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Il compito della filosofia nell’ora presente1.
I.
Delle considerazioni filosofiche sopra il corso presente delle cose pubbliche potrebbero a primo aspetto apparire una derisione ironica. Storici, economisti e politici vanno a gara nel ricercare la cause prossime e remote degli sconvolgimenti sociali, ma sembrano preoccuparsi appena dei movimenti spirituali profondi, di cui i mutamenti esteriori sono l’indice: e i mezzi da cui attendono la salute, sia la confederazione dei popoli o un nuovo assetto economico, dimostrano chiaramente che si tratta per essi d’un problema politico od economico in cui nulla ha da vedere la filosofia.
D’altra parte, in mezzo al tumultuare degli eventi, che sembrano precipitare rapidamente ogni giorno più verso ignoti abissi, quale aiuto o speranza può attendersi dalla filosofia che sembra per la sua stessa natura più che mai lontana da ogni forma di azione? Tuttavia nella stessa coscienza comune sembra penetrare a poco a poco il presentimento che l’origine del male di cui soffriamo è in qualche cosa di più grave e profondo che una semplice questione politica od economica; e chiunque sappia scrutare a fondo la realtà sociale con occhio libero da passioni e da preoccupazioni tradizionali non può esimersi dal riconoscere che non si tratta soltanto di un pervertimento di organi o di funzioni; ma d’una corruzione dell’organismo sociale stesso in ciò che ha di più essenziale e di più intimo. La società è minacciata nella sua stessa esistenza dalla rivolta oscura delle forze elementari che sembrano sottrarsi ad ogni costrizione di valori e di ordini ideali, ed il problema pratico immediato non è la riforma di questi o quegli organi, ma resistenza di un ordine, la risurrezione o la morte definitiva di quelle energie ideali in cui risiede la realtà più profonda dell’ordine sociale, e da cui deriva ogni valore alle sue forme ed ai suoi istituti.
Non a torto quindi il filosofo può far proprie anche oggi le amare considerazioni che a proposito dell’inutile chiaroveggenza dei filosofi svolge Platone nel libro VI della Repubblica, là dove ricerca le ragioni per cui la filosofia ha così poca parte nella vita politica ed anzi prevale nei filosofi la tendenza a stare lontani dalla cosa pubblica. La prima causa è, secondo Platone, il tumulto delle ambizioni che tiene lontane dalle pubbliche cose le persone intelligenti e rette, le quali vedono che l’opera loro sarebbe vana. I ciechi ambiziosi che si contendono il potere trattano i pochi veggenti come gente inutile, perduta in vane contemplazioni. Platone paragona sotto questo rispetto lo stato ad una nave dove i marinai ignoranti tengono sequestrato il pilota: il padrone della nave, il buon Demos, è un uomo più grande e più robusto che il resto dell’equipaggio, ma un po’ sordo, dalla vista corta e poco pratico dell’arte di navigare: i marinai si disputano fra loro la direzione della nave, si mettono intorno al padrone, lo scongiurano, lo inebbriano o lo addormentano: dopo di che si impadroniscono del bastimento, si gettano stille provviste, mangiano e bevono e dirigono la nave come dei pazzi potrebbero fare. È da meravigliarsi che essi considerino come un abile marinaio solo chi può aiutarli con la persuasione o con la violenza a mantenersi alla direzione della nave e sprezzino come un perditempo il vero pilota che osserva il cielo e ricerca per mezzo degli astri il vero corso della nave? — La seconda causa è il discredito che proviene da coloro i quali si dicono filosofi senza esserlo. Poche sono le nature veramente filosofiche ed anche di queste le più si corrompono. Il pervertimento dell’opinione pubblica, l’esempio del corso ordinario delle cose che premia col successo chi segue l’andazzo e prepara la persecuzione o, ciò che è forse peggio, l’oscurità e l’indifferenza a chi vi si oppone, corrompono la maggior parte delle nature elevate: i mali peggiori della società non provengono dalle anime volgari che non sono mai grandi nè nel bene nè nel male, ma da anime grandi per natura che la società e la educazione hanno traviato. La filosofia, abbandonata dai suoi veri figli, li vede sostituiti da indegni che la disonorano. «Degli omiciattoli vedendo il posto vuoto e la distinzione del nome e dei titoli lasciano il loro mestiere dove il loro piccolo talento avrebbe forse fatto buona prova, e si gettano nelle braccia della filosofia come dei delinquenti che, fuggiti dalle prigioni, si rifugiano nei templi. Perchè la filosofia, malgrado lo stato di abbandono in cui è ridotta, conserva ancora sulle altre discipline un ascendente, una superiorità che la fanno ricercare da queste nature che non erano fatte per essa, da queste anime servili a cui le basse occupazioni hanno contraffatto l’anima e il corpo. Non li diresti tu, a vederli, uno schiavo calvo e piccolo, uscito da poco dalla officina e dai ceppi, che