Quietatevi, sciocca;” interruppe la principessa, “dall’aver detto d’esser infelice, non ne viene in conseguenza, dover essere innamorato; pensate soltanto alle cose accadute nello scorso giorno, e vedrete se vi sono al mondo altre disgrazie da affliggersi in fuor di quelle cagionate dall’amore”... indi parlando al contadino, “uditemi,” disse, “galantuomo: se le sciagure non vi sono per colpa vostra accadute, e se può la principessa Ippolita rimediarvi, prendo a carico mio di farvi ottenere la sua protezione. Quando vi lasceranno uscir di costì, andate subito a trovar quel sant’uomo del P. Girolamo nel convento accanto alla chiesa di S. Niccola, e raccontategli i vostri casi sino al punto che credete proprio, perocchè egli ne farà parola colla principessa, conosciuta per madre di tutti quelli i quali hanno bisogno della di lei assistenza: addio; non mi conviene di parlar più a lungo con un uomo a quest’ora” “I santi del cielo vi aiutino, garbata signora,” replicò il contadino, “ma... se povero e indegno come sono, potessi sperare d’esser ascoltato per qualche altro momento... oh! se sapeste quanto ciò mi consola... giacchè non avete ancora serrata la finestra, potrei domandarvi”... “Dite su, presto,” soggiunse Matilda; “incomincia a farsi giorno, ed i contadini, venendo nei campi, ci potrebbero vedere... cosa vorreste voi domandarmi?” “Non so se mi debba risicare,” riprese il contadino con interrotte parole... “non ostante la bontà con cui mi avete parlato m’incoraggisce... ah! signora, poss’io fidarmi... posso prendermi l’ardire di confessarvi”... “Dio buono!” interruppe Matilda, “cosa volete dire? che vorreste mai confidarmi? parlate francamente, se però il vostro segreto può svelarsi ad un’onesta donzella.” “Volevo dimandarvi,” soggiunse il giovine, variando il tuono del suo discorso, “se è vero quel che ho sentito dire da’ servitori, cioè, non potersi ritrovare dentro al palazzo la principessa?” “Che importa a voi di saperlo,” replicò Matilda, “il vostro discorso sembrava da prima prudente e savio, ma ora pare diversamente. Siete forse costì per ispiare i segreti del vostro sovrano? andate, mi sono ingannata;” e così dicendo, richiuse in fretta la finestra, senza dargli tempo di replicare. Quindi, rivolta a Bianca, e volendola alquanto pungere, le disse: “avrei fatto molto meglio a lasciar parlare voi sola col contadino; egli avrebbe potuto fare a voi con maggior frutto le sue interrogazioni.” “Non istà bene a me il contradir Vostr’Altezza,” rispose Bianca, “ma forse le mie domande avrebbero fatto più a proposito pel di lui caso di quelle che vi siete compiaciuta di fargli.” “Oh non ne dubito!” disse Matilda, “so quanto siete accorta!.. potrei sapere cosa gli avreste domandato?” “Chi sta di sopra vede più di quello che giuoca,” risposele Bianca: “crede Vostr’Altezza, essere stata sua pura curiosità l’interrogazione da lui fatta sulla signora Isabella?... no no, là sotto vi è qualche cosa superiore all’intelligenza di voi altri gran signoroni: di più Lopez mi ha detto che tutti i servitori di casa credono, aver costui trovato il mezzo di fare scappar la principessa... ora vi prego di riflettere... già noi due sappiamo che il vostro fratello non è mai andato troppo a genio alla signora Isabella... benissimo... egli è stato giusto ammazzato quando non v’era un minuto da perdere... badate bene, io non intendo d’accusar nessuno... ma sentite:... un elmo è caduto dalla luna, così almeno dice il vostro signor padre; ma Lopez e tutti i servitori credono, esser questo innamoratello un mago, ed averlo portato via dalla statua del principe Alfonso buona memoria”... “Finitela con coteste ciance ingiuriose,” interruppe Matilda... “Anzi no, abbiate la bontà di lasciarmi parlare,” insistè Bianca:... “oltre a ciò è da osservarsi che in questo giorno medesimo la principessa Isabella è sparita, e che questo stregone si è trovato appunto alla botola... badate bene, io non intendo d’accusar nessuno; ma accordandovi ancora che la morte del padroncino sia stata un puro effetto del caso... la signora Isabella”... “Guardatevi,” soggiunse Matilda, “dal macchiar co’ vostri dubbj il candore della mia carissima amica”... “Candore o non candore,” riprese Bianca, “lasciamo questo da parte... il punto sta che è comparso uno sconosciuto; voi stessa lo interrogate; egli confessa d’essere innamorato, o infelice che vuol dir lo stesso... anzi ha asserito d’esser infelice per conto d’altri... e può darsi mai un infelice per conto d’altri, se non è un innamorato!... e poi, quella cosa che vi ha tanto pregato di lasciargli dire, è stata il domandare... povero innocentino!... della principessa Isabella... e ora che ve ne pare?” “A dir vero,” replicò Matilda, “le vostre osservazioni non sono affatto prive di fondamento; questa fuga mi fa stupire, nè men degna di osservazione è la curiosità di costui... per altro Isabella non mi ha mai celati i suoi più segreti pensieri”... “Così almeno vi ha dato ad intendere,” soggiunse Bianca, “per iscoprire i vostri... e chi sa che questo incognito non sia qualche principe travestito... permettetemi di riaprir la finestra, e fargli delle altre domande a modo mio.” “No,” rispose Matilda, “voglio io medesima interrogarlo sulla fuga d’Isabella... solamente su questo però, poichè non mi conviene di parlar seco più a lungo.” Stava la principessa per aprir la finestra, allorquando fu suonato il campanello della porta di dietro del castello la quale era posta alla dritta della torre ove erano le di lei stanze, e ciò la trattenne dal far la progettata domanda.