per aver raccolto un piccolo peculio, ripulitosi nel bagno e vestito di nuovo, si presenta come sposo per sposare la figlia del padrone che la povertà e l’abbandono costringono a queste nozze?» Che cosa accade quindi delle poche nature migliori che la fortuna o la nobiltà interiore hanno salvato dalla corruzione? «Chi tra questi rari individui gusta ed ha gustato la dolcezza e la felicità che si provano nella saggezza, vedendo la follia del resto degli uomini e il disordine introdotto nello stato da quelli che brigano per governarlo, non vedendo intorno a sè alcuno che voglia secondarlo per far trionfare la giustizia, considerandosi come in mezzo ad un branco di bestie feroci, delle quali non vuole condividere l’ingiustizia ed al cui furore cercherebbe invano di opporsi, sicuro di rendersi inutile a sè ed agli altri e di perire prima di aver reso il minimo servigio alla patria, pieno di questi pensieri, si tiene tranquillo, occupato soltanto delle cose sue; e come un viaggiatore assalito da una violenta tempesta si stima felice di trovare un muro per mettersi al riparo dalla pioggia e dai venti, così vedendo che la ingiustizia regna dappertutto impunemente, egli considera come il colmo della fortuna il poter conservare nella sua solitudine il cuore puro dalla iniquità, il passare i suoi giorni nella innocenza e l’uscire da questa vita con una coscienza tranquilla e piena delle più belle speranze. Il che è certamente una grande cosa: ma non toglie che egli non abbia adempiuto a ciò che vi era di più alto nel suo destino, per non avere trovato un sistema di governo che rispondesse alle sue esigenze. In un governo di questa natura il filosofo si sarebbe svolto anche più completamente e si sarebbe reso utile allo stato ed ai suoi concittadini».
Questo strano ricorso, a tanta distanza di tempi, ha certamente la sua ragione in analogie di condizioni storiche e spirituali, le quali fanno sì che lo studio delle democrazie greche non sia privo di qualche utile insegnamento anche per la nostra età. Ma più che alesarne di queste analogie esso deve richiamarci alla considerazione del problema fondamentale, dinanzi a cui è posta oggi — e non per amore della teoria soltanto — ogni intelligenza speculativa: quale è e può e deve essere razione del pensiero e dei fattori ideali in genere nella vita sociale? La vita della società è un meccanismo cieco di energie inconscie in cui il pensiero non può pretendere ad altra funzione che non sia una sterile contemplazione ironica? Ma se invece al disotto dei meccanismi apparenti e dei fenomeni superficiali della vita collettiva agiscono secrete energie ideali e vive un pensiero, quale è la ragione delle considerazioni melanconiche dei filosofi sulla poca parte che ha la saggezza sulla vita pubblica? Dalla protesta sdegnosa di Platone parrebbe che questa debba essere solo il teatro delle ambizioni interessate dei demagoghi: e tuttavia Platone stesso ha tracciato una costituzione ideale dello stato e si è preoccupato anche (nelle Leggi) di appianarne, con un compromesso, la graduale realizzazione. Egli aveva dunque fede nel trionfo delle idee! Spinoza, che scrive la sua ''Etica'' come si scriverebbe un trattato di geometria e guarda con freddezza rinfuriare delle guerre come si guarderebbe un tumulto di belve inferocite, ha pur lasciato nella sua stessa ''Politica'' l’abbozzo del suo stato ideale: anch’egli credeva dunque che lo stesso ordine necessario dovesse condurre dal conflitto violento delle volontà al regno della giustizia, che è anche forza, anzi la forma più stabile e perfetta della forza. E gli stessi teorici attuali della lotta di classe, per cui i fattori ideali sono pure «ideologie» fanno appello nella pratica, lo voglia o non lo voglia la loro teoria, a quel senso oscuro della giustizia che sta in fondo a tutti i cuori umani: essi sentono che solo questo fattore ideale può dare ad un movimento forza e valore. L’ideale, sia nella forma di chiaro e conscio pensiero filosofico, sia in quella di presentimento oscuro e diffuso, penetra dappertutto nel meccanismo delle azioni sociali, che per questo appunto non è più solo un meccanismo: anzi è ciò che in fondo lo dirige e lo orienta; gli sta dinnanzi come un fine o come un’utopia e si realizza in esso a poco a poco. Come possiamo dunque lamentarci che il pensiero non penetri e non plasmi la nostra vita sociale? E per qual ragione vi possono essere età, come la nostra, nella quale tutti quelli che non sono acciecati da interessi o da preconcetti sentono più acutamente che mai il bisogno di un rinnovamento ideale della vita? E quali sono le vie ed i mezzi per giungervi? A tutte queste domande noi potremo rispondere solo se affronteremo la questione nei suoi principii e nelle sue connessioni con i problemi filosofici fondamentali: soltanto così potremo vederne nitidamente il senso e la portata e metterne in piena luce le conseguenze.
Un tale procedimento porta però con sè, quando esso è applicato, come nel caso nostro, ad un singolo problema, un duplice inconveniente. Il primo è che si riattacca ad una concezione filosofica complessiva che è impossibile anche solo abbozzare, e più impossibile ancora dimostrare. Ma l’inconveniente non è così grave come a primo aspetto potrebbe apparire. I sistemi filosofici non si dimostrano, almeno nel senso che si dà ordinariamente a questa parola: ciò che non costituisce affatto una inferiorità della filosofia, perchè la dimostrazione logica è sempre solo una operazione subordinata e sussidiaria dello spirito. La importanza capitale non risiede per la filosofia nella dimostrazione, ma nella visione geniale, nella sintesi. Ed a questa nessuna dimostrazione, se lo spirito non è preparato, può condurre. La dimostrazione, se così vuol chiamarsi, è soltanto la successiva estensione del punto di vista fondamentale, che la sintesi ha creato, a tutti i campi, a tutti i fatti, a tutte le teorie subordinate: quando un principio spiega in questo modo la realtà rispandendo su ogni parte di essa una luce eguale, eliminando le contraddizioni, facendoci penetrare nell’interno delle cose stesse, esso è stato dimostrato. Non si creda del resto che avvenga diversamente nella scienza. Anche qui ogni scoperta, ogni teoria nuova è il risultato di una specie di divinazione geniale, una affermazione indimostrata, che solo più tardi può trovare nella estensione ai fatti la sua conferma. Prima vengono innanzi gli «inventori»: poi vengono appresso gli spiriti servili, gli uomini di fatica della scienza, che «dimostrano», ossia raccolgono la verità fondamentale, l’applicano, l’utilizzano, e così, in fondo, alla fine la volgarizzano e la falsano. Per il loro breve sguardo la verità, alla cui luce essi vedono, si confonde col dato: essi sono dei dogmatici che fanno un costante appello al fatto, all’esperienza, e non vedono che nel fatto entra un fattore puramente spirituale e filosofico: quello precisamente il quale fa sì che il fatto così come oggi lo vediamo non sia più lo stesso fatto dell’osservatore di dieci secoli or sono. Questo fattore filosofico, questa «preparazione», appare come la obbiettività assoluta finchè le contraddizioni e l’elaborazione interiore del sapere ne hanno fatto riconoscere l’insufficienza: allora sorgono nuovi spiriti geniali che sanno vedere al di là del fatto e gettano nella esperienza umana una nuova e viva luce la quale trasfigura il concetto stesso del fatto. Così sorge e progredisce anche la scienza. Non mi si voglia perciò tacciare di dogmatismo se sarò costretto ad enunciare dei principii ai quali può mancare forse non la dimostrazione, che non ne hanno bisogno, ma la lunga preparazione che ad essi conduce. L’essenziale è per noi che essi introducano luce ed ordine là dove adesso non vediamo che un intreccio oscuro di contraddizioni e di problemi.
Il secondo inconveniente nasce dal carattere stesso della filosofia che non è una serie di soluzioni, ma una soluzione unica, una visione unica. Una visione filosofica è come uno sguardo unico gettato sulla realtà, che ne collega tutte le parti e riverbera su ciascuna di esse la luce che viene dalla considerazione dell’insieme. Quindi non vi sono propriamente parti nella filosofia: non vi è un principio, nè una fine: non vi sono problemi isolati, nè è possibile una trattazione particolare senza fare continuamente appello a principii e considerazioni che esorbitano dal suo campo speciale. Anche la trattazione di un problema particolare, come il nostro, costringe per conseguenza a risalire ai problemi più generali, a richiamare rapidamente tutta una concezione filosofica, a prendere il punto di partenza molto in alto ed a chiarire in via preliminare quei punti che, in quanto segnano l’indirizzo, sono per tutto il resto di una importanza fondamentale.
Il primo punto da stabilire con chiarezza è quello che riguarda il concetto stesso della filosofia. Importa qui anzitutto non soltanto eliminare le prevenzioni che nel campo scientifico ancora si nutrono contro la filosofia, ma anche fissarne con nitidezza il rapporto con le scienze e la funzione specifica diversa. Non è raro infatti anche oggi sentir parlare della filosofia se non con disprezzo — che non è più nell’indole dei tempi — almeno con una certa diffidenza: come se si trattasse di una disciplina malsicura di carattere intermedio quasi tra la scienza e la poesia. Ora io non dico che nella filosofia tutte le affermazioni abbiano la stessa certezza ed evidenza che hanno — per il matematico — le conclusioni della matematica: ma dico che questo nasce solo da una più esatta conoscenza dei limiti e delle funzioni del conoscere: e che lo svantaggio sta da parte della scienza, la cui sicurezza riposa soltanto su di un dogmatismo inconscio e sulla limitazione del suo orizzonte intellettuale. Che la filosofia sia come il coronamento dell’opera della scienza, è cosa che tutti sanno e ripetono: la filosofia vuole essere, si dice, la sistemazione totale delle conoscenze umane. Ma a questo bisogna aggiungere più cose. La prima è che questa sistemazione non avviene soltanto per opera del filosofo: essa avviene in tutti gli uomini pensanti e, più o meno consciamente, anche nello scienziato. Sarebbe ingenuità rappresentarci l’unificazione filosofica come l’unificazione dei dati scientifici. Nella visione filosofica della realtà, che ogni uomo pensante si costituisce nella vita, concorrono solo per una parte i dati della scienza: un’altra parte non meno rilevante è costituita dalle esperienze quotidiane della vita, della realtà naturale e sociale: ed un’altra ancora dagli elementi della tradizione filosofica che ciascuno di noi riceve dall’educazione, dalle letture, dallo studio personale. Anzi se dovessi determinare comparativamente l’importanza di questi fattori, io metterei in prima linea l’esperienza della vita: quante volte la visione diretta e profonda di un solo fatto non ha gettato per noi sulla realtà una luce più viva che un mucchio di volumi di scienza! In seconda linea la tradizione filosofica: che è tradizione di esperienze e teorie innumerevoli in potenza con un determinato indirizzo per la loro unificazione: e solo in ultimo i dati della scienza. Questo ci spiega perchè, per esempio, più di un filosofo separato da noi da millenni, Budda, per esempio, o Platone, penetri ancora oggi per noi più profondamente nel cuore della realtà che tanti volumi recenti di «filosofia scientifica».