Dopo qualche momento di silenzio, la principessa così riprese a parlare: “son persuasa che, qualunque sia il motivo della fuga d’Isabella, deve esser di gran conseguenza; e se quest’incognito n’è complice, ella ha ragione di rimaner soddisfatta della di lui fedeltà, e deve essergliene grata. Ho osservato, e sarà parso così anche a voi, esser le sue parole atte sommamente a commuovere. Un briccone non parla in quella maniera, anzi il suo discorso facevalo giudicare persona di non volgari natali.” “Ve l’ho detto anch’io,” rispose Bianca, “che lo credevo sicurissimamente un principe travestito.” “Con tutto questo,” continovò Matilda, “supponendolo anche informato della di lei fuga, come si può combinare il non averla accompagnata? perchè esporsi, senza necessità e riflessione, alla collera di mio padre?” “In quanto a questo,” soggiunse la damigella, “s’egli ha potuto liberarsi di sotto l’elmo, non gli riuscirà difficile di eludere lo sdegno del signor principe; poichè deve indubitatamente aver indosso qualche magica figura”... “Oh! voi riferite ogni cosa alla magia,” soggiunse Matilda... “ma pensate ancora che un uomo il quale comunica cogli spiriti maligni, non ardisce pronunziare quelle sacre parole da noi intesegli proferire: e dall’altro canto, non avete voi osservato con qual fervore ha promesso di ricordarsi di me nelle sue orazioni?.. sì certo, Isabella è stata persuasa dai di lui religiosi sentimenti”... “Per carità!” interruppe Bianca ironicamente, “raccomandate anche me alle preghiere d’un giovanotto e d’una fanciulla, la quale si consiglia per iscappare! No, no, la signora Isabella è di una pasta molto differente da quel che v’immaginate: è vero che ritrovandosi con voi sospirava col bocchino stretto, alzando al cielo gli occhj pietosi, ma lo faceva solamente per bacchettoneria, conoscendovi per una santerella... ma... ma... quando avevate voltate le spalle”... “Voi ne mormorate a torto,” ripigliò Matilda, “Isabella non è ipocrita, ma devota senza ostentazione. Ella ha procurato sempre distogliermi dalla mia inclinazione pel chiostro, e sebbene io mi trovi alquanto mortificata dall’avermi essa fatto mistero della sua fuga, il che non combina colla nostra amicizia, pure non posso scordarmi con quanta sincerità e con quanta forza di ragioni mi abbia dissuasa sempre dal monacarmi, desiderando vedermi unita in matrimonio, quantunque la dote dovutami fosse per cagionare una diminuzione considerabile ne’ suoi assegnamenti e nell’eredità de’ figliuoli che avrebbe dati al mio fratello: in conseguenza voglio per amor suo pensar bene di questo contadinello.” “Dunque anche voi credete,” riprese Bianca, “che passi tra loro buon’armonia?”... nel dir ciò venne interrotta da un servo il quale entrò nella camera, annunziando, essersi ritrovata Isabella. “Dove?” domandò Matilda. “Ella s’è ritirata nella chiesa di S. Niccola,” risposele il servitore; “il P. Girolamo ne ha portata egli stesso la nuova; ed ora è giù con Sua Altezza.” “Ov’è mia madre?” soggiunse Matilda. “È nelle sue stanze,” rispose quello, “ed ha domandato di voi.”


Erasi l’inquieto Manfredi alzato dal letto al primo spuntar dell’aurora, ed era andato all’appartamento d’Ippolita affine di saper qualche nuova d’Isabella, e mentre stava destramente interrogandola senza frutto, ricevette avviso che il P. Girolamo chiedeva di seco parlare. Egli, non sospettando della cagione del di lui arrivo, e sapendo d’altronde, esser quello l’elemosiniere ordinario della consorte, comandò di farlo entrare, pensando di lasciarlo solo con lei, mentre fosse altrove andato a ricercare Isabella. “Volete me, o la principessa?” domandogli Manfredi, vedendolo. “Tutti e due,” rispose il sant’uomo: “la principessa Isabella”... “Cos’è stato di lei?” riprese sollecitamente Manfredi. “Ella è ritirata all’altare di S. Niccola,” replicò il P. Girolamo. “Ebbene, questi non sono affari della mia moglie,” disse Manfredi alquanto confuso: “venite, padre, nelle mie stanze, e mi direte in qual modo sia colà pervenuta.” “No signore,” soggiunse il religioso con tal fermezza e tuono autorevole, che disanimò l’intollerante Manfredi il quale non potea far a meno di venerare le virtù sue; “l’incarico mio è di parlare ad ambedue insieme; e colla debita permissione di Vostr’Altezza, parlerò quì in presenza di tutti e due; ma devo primieramente sapere dalla signora principessa, se le è nota la cagione per cui Isabella è fuggita dal castello.” “No per la mia fede,” rispose Ippolita; “ha ella forse detto, esser ciò a mia notizia?”... “Padre,” interruppe Manfredi, “ho tutto il maggior rispetto pel vostro sacro ministero, ma sappiate che io qui son sovrano, e non permetterò mai ad un frate di mescolarsi sfrontatamente ne’ miei domestici affari. Se avete qualche cosa da dire, aspettatemi nel mio gabinetto, perchè non soglio comunicare alla mia moglie i segreti affari dello stato i quali non ispetta mai alle donne il sapere.” “Signor principe,” ripetè il sant’uomo, “io non mi arrogo mai dritto veruno sopra i segreti delle famiglie: il mio ufizio è soltanto di mantener la pace, di riconciliare gli animi, di por fine alle dissenzioni, di chiamare i peccatori a penitenza, e d’insegnare agli uomini a raffrenare le predominanti passioni. Perdono però a Vostr’Altezza l’aver contro me sì duramente apostrofato; conosco il mio dovere, ma son ministro d’un sovrano più potente di Manfredi: ascoltate adunque la voce di lui il quale vi parla per bocca mia.” Il principe a queste parole fremè per rabbia e vergogna, ed Ippolita rimase in atto esprimente meraviglia ed impazienza di vedere il fine di tale ambasciata, dimostrando col silenzio fino a qual segno rispettasse il consorte.


“La principessa Isabella,” continovò a dire il P. Girolamo, “si raccomanda ad ambe le Altezze Vostre, e le ringrazia del cortese trattamento ricevuto in questa casa; deplora cordialmente la morte del loro figliuolo, e la sua propria sciagura che le impedisce di poter divenir figlia di tanto saggj ed illustri principi i quali sempre venererà come suoi genitori; porge fervorose preghiere al cielo perchè, non sia mai interrotta la loro coniugale unione e felicità”... Qui Manfredi cangiò in volto colore, ed il religioso proseguì: “ma siccome non le è permesso d’unirsi con loro in parentela, così le prega quanto più sa svisceratamente, di prestarle il consenso per rimaner chiusa in luogo sacro, sinchè o abbia ulteriori nuove di suo padre, o certezza della di lui morte, onde, restata così in libertà, possa col consiglio ed approvazione de’ di lei tutori, disporre di se medesima, legandosi in vincolo maritale competente al proprio stato.” “Io non darò mai questo consenso,” disse il prencipe, ed anzi esigo che se ne torni immediatamente al mio palazzo, perchè, dovendone io solo dar conto a’ suoi tutori, non voglio soffrire che resti in altre mani.” “Vostr’Altezza però,” disse il padre, “si compiacerà ricordarsi che coteste mani non potrebbero molto a lungo difenderla.” “Non ho bisogno di precettori,” soggiunse Manfredi arrossendo, “e posso dirvi che il procedere d’lsabella dà luogo a dei ben fondati sospetti... e poi quel giovine villano, il quale è stato complice della sua fuga, se non la cagion primaria”... “La cagion primaria!” interruppe un poco alterato il P. Girolamo, “come! un giovine... un giovine ne è stato cagione!” “Questo è troppo, esclamò Manfredi, “e dovrò io esser redarguito in casa mia, e da un temerario frate! scommetto che a te son noti i loro amori”... “Se pur Vostr’Altezza,” disse il P. Girolamo, “non è persuasa nel fondo del cuore quanto ingiustamente mi accusi, prego il cielo di toglierle questi ingiuriosi sospetti contrarj alla carità del prossimo, e il Dator d’ogni bene glie lo perdoni... venendo poi al fatto, scongiuro l’Altezza Vostra di lasciar vivere in pace la principessa in luogo sacro, dove non può e non deve esser disturbata da folli mondane fantasie come sono i discorsi amorosi di chicchessia. “Non mi state a parlar in gergo,” ripetè il prencipe, “ma andate invece a persuadere ad Isabella di tornar quì e rassegnarsi al suo dovere.” “Anzi è dover mio,” replicò il padre, “l’impedirle di quì ritornare; ella ritrovasi in un luogo ove gli orfani e le vergini sono perfettamente in sicuro dalle insidie e dagl’inganni del corrotto mondo, e niuna autorità umana, se non paterna, potrà strapparla di là.” “Io son per ora suo padre,” gridò Manfredi, “e la rivoglio.” “Si ella ha desiderato d’avervi tale,” rispose il religioso, “ma avendolo il cielo impedito, ha disciolto ancora per sempre qualunque altro vincolo fra di voi; ed io annunzio a Vostr’Altezza”... “Tacete, uomo ardito, e temete il mio sdegno,” soggiunse vie più incollerito Manfredi”... “Buon padre,” disse Ippolita, “il vostro ministero non vi lascia luogo a rispetti umani, e parlar dovete com’ei vi prescrive; ma l’obbligo mio è di non ascoltar cos’alcuna quando al mio signore non piaccia; onde voi potrete parlar con più libertà al principe nel suo appartamento, ed io andrò a ritirarmi nella mia cappella a pregar la beatissima Vergine d’ispirarvi e d’assistervi co’ suoi santi consiglj, e di far rinascere la smarrita pace nell’animo del mio benigno signore e consorte.” “Oh! che anima buona!” disse il religioso; quindi rivolto al prencipe: “Altezza,” continuò, “sono a’ vostri comandi.”