Una seconda considerazione da aggiungere è questa: che anche negli scienziati questa parte, sia pure istintiva, della loro concezione delle cose confluisce in tutta l’opera loro di uomini e di scienziati e ne colora tutte le manifestazioni teoriche e pratiche. Sotto l’aspetto pratico essa è ciò che costituisce in ogni uomo la vera personalità umana e dà a tutta la vita il suo carattere e il suo valore. La vita pratica dell’uomo è infatti solo la traduzione attiva della sua visione generale delle cose: anzi l’una e l’altra non sono che la stessa cosa sotto due aspetti, come dice giustamente Spinoza dell’intelligenza e della volontà nell’uomo. Questo crea una differenza sostanziale tra la visione filosofica complessiva e qualunque teoria scientifica, che è sempre solo una considerazione parziale delle cose. Dalla visione filosofica discendono per l’uomo gli apprezzamenti assoluti, gli imperativi categorici: mentre la scienza può dare origine solo a consigli tecnici, ad imperativi ipotetici: essa può accrescere la nostra potenza, estendere il nostro dominio, ma tutta questa azione ha sempre solo un valore secondario ed è sempre subordinata a quelle volontà assolute che hanno la loro origine nella personalità profonda dell’uomo, nel suo modo personale di vedere ed apprezzare le cose. Questo ci spiega perchè personalità scientifiche insigni possono avere, sotto altro rispetto, scarso valore: la specializzazione scientifica, per quanto grande sia la sua importanza sociale, è dal punto di vista personale una specie di deformazione, di sviluppo unilaterale della mentalità che, quando non sia equilibrata da una coltura armonica totale, cioè filosofica, costituisce più un pericolo che un pregio.
Ma l’indirizzo complessivo della mentalità, anche se non è stato filosoficamente elaborato in modo consapevole, estende la sua azione anche sul modo di apprendere i fatti, di accogliere le esperienze: il complesso delle regole metodologiche e quello che si chiama la mentalità scientifica non sono altro appunto che l’indirizzo mentale generico proprio di una età o di una cultura. Questo deve mettere in guardia contro ogni apprezzamento troppo esclusivo del «fatto», dell’esperienza, della constatazione scientifica. In questa esperienza, in questa constatazione entra sempre, anche se non avvertito, e spesso in modo prevalente, un elemento filosofico. Ogni preteso fatto non è mai il fatto assoluto: ma il fatto come lo vediamo noi uomini (noi non possiamo fare altrimenti, ma non dobbiamo dimenticarlo) e uomini di una certa civiltà, di una certa età, di un certo indirizzo. È per una specie di semplicità filosofica che la scienza considera il suo punto di partenza come qualche cosa di granitico, di assoluto. Non vi sono fatti in senso assoluto. Chi volesse scindere i fatti e le teorie sarebbe come chi volesse mettere da una parte la materia, dall’altra le forze: non tarderebbe ad avvedersi che la sua pretesa materia è un conglomerato di energie e che, tolte queste, non rimane più nulla di chiaramente afferrabile. Analogamente ogni preteso fatto implica in sè un compendio di innumerevoli esperienze e teorie: e si oppone, come fatto, solo relativamente alle «nuove» teorie che si vuole su di esso edificare.