Manfredi passò alle sue stanze accompagnato dal P. Girolamo cui, là giunti, parlò in questa guisa: “Io m’accorgo, avervi Isabella informato delle mie intenzioni; dunque ascoltatemi ed obbedite. Tutte le più urgenti ragioni di stato; la salvezza mia e del mio popolo richiedono ch’io abbia un figlio maschio; invano posso aspettarlo dalla mia consorte, e perciò ho scelta a tal effetto Isabella; dovete adunque ricondurmela, e fare anche di più: essendo voi confessore d’Ippolita, avete gran potere sul di lei spirito; io conosco, esser ella una donna senza macchia; e siccome l’anima sua, già riposta anticipatamente in cielo sdegna i caduchi onori del basso mondo, così vi sarà ben facile il distaccarnela intieramente: persuadetele d’acconsentire al divorzio fra noi, e di ritirarsi in un monastero... voi sapete, poter essa arricchir qualcheduno, ed avrà certamente i mezzi d’esser liberale al vostr’Ordine, come più a lei o a voi piacerà: così divertirete le calamità imminenti a noi ed avrete il merito d’essere il liberatore del principato d’Otranto. So che siete un uomo di somma prudenza, e quantunque io mi sia lasciato traspotar dalla collera a prorompere in qualche inconveniente parola, rispetto peraltro le virtù vostre, e desidero d’esservi debitore della mia tranquillità, e della preservazione della mia stirpe.”


“Sia fatta la volontà del cielo!” rispose il P. Girolamo, “io altro non sono che un indegno istromento de’ suoi voleri; ma Iddio in tal punto m’ispira: odimi, o principe: egli ti parla per bocca mia intorno a’ rei disegni che tu racchiudi nel pensiero: i torti da te fatti alla virtuosa Ippolita gridan vendetta al cospetto della divina giustizia, la quale per mezzo mio ti riprende delle adultere tue intenzioni di repudiarla, e ti ammonisce di abbandonare le incestuose mire sulla tua nuora: il cielo che co’ tremendi giudizj suoi, fatti ultimamente cadere sulla tua famiglia, avrebbe dovuto renderti migliore, il cielo dico, che l’ha salvata dal tuo stolto furore, continoverà a vegliare sopra di lei: io pure, quantunque mi sia povero e dispregiato religioso ho tanto coraggio da esserle scudo contro la tua violenza... sì... io, qual tu mi vedi indegno peccatore, ed empiamente da te ingiuriato ed accusato come complice di non so quali amori, io mi rido degl’indegni mezzi co’ quali hai voluto tentare la mia onestà. L’utile del mio Ordine mi sta a cuore; ho gran venerazione per le anime devote; rispetto altamente la pietà della principessa tua consorte: ma non voglio perciò nè tradire la confidenza ch’ella ha in me, nè abusar della religione per servire a folli peccaminose condiscendenze. Qual insensata lusinga è mai questa! La prosperità del tuo stato dipende, dici tu, dall’aver figliuoli; ma osserva, osserva come il cielo si prende a scherno i ciechi umani disegni. Ieri al cominciar del giorno niuna casa era sì potente e sì florida come quella di Manfredi: allegrie, pompe, il matrimonio d’un figlio... e dov’è ora Corrado?... ah! signore! quanto mi consolano le lagrime che ora versate! spargetele pure... spargetele, o principe, in larga copia! avran queste più forza d’implorarvi dal cielo il ben essere de’ vostri sudditi di quel che possa averlo un matrimonio cui è base o l’interesse, o la concupiscenza. Lo scettro passato dalla linea di Alfonso nella vostra non potrà mai esserci conservato da un marital nodo, a cui la chiesa non presterà in verun modo il suo consentimento. Se la volontà eterna dell’Altissimo ha decretato che la prosapia di Manfredi finisca, piegate con rassegnazione la fronte, e perdete coraggiosamente un mondano diadema per meritarvene uno incorruttibile... via, signore, godo in vedervi oppresso da tanto affanno... deh! ritorniamo alla principessa; ella non sa le vostre ingiuriose intenzioni, ed io alla sua presenza altro non ho detto se non quanto bastava per farmi intendere da voi solo: avete ben veduto con qual modesta pazienza e con qual tenera docilità ella ha udito, o finto non udire ciò che poteva farle sospettare, esser voi delinquente verso la medesima: son certo ch’ella non vede il momento di stringervi al seno, ed assicurarvi del suo costantissimo affetto.” “Padre,” rispose il prencipe, “voi siete in errore sul motivo del mio presente cordoglio; io rispetto le virtù d’Ippolita, la credo una santa donna, e bramerei per la salvezza dell’anima mia, poterci il nostro vincolo coniugale tenere stretti più lungamente... ma, oimè! voi non sapete il principal motivo della mia presente afflizione: io ho da qualche tempo indietro degli scrupoli ben fondati sulla validità della nostra unione; Ippolita è mia parente in quarto grado; ottenemmo a dir vero la pontificia dispensa, ma dipoi ho saputo, esser ella stata prima della mia domanda, promessa ad altri in isposa. Ecco la vera causa del mio grave cordoglio, e credo sicuramente dovere attribuire la tremenda morte del mio Corrado a questo sacramental legame che ci ha accoppiati malgrado il canonico ìmpedimento... deh! alleggerite, ve ne prego, la mia coscienza da questo intollerabil peso; assistetemi per lo scioglimento del nostro matrimonio, compiendo i desiderj del mio devoto cuore i quali son pure un effetto delle vostre sante ammonizioni.”


Ciascuno può immaginarsi quanto fosse acerba l’interna doglia del P. Girolamo, allorchè si avvide dell’accorto pretesto del prencipe, ed immaginandosi, aver egli già stabilito il destino d’Ippolita, tremò per lei, e temè che Manfredi, perdendo la speranza di riavere Isabella, nell’impazienza d’ottener un figlio, si sarebbe determinato a ricercare altra donzella, la quale tentata dall’alto rango cui poteva elevarla il principe, non ricuserebbe d’accettar la sua mano. Rimaso pertanto qualche momento in silenzio, ed assorto in diversi pensieri, vide alla perfine che il solo differire potea somministargli qualche opportuno compenso, onde giudicò, esser meglio di mantenere nel cuor del prencipe la lusinga di aver seco di nuovo Isabella: d’altronde sapeva egli, potersi pienamente fidare alla medesima e pel riverente di lei affetto verso Ippolita, e per l’avversione da essa manifestata alla prima offerta di Manfredi, le quali cose favorivano i suoi disegni per aver tempo di richiamarsene all’ecclesiastica autorità, onde fulminasse censure contro il meditato divorzio. Appigliatosi dunque a tale spediente, credè a proposito di ordire al prencipe un innocente inganno, e fingendo creder sinceri gl’inventati scrupoli, così gli prese a parlare: “Ho seriamente ponderato ciò che mi avete detto, e se la ripugnanza per la virtuosa vostra consorte nasce in voi soltanto da rimorso di conscienza, io non sono per aggravare la devota angoscia del vostro cuore, e mi trovo anzi dispostissimo ad alleggerirla. Voi ben sapete, esser la chiesa una madre pietosa; a lei rappresentate i tormentosi dubbj che vi opprimono; ella vi renderà la pace dell’anima, ed esaminando i vostri scrupoli potrà sciogliervi dal marital nodo, permettendovi di provvedere con nuovi legami alla propagazione della vostra prosapia; ed in tal caso, se la principessa Isabella è disposta d’acconsentire, vedrete a suo tempo ciò che vi convenga di fare.” A tal discorso persuaso Manfredi o d’aver preso al laccio il religioso, o che le di lui prime invettive erano state soltanto l’effetto d’un apparente illibatezza, indispensabile al sacro ministero, fu ricolmo di subitanea gioia nel vederlo sì facilmente aderire a’ proprj disegni, e promessegli ricchi doni, quando col di lui mezzo ottener potesse un esito conforme alle sue brame. Siccome le intenzioni del sant’uomo erano a buon fine dirette, così finse di lasciarsi deludere, determinandosi non solo a non secondare le idee di Manfredi, ma anzi ad opporvisi fortemente.


“Poichè ora ce l’intendiamo assai meglio,” ripigliò il prencipe, “desidero, o buon padre, che mi soddisfacciate intorno ad un altro punto: ditemi un poco; chi è quel giovine contadino, da me ritrovato nel sotterraneo? Egli deve certo essere informato della fuga d’Isabella; narratemi la verità; è egli forse suo amante, oppure un mezzano di qualcun altro? Per dirvela schietta, ho avuto forti motivi da sospettare, non esser ella stata molto inclinata per il mio figlio, ed infinite circostanze accadute me ne han fatto quasi certo: essa pure se n’è accorta, poichè al mio discorso fattole iersera nella galleria, parve quasi voler discolparsi sulla freddezza dimostrata per Corrado, e finì totalmente d’insospettirmi. Il P. Girolamo il quale null’altro sapea di questo giovine, se non quel tanto che avea dal prencipe allor allora casualmente ascoltato, senza punto riflettere al furioso costume di Manfredi, pensò, non esser mal fatto d’introdur nel di lui cuore la gelosia. Credeva eziandio, potergli tale strattagemma servire in appresso, sia confermando i sospetti del prencipe contro Isabella se mai persistesse a voler seco unirsi in matrimonio, sia richiamando altrove la di lui attenzione con simulato oggetto di geloso timore, e distogliendolo dal pensare ad ammogliarsi con altro oggetto. Determinatosi dunque a quest’idea mal concepita, risposegli in modo da indurlo a sospettare di qualche sorta d’intelligenza tra giovine ed Isabella; onde, giacchè poco ci volea ad infiammare le sue passioni, sentendosi Manfredi confermare i suoi dubbj dal religioso, montò in furia, esclamando: “voglio sapere a fondo la cosa;” quindi ordinò al P. Girolamo d’aspettarlo, e partito incontanente, affrettossi di andare nel salone, dove ordinò che fossegli condotto davanti il contadino.