Questo non contrasta per nulla, si comprende, col principio metodico che ogni sapere deve cominciare coi fatti ed avere nei fatti il suo fondamento. In qualunque campo noi dobbiamo partire dai fatti; vale a dire cominciare con raccogliere, in quel modo che la nostra preparazione e la nostra mentalità ci permettono, il massimo numero di elementi della esperienza, vale a dire di elementi della realtà. Dal concorso e dal conflitto di questi elementi sorgono le teorie, sorge una modificazione della stessa nostra mentalità complessiva e perciò anche del nostro modo di apprendere i fatti: l’esperienza dopo la teoria non è più la stessa esperienza di prima: si vede meglio, si vede più a fondo, si vede altrimenti. Con questa nuova mentalità si accolgono nuove esperienze e così lo spirito progredisce per una elevazione insensibile di tutto l’essere proprio verso nuove altezze. Fatti scientifici e teorie filosofiche sono dunque elementi inscindibili: nel fatto di oggi confluisce la teoria di ieri, e nella teoria di oggi si prepara il fatto di domani. Nella scienza di oggi e nel suo modo di apprendere i fatti, vivono, come cristallizzate, teorie filosofiche e mentalità fissate in una specie di disposizione collettiva: ma anche nella filosofia di oggi vive già quella preparazione, quella mentalità che servirà domani a vedere più chiaramente, ad apprendere il fatto in modo più perfetto e più profondo.
Ma la diffidenza delle menti scientifiche contro la filosofìa ha anche un’altra ragione, che sarà interessante mettere in luce perchè anch’essa ci servirà a determinare meglio sotto ogni rispetto la funzione e la legittimità della sintesi filosofica. La diversità della visione della vita deriva, oltre che dalla diversa potenza mentale, anche dalla diversità delle esperienze che ad essa hanno servito come dato, come punto di partenza. Questa dipendenza è un fatto ben noto e psicologicamente naturale: in certi casi anzi esso va tanto oltre da generare una specie di cecità per le esperienze di altri campi. «Questo non entra nel mio campo abituale di esperienza: dunque è impossibile» è un ragionamento che si ode spesso, con altre parole, nella bocca degli scienziati: quella libertà, larghezza e freschezza di mente che sanno mantenersi indipendenti da questa schiavitù dell’abitudine sono doti ben rare. Quindi non ci meraviglieremo se un astronomo fa entrare nella sua filosofia, più o meno popolare, considerazioni prevalentemente astronomiche; se un chimico ci dà una teoria chimica della coscienza e della morale; e infine se le persone versate negli studi biologici perdono di vista, per il cervello, il mondo della coscienza e considerano il materialismo biologico come il non plus ultra della filosofia. Ora, quando si parla di scienza, si intende in generale le scienze della natura esteriore e le scienze matematiche che di quelle sono un elemento sussidiario: in questo senso si oppone generalmente la scienza alla filosofia. Ma questa non è che una parte, ed anche la meno considerevole, della scienza. Vi è al di là della realtà naturale un altro campo sconfinato aperto alle indagini del pensiero: il campo delle realtà spirituali. Se si fa eccezione per la storia e per alcune discipline sussidiarie della stessa, di secondaria importanza, il sistema intero delle scienze dello spirito è una creazione del tutto recente: la maggior parte di esse si sono costituite o si stanno costituendo sotto i nostri occhi: il gruppo delle scienze psicologiche, quello delle scienze sociali, la scienza delle religioni, la logica, si debbono oggi considerare come discipline perfettamente autonome e più di una tra esse ha raggiunto uno luppo notevole. Non occorre che io rilevi l’importanza di queste discipline per la costituzione di una filosofìa: io oso anzi dire che nessuno dovrebbe credere di poter fare o dire qualche cosa di serio nel campo della filosofìa senza aver preso almeno una sommaria notizia dei risultati delle discipline storiche e delle scienze dello spirito. Ed oso anche aggiungere che questa notizia modificherebbe assai opportunamente molte mentalità, dissiperebbe molti preconcetti, amplierebbe molti orizzonti. È un indizio di rozzezza mentale il credere, per esempio, che un cristallo, un corpo semplice, un processo nervoso siano fatti più rilevanti che una forma di giudizio, un istituto giuridico, una rappresentazione religiosa. Ora l’antipatia che spesso si nota tra la mentalità scientifica e la mentalità filosofica, in quanto non procede da differenze di disposizioni costitutive, si riduce il più delle volte essenzialmente alla opposizione fra le mentalità nutrite di esperienze naturali ed esteriori e la mentalità raffinatasi nella considerazione delle realtà spirituali: nessuna meraviglia quindi che, allorché la prima si ostina a considerare come decisive per la costituzione della filosofìa le sue esperienze famigliari, essa riesca nei suoi tentativi di sintesi a delle costruzioni che sembrano rievocazioni di altri tempi e che nessun filosofo potrà mai prendere sul serio.