Appena lo vide comparire gli disse con voce tremenda: “tu sei, quantunque giovane, bene invecchiato nell’arte dell’impostura! ed ora che pensar debbo della tua vantata incorrotta sincerità? La Provvidenza e l’ chiaror della luna ti fecero scoprire il segreto d’aprir la botola? rispondimi, insolente; dimmi: chi sei tu? da quando in quà stringesti amicizia colla principessa? avverti di non tergiversare come iersera, o la tortura ti farà cessar dalle menzogne.” Persuaso il giovine, esser venuta a notizia di Manfredì la di lui complicità nella fuga della principessa, e giudicando che, comunque al presente rispondesse, non avrebbero le sue parole arrecato nè danno nè giovamento alla medesima, replicò coll’ordinaria franchezza in tal modo: “principe, nè io sono impostore, nè merito i vostri detti ingiuriosi. Iersera fui nel rispondervi sincero, e tale anche adesso mi troverete, non per timor de’ tormenti che potreste farmi provare, ma perchè aborro la falsità; piacciavi rinnovare le interrogazioni, e sarò prontissimo a risponder sinceramente.” “Ti è già noto,” riprese il prencipe, “cosa voglio da te sapere, ma tu procuri soltanto di guadagnar tempo da preparar sotterfugj e cavilli; sono omai stanco; rispondimi tosto: chi sei tu? da quando in quà ti conosce la principessa?” “Io sono,” rispose il giovanetto, “un lavoratore del vicino casale, e mi chiamo Teodoro: la principessa ritrovommi iersera ne’ sotterranei, e non le avevo mai per l’avanti parlato.” “Posso,” soggiunse il prencipe, “credere o non credere a quanto dici; ma prima che io ciò meglio esamini, vo’ sapere il rimanente; palesami adunque qual ragione ti addusse la principessa della sua fuga; bada bene la tua vita dipende forse da questa sola risposta.” “Ella mi disse,” replicò Teodoro, “essere in tale istante sull’orlo del precipizio, e poter divenire infelice per sempre, se non le riusciva fuggir da questo palazzo.” “E tu con fondamento sì frivolo, e sull’asserzione d’una scioccherella ti sei posto in cimento di provocare il mio sdegno?” “Io non temo lo sdegno d’alcun uomo, disse Teodoro, quando si tratta di prestare aiuto ad una donna che a me s’affida.”


Fa d’uopo avvertire che nel tempo di tal esame Matilda erasi dalle sue stanze insiem con Bianca partita per andare all’appartamento d’Ippolita, e dovea traversare un andito fatto di legname con delle grate dalle quali si guardava nel salone, dove sedea Manfredi in tribunale. Udita Matilda la voce del padre, e vedendo i servi tutti intorno a lui adunatì, fermossi ad una grata per ascoltare, e si erano gli occhj suoi fissaati sul prigioniero, sentendosi commuovere in suo favore per la di lui fermezza nel replicare, e più ancora per la bravura dimostrata nel dar l’ultima risposta, colla quale erasi dichiarato pronto a sacrificar la vita in difesa delle donne. Osservò la di lui figura nobile e preveniente in suo favore, ma soprattutto le ne piacque il contegno. “Giusto cielo!” disse a Bianca, parlandole all’orecchio, “e non vi par quel giovine rassomigliantissimo al ritratto di Alfonso ch’è in galleria?”... ma non proseguì, per ascoltar meglio suo padre il quale, alzando sempre più la voce, diceva al villanello: “cotesta tua arditezza sopravanza ogni precedente insolenza... sì, tu proverai gli effetti dell’ira mia che ardisci prendere a scherno... Olà si arresti, e sia legato costui,” continovò Manfredi: “la prima nuova che udirà la principessa del suo campione sia la di lui morte.” Teodoro coraggiosamente soggiunse: “La crudeltà che tu dimostri verso di me, o principe ingiusto, convincemi abbastanza d’aver io fatta una buon’azione, liberando la principessa dalle mani d’un tiranno; sia pur essa felice, e di me avvenga ciò che alla sorte piace ed a te.” “Costui è un amante in mentite spoglie,” esclamò Manfredi in gran collera, “un semplice villano cui sta in faccia la morte non è capace di tale ardire: dimmi, temerario, dimmi chi sei, o ti costringerò co’ tormenti a dir il vero.” “Tu hai già minacciato di tormi la vita per impegnarmi ad esser verace; tal sono stato, e tu vuoi ricompensare la mia sincerità col farmi morire! or dunque, poichè questo è il mezzo da te scelto per darmi coraggio ad esser sincero, io non soddisfarò più a lungo alla tua curiosità.” “Ebbene,” aggiunse Manfredi, “tu sei pur determinato a tacere?” “Sì,” riprese il giovine: “olà,” disse il prencipe, “conducetelo nel cortile; voglio in questo momento veder la sua testa separata dal busto.” A queste parole svenne Matilda, e Bianca gridò: “aiuto, aiuto, la principessa è morta.” Manfredi riscosso da tali strida, domandò cosa fosse accaduto; come pure il contadinello, inorridito per la medesima causa, rinnuovò la stessa richiesta; ma il prencipe lo fece in fretta condur nel cortile, e sospese l’esecuzione, sinchè avesse in persona presa notizia della cagion delle strida di Bianca; e quindi saputala, considerò lo svenimento della figlia, come femminil debolezza, ed avendo ordinato che fosse portata nelle di lei camere, scese frettolosamente nel cortile, ove, chiamata una guardia, ordinò a Teodoro di mettersi ginocchione, e prepararsi a ricevere il fatal colpo di morte.


La tranquillità colla quale udì il giovine la barbara sentenza, mosse a pietà ogni cuore, eccettuato quel di Manfredi. Avrebbe pur desiderato pria di morire qualche schiarimento intorno a ciò che della principessa erasi pocanzi detto; ma si ritenne per timore d’irritar sempre più il tiranno contro di lei. La sola grazia ch’egli impetrò fu quella d’avere un confessore per riconciliarsi coll’eterno giudice, innanzi al cui tribunale doveva comparire a momenti. Manfredi, accordogli tanto più volentieri la sua richiesta, in quanto che, immaginandosi d’avere il P. Girolamo dal suo partito, sperava che questo gli dovesse poi rivelare le cose udite in confessione dal prigioniero; onde lo fece incontanente chiamare. Giunto il sant’uomo, il quale non aveva preveduta la catastrofe che produr si poteva dal suo imprudente ripiego di farlo insospettire del contadino, gettossi genuflesso davanti al prencipe, e lo scongiurò per quanto havvi di più sacro in cielo ed in terra a non ispargere il sangue di un innocente: ed accusando se stesso d’aver, quantunque a buon fine, mentito, procurò di scolpare il giovine, nè lasciò alcuna cosa intentata per sopire il furore di Manfredi; ma questi incollerito ancor da vantaggio per l’intercessione del religioso il quale, ora ritrattandosi, facevagli credere di essere da ambedue ingannato, comandogli di fare il proprio dovere, protestando non voler concedere al reo, se non pochi minuti per far la sua confessione. “Nè più tempo vi chiedo, signore,” interruppe lo sventurato giovine, “perocchè le mie colpe non sono, grazie al cielo, in gran numero, nè più gravi di ciò che alla tenera età mia si convenga.” Indi, rivolto al confessore, gli disse: “asciugate le lagrime, o buon padre; facciam presto: questo mondo è troppo perverso, onde non provo alcun dispiacere in lasciarlo.” “Povero ragazzo!” riprese il P. Girolamo, “come puoi tu soffrir di vedermi? io son la cagione della tua morte; io t’ho ridotto a questo passo fatale.” “Padre,” replicò il giovine, “vi perdono con tutto il cuore, e ve ne accerto per quanto desidero d’ottener da Dio misericordia delle mie colpe: uditele adunque, e datemene l’assoluzione.” “Ed in qual modo,” soggiunse il religioso, “poss’io prepararti al transito come dovrei! tu non ti salverai senza perdonare a’ tuoi nemici; ed avrai forza di perdonare a colui che ingiustamente ti condanna!” “Sì,” riprese Teodoro, “sì, gli perdono.” “E tu solo, o crudel principe,” esclamò il religioso, “non ti muovi a compassione!” “Io ti ho mandato a cercare,” risposegli più corrucciato Manfredi, “per confessarlo, e non per servirgli da avvocato; tu il primo m’infiammasti d’ira contro di esso... ricada la vendetta del di lui sangue sopra il tuo capo.” “Ah! pur troppo così avverrà!” disse il padre, oppresso da mortale abbattimento; “nè voi, nè io avrem più speranza d’andar là, ove ora questo beato giovine s’incammina.” “Sbrighiamoci,” ripetè Manfredi, “io sono inesorabile al borbottio di un frate egualmente che a’ gridi delle donnicciuole le quali si spaventan di tutto.” “Come! è egli possibile,” domandò il contadinello, “che la sentenza pronunziata contro di me abbia dato motivo allo strido sentito là nel salone! è forse la principessa nuovamente in poter vostro?” “Con tal domanda,” risposegli Manfredi, “mi fai ricordare della tua audacia; preparati piuttosto all’ultimo istante della tua vita.” Sentivasi il giovane destare in seno l’indignazione, ma nel vedere la doglia la quale erasi per cagion sua risvegliata negli animi degli astanti e del pio religioso, soffogò in petto i nascenti moti, e spogliatosi, scoperse il collo, inginocchiandosi per fare orazione e confessarsi: dimorando in tal positura la camicia gli cadde sotto le spalle, lasciando in quelle vedere una marca sanguigna in forma di dardo. “Grande Iddio!” esclamò a tal vista il P. Girolamo, “che vedo! egli è il mio figlio! questo è il mio Teodoro!”


Impossibil sarebbe il narrare i varj affetti nati in quel punto nel cuore delle diverse persone colà presenti. Avrebbero esse pianto per tenera gioia, ma lo stupore l’impedì loro, e studiavansi di ricercare negli occhj del prencìpe i moti che pareva, a’ medesimi, dover egli necessariamente risentire. Il giovine espresse cogli atti meraviglia, titubazione, tenerezza, e rispetto, ricevendo con umiltà gl’innumerevoli abbracciamenti, e le profuse lagrime del buon vecchio; e sebben quanto era fin allora successo gli togliesse ogni speranza di vedere impietosito Manfredi, tuttavolta detteglì una languida occhiata quasi volesse dirgli: “e non ti commuovi ad una scena compassionevole e tragica come questa!”