Le precedenti osservazioni ci permettono ora di considerare la filosofìa in modo ben diverso dall’ordinario e di vedere chiaramente quale è il suo posto nella multiforme attività intellettiva degli uomini, che tutta cospira, come verso un ultimo fine, verso la filosofìa. La filosofìa è un fatto umano universale da cui nessuna creatura pensante si esime. Ogni creatura pensante tende con dolore e fatica verso un suo fine: ed in questo sforzo la sorregge il suo sogno per mezzo del quale si raffigura la vita e la realtà: questo sogno è la sua filosofìa. Le filosofìe degli uomini differiscono profondamente quanto ai risultati ed al valore: questo valore dipende dalla ricchezza ed universalità delle esperienze e dalla potenza di elaborazione formale: che non sono nelle filosofìe vere e proprie semplice frutto di sforzi personali, ma sono il risultato di un’antica e complessa tradizione sociale. Ciascuno di questi gradi della mentalità filosofica è una vera elevazione qualitativa che influisce sopra tutta la personalità teoretica e pratica. La filosofìa non è solo una somma di esperienze e di dati scientifici; nel qual caso il più ozioso collezionista sarebbe in vantaggio sul filosofo, perchè egli possiede il maggior numero possibile di dati, almeno in un campo, in quello nel quale si è specializzato. La filosofia è una sintesi, vale a dire conversione qualitativa: la visione filosofica non è una ipotetica aggiunta oziosa ai fatti, ma è una conversione profonda di tutta l’esperienza che fa apparire i fatti stessi, da cui è sorta, sotto una nuova luce: essa crea veramente un nuovo punto di vista, una mentalità specificamente diversa, che nessuna ricchezza quantitativa di specialista può sostituire. La scienza è uno strumento di questa conversione, una distinzione introdotta dalla necessità sociale della divisione del lavoro: ma appunto perciò essa ha il suo punto di vista e la sua mentalità correlativa alla sua limitazione. Essa arricchisce la esperienza, educa la mente alla indagine severa: ma le sue verità valgono solo relativamente al suo punto di vista; essa dipende da un punto di vista generale che non è sempre chiaramente e consapevolmente posto in luce e serve a preparare lentamente nella convinzione collettiva un punto di vista generale nuovo, cioè filosofico. Il lento progresso teoretico della umanità è nella lenta trasformazione di questa concezione fondamentale: esso è opera della filosofia. Perciò la filosofia riconosce tutte le verità, accoglie tutte le esperienze possibili: ma associandole fra loro, mettendo di fronte i vari punti di vista particolari, li annulla e li supera. Senza distruggere nessuna di queste verità essa aiuta ad interpretarle, a vederle più profondamente sotto una luce più vera: il suo fine è di superare tutte le limitazioni, di suscitare quella intuizione geniale in cui tutte le cose, nonostante le apparenti opposizioni, si rivelano nella loro unità più profonda. Salutiamo quindi con gioia i progressi della scienza, anche per la loro ripercussione indiretta nel campo della filosofia: ma ricordiamo che solo dalla filosofia possiamo attendere una rigenerazione completa del nostro spirito ed un rinnovamento della nostra vita.II.
Dopo le considerazioni e giustificazioni precedenti non apparirà strano se io mi pongo senz’altro al centro della concezione filosofica alla cui luce vogliamo considerare i compiti sociali della età presente, senza preoccuparmi se i principi posti a fondamento possono apparire posizioni dogmatiche non giustificate, e senza temere di urtare in prevenzioni ostili alla filosofìa.
Se noi ci poniamo la domanda che dovettero porsi fin dai primordi della civiltà umana i primi veggenti che levarono lo sguardo dalle umili preoccupazioni della vita animale e che oggi ancora non può non levarsi in ogni spirito che abbia anche per poco meditato sulla realtà, e ci chiediamo che cosa sia questo universo in cui veniamo un momento per godere, soffrire, pensare e morire, la risposta quasi unanime che ci danno i filosofi è questa: la realtà in cui viviamo è una grande coscienza, è la manifestazione di una vita spirituale infinita, della quale ciascuno di noi è un momento. — Questa dottrina sembra essere in contraddizione con le apparenze immediate: certo essa appare a primo aspetto come un paradosso. Tuttavia conviene ricordare che, tolto l’involucro mitologico, essa è il fondamento della concezione religiosa diffusa intorno a noi anche tra il popolo: che altro significa infatti il dire che il mondo è la creazione della volontà di uno spirito perfettissimo, il quale lo sostiene continuamente e senza la cui volontà esso cadrebbe nel nulla? Ciò che rende più difficile l’adesione esplicita a questa dottrina è il fatto che in ogni momento i sensi ci mettono a contatto con una realtà che sembra avere tutt’altri caratteri da quelli che siamo soliti a riferire alla coscienza quale la troviamo in noi: la realtà che diciamo realtà materiale e che nel suo complesso costituisce ciò che diciamo natura. Questa è anzi la realtà che prima si impone allo spirito conoscente, che si offre ad esso come il tipo di ogni realtà e che, data la incapacità in cui lo spiritò inizialmente si trova di afferrare nei suoi caratteri e nel suo valore la realtà di se stesso, cioè della coscienza, gli appare come il principio e la essenza di tutta la realtà. Onde non ci meraviglieremo se agli inizi, al problema del principio delle cose il pensiero risponde: è l’acqua, è l’aria, il fuoco, gli atomi; ed anche oggi, poichè, come nel mondo organico, così nello spirituale le forme antiche e meno evolute persistono a fianco delle