Era il cuor di Manfredi, siccome abbiam detto, capace di pietà, onde scordò tralla sorpresa la collera, ma non volle per orgoglio farlo altrui travedere, sospettando tanto più, poter questa essere una tela ordita dal religioso per salvare il giovane dalla morte, e rivoltosi al medesimo, così disse: “che vuol dir questo! come può egli essere vostro figlio? e non sembravi disdicevole al ministero vostro il manifestare e riconoscere per frutto de’ vostri illeciti amori un figlio... e figlio di un contadino?” “No, principe,” replicò il sant’uomo, “vedrete che io non debbo arrossirne... non ne dubitate... sì, egli è mio figliuolo!... giusto Dio! non essendogli vero padre, proverei così grave afflizione? Deh! fategli grazia, buon principe; risparmiate la sua vita, e vendicatevi come più vi piace sopra di me.” “Grazia!” gridarono i circostanti, “grazia per l’amore del P. Girolamo il quale è un vero santerello!” “Piano, piano,” disse Manfredi con rabbia; “quantunque disposto a perdonare, ho bisogno d’intender meglio la cosa: l’esser bastardo d’un santo non impedisce d’esser un briccone.” “Non aggiungete, ve ne prego, signore,” disse Teodoro, “le ingiurie e gl’insulti alla crudeltà: se io son figliuolo di quest’uom venerabile, benchè non sia principe come voi, pure il sangue che scorre nelle mie vene”... “Sì,” interruppe il religioso, ei non è vile qual lo pensate. “Sì, questo è mio legittimo figlio, e la Sicilia può vantar poche famiglie più antiche ed illustri di quella di Falconara... ma, oimè! signore, a che vale il sangue! a che giova la nobiltà de’ natali! siamo tutte creature abbiette, dispregevoli e peccatrici, e la sola bontà di cuore può nobilitar quel limo onde fummo creati, ed in cui dobbiamo essere nuovamente convertiti”... “Da parte le prediche,” gli disse Manfredi, “scordatevi oramai d’essere il P. Girolamo, e parlatemi da conte di Falconara: su via, fatemi la narrazione de’ casi vostri, e riserbate le morali riflessioni per quando non potrete ottener la grazia di questo reo insolente.” “Gran Madre di Dio!” esclamò il religioso, “è egli mai possibile che restiate un sol momento dubbioso d’accordare ad un padre la vita del suo unico figlio, da gran tempo perduto, ed in frangente sì orribile ritrovato! Ah signore! dispregiatemi, studiatevi d’affliggermi in qualunque più crudele maniera, ponetemi pure sotto i vostri piedi, togliete a me la vita, ma salvate, deh, salvate il mio figlio!” “Ebbene,” rispose Manfredi, “conoscete ora per prova che voglia dire il perdere un unico figliuolo!... poco fa predicavate a me la rassegnazione... la mia stirpe, mi dicevate, deve finire, se così è decretato in cielo, ma quella de’ conti di Falconara”... “Oimè!” riprese il padre, “confesso il mio torto, ma deh! non vogliate render co’ rimproveri più grave il cordoglio d’un povero vecchio! Io non mi glorio della mia illustre casata, nè penso a simili mondane vanità... ma, se mi vedete innanzi a voi supplichevole pel mio figlio, ne son causa i soli moti della natura, e la viva memoria di quell’amabil donna che gli fu madre... dimmi Teodoro, dimmi viv’ella ancora?” “No, padre mio,” replicò desso, “l’anima sua gioisce fra’ beati da lungo tempo indietro.” “Oh Dio!” esclamò il buon vecchio, “e come?... dimmi... ma no, basta così; ella è eternamente felice!... tu sei ora l’unico oggetto delle mie cure;” e rivoltosi a Manfredi soggiunse: “deh! potentissimo sovrano, e non volete voi concedermi la vita di questo mio povero figlio?” “Andate al convento,” replicogli Manfredi, “riconducetemi la principessa, ubbiditemi in tutto il resto che già sapete, e vi prometto la grazia del figliuol vostro”... “ Oimè!” interruppe il padre, “vorreste dunque che in discapito dell’onor mio, e della mia coscienza salvassi la vita a quest’infelice, a me tanto caro!” “Salvar la vita a me?” gridò con modesta fermezza Teodoro, “lasciatemi perir mille volte piuttosto che macchiare il candor dell’anima vostra: e che vuol dunque da voi questo tiranno? è la principessa al coperto da’ costui insulti?... ebbene, proteggetela a qualunque costo, e lasciate pure piombar sopra di me tutto il peso del di lui insano furore.” Sforzavasi il P. Girolamo di raffrenare il nobile orgoglio del giovine, ma prima che Manfredi avesse tempo di replicargli, fu la sua attenzione richiamata altrove da un calpestio di cavalli, e dal suono della tromba, la quale stava appesa fuori della porta maggiore del castello. Nello stesso momento, le piume dell’elmo incantato, che era tuttavia nel cortile, si videro furiosamente agitate, e quasi salutassero chi veniva, piegaronsi tre volte spontaneamente.


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