specie superiori, — questa è la prima ed ingenua, risposta che danno a sè stesse sul problema delle cose le menti filosoficamente meno colte. È compito della teoria della conoscenza il mostrare come gradatamente lo spirito abbia disciolto questo caput mortuum che vedeva opposto a sè come un termine impenetrabile ed abbia riconosciuto in esso una sua creazione, una sua attività, una sua forma. Io ricorderò soltanto due gradi essenziali di questo processo, quale almeno si è compiuto nel nostro pensiero occidentale. Anche la più semplice riflessione sul mondo sensibile esteriore fece ben presto riconoscere che non tutti i suoi elementi hanno, per così dire, una eguale solidità: e che vi sono in esso elementi la cui variabilità e relatività tradiscono facilmente il carattere soggettivo: così si venne ad una prima distinzione tra le qualità prime, ossia le proprietà veramente obbiettive della materia sensibile, e le qualità seconde che sono soltanto traduzioni soggettive delle prime (i colori, i suoni, ecc.). Questa è la concezione che troviamo già nell’atomismo greco, che hanno rinnovato nel Rinascimento Galilei, Cartesio, Locke e che è stata fino a poco fa la base della concezione scientifica delle cose. Ora certo è che una distinzione sussiste fra i due ordini di qualità: in che cosa abbia il suo fondamento è anche oggi un problema. Ma non sussiste una distinzione così come è posta nella teoria precedente: in ultima analisi anche le qualità prime — la grandezza, il numero, il movimento, ecc. — sono, come le qualità seconde, elementi rappresentativi, dati della coscienza. È stato merito del filosofo inglese Giorgio Berkeley (1685-1753) l’aver mostrato con chiarezza definitiva che tutti gli elementi di ciò che diciamo mondo esteriore (colori, sapori, ecc.; pesi, resistenze, estensioni, ecc.) sono semplici fenomeni di coscienza: Kant ha corretto e completato l’idealismo berkeleyano col distinguere questi elementi in due categorie: quelli che ci sono dati dalla sensazione e quelli che lo spirito introduce per la necessità della sua universale natura e che sono il fondamento della obbiettività e regolarità della rappresentazione umana nel mondo: questi ultimi sono le così dette forme a priori della conoscenza. Ciò che ci interessa in questo progressivo approfondimento dell’analisi gnoseologica della realtà è tuttavia solo questo: che anche il mondo esteriore, così detto materiale, è di natura psichica, è un tessuto di sensazioni e di rappresentazioni, «è fatto della natura di cui sono intessuti i sogni». È dunque solo un sogno? No, certamente. Vi è una ragione dell’ordine obbiettivo delle cose: anzi ogni cosa è in sè qualche cosa indipendentemente dall’aspetto che assume come rappresentazione. Ma che cosa è questo in sé? L’in sè dei colori non è un colore: un colore è impensabile fuori della rappresentazione di un essere senziente. La concezione cui ho accennato considerava come l’in sè delle qualità sensibili i movimenti: ma anche i movimenti sono fenomeni. L’in sè dei colori, dei movimenti, delle estensioni, ecc., non è nè un colore, nè un movimento, nè altro di ciò che è dato a noi nell’esperienza. — È dunque un inconoscibile? Diremo che il mondo esterno è la manifestazione in noi di una realtà assolutamente ignota? Io non credo sia necessario giungere a questa conclusione. La realtà fenomenica è una traduzione, è vero: essa ci dà però se non la lingua, il senso del testo: e cioè un ordine che deve avere una qualche rispondenza nelle cose in sè. Inoltre non è vero che la realtà ci sia data dappertutto sotto la forma di un’apparenza che nulla rivela del suo essere vero: vi è un punto almeno in cui essa ci si dà se non per quello che è, almeno sotto un velo assai trasparente. Questo è il nostro essere interiore, l’io: che non ci è dato attraverso i sensi, per via di processi che ne travestono la natura: esso ci è dato immediatamente, esso è dato e vissuto nel tempo stesso. Non apparirà strana pertanto l’asserzione della filosofia idealistica in genere: che il mondo nella sua totalità, anche quello che ci appare nella sua veste fenomenica, nel suo travestimento sensibile come durezza, movimento, ecc., come qualche cosa di morto e di cieco, è invece, nel suo intimo, un sistema di forze analogo a quelle che ciascuno apprende in sè stesso come «io»: e cioè o una grande coscienza, od un sistema di coscienze di vario grado, ma in fondo analoghe a quella che in me conosco come «mia» coscienza.
Questa è, sommariamente, la tesi fondamentale della filosofia idealistica, anzi, potremmo dire, dopo Kant, di ogni filosofia. Schopenhauer ha avuto ragione di vedere in essa la proposizione iniziale che concede, per così dire, l’accesso alla filosofia. Sulle basi di questa affermazione iniziale possono svolgersi le concezioni idealistiche più diverse. Una prima distinzione si può fare tra i sistemi che potremmo dire pluralistici, monadistici, che pongono la realtà come costituita di tante unità psichiche elementari le quali si associano in sistemi complessi e quelli monistici, che pensano invece il mondo come costituito da un’unica grande coscienza alla quale ciascun essere più o meno perfettamente partecipa. Ma questa distinzione non ha che un valore molto relativo, in quanto anche i primi riconoscono una certa unità fondamentale, senza di cui non sarebbe possibile spiegare i rapporti delle cose nel mondo; e i secondi debbono pure ammettere che la loro coscienza assoluta si riveli, almeno dal punto di vista nostro, in una molteplicità di coscienze individuali, la cui distinzione potrà essere nell’assoluto illusoria, ma è per noi empiricamente reale.
Meglio fondata e più importante per le sue conseguenze è invece la distinzione che potremmo stabilire tra l’idealismo immanente e il trascendente. Il primo è un adattamento della concezione idealistica alle tendenze naturalistiche, empiriche: esso riconosce che il mondo è una grande realtà spirituale, ma limita questa realtà alle forme empiricamente date: questa realtà si svolge in un corso perenne sempre rinnovato e in fondo sempre eguale, e la perfezione più alta dello spirito sta nell’immedesimarsi con l’unità universale, nell’elevare la propria coscienza al punto di vista della vita universale. Il secondo invece ha un carattere più profondamente metafisico e religioso: per esso la realtà spirituale che noi viviamo non è qualche cosa di assoluto, ma tende a risolversi in una vita ed in una unità più profonda, che sono rispetto a noi trascendenti, che superano ogni nostra apprensione: e la vita non è un processo sempre eguale, ma un’ascensione verso un’unità che è presentemente a noi inaccessibile: la perfezione dei gradi e delle forme della vita dipende dal grado dell’unità che essi realizzano ed ogni forma più alta di realtà non è mai che una immagine, un simbolo.
Sebbene la differenza tra queste due concezioni tenda in concreto ad attenuarsi e lo stesso idealismo immanente inclini a considerare la totalità dello spirito con un senso che si avvicina molto alla venerazione religiosa, e così si attiri qualche volta l’accusa — che naturalmente è un’onorevole accusa — di misticismo, in teoria questa differenza è fondamentale. Le teorie naturalistiche tendevano in generale alla glorificazione dell’individuo: anche oggi coloro che pongono come valori supremi i valori biologici debbono logicamente porre come centro e fondamento della vita l’individuo: perchè biologicamente parlando, la vita non si realizza in concreto che nell’individuo e lo stesso sacrificio dell’individuo alla razza od alla specie, non è che il sacrificio dell’individuo presente ai futuri, o di un’individuo ad un maggior numero di individui. La sola dottrina morale coerente rispondente a questa concezione è l’utilitarismo: che in fondo dissolve la vita morale riducendola ad uno strumento della vita e della conservazione individuale; la sola vera unità che abbia consistenza e valore. L’idealismo immanente pone invece in generale come centro e cardine della vita l’unità morale collettiva. Ciò che è metafisicamente reale ed ha valore non è più l’unità biologica dell’individuo, ma quella corrente spirituale che si svolge nella storia ed a cui l’individuo deve servire. Ora questa corrente spirituale è lo stesso spirito umano nella sua unità e totalità: le attività sue esauriscono in ogni momento la realtà. Noi non siamo qui lontani dalla divinizzazione della umanità che ha luogo nel positivismo di A. Comte e che è anche una conseguenza del così detto idealismo hegeliano. L’idealismo trascendente invece considera questa manifestazione dello spirito che raggiunge il suo più alto grado nella unità della vita morale, come qualche cosa che non è fine a sè stessa, e che non potrà mai, per quanto alto sia il grado di perfezione in cui la pensiamo, costituire qualche cosa di avente in sè la propria ragione di essere: anche la morale, anche la scienza sono unità per loro essenziale natura destinate a rimanere allo stato di sforzi imperfetti e logicamente inconcepibili solo se si pensano come approssimazioni e preparazioni a qualche cosa di più alto che le trascende. È naturale perciò che esso non consideri lo spirito umano come l’ultima ed essenziale realtà: ma veda nello spirito concreto e nelle sue manifestazioni altrettante rivelazioni imperfette dell’essere vero, altrettante forme fenomeniche di un essere assoluto. Ed è del pari naturale che per esso alla sfera della vita morale si aggiunga un’altra sfera più vasta in cui trova la sua espressione la tendenza dello spirito a ricollegarsi colla sua assoluta unità: questa è la sfera della vita religiosa. È specialmente nel problema religioso che le due concezioni si dividono. Mentre per l’idealismo immanente la religione o non è nemmeno un problema (quanta leggerezza!) o è pensata come qualche cosa che maschera e serve la vita morale, per l’idealismo trascendente la religione è il cardine stesso della vita, e la vita morale non ha termine e consistenza vera che nella coscienza religiosa.
Per quanto oggi l’indirizzo corrente del pensiero, forse obbedendo anche a preoccupazioni empiriche e naturalistiche, ereditate da quel periodo che possiamo considerare come tramontato, si accosti in generale all’idealismo immanente, che, se pensiamo alla fama dei suoi massimi rappresentanti (Cohen, Bergson, Croce) si può considerare come la vera filosofia popolare del nostro tempo, io non nascondo che esso non è agli occhi miei che una forma di transizione alla forma vera e coerente dell’idealismo, che è l’idealismo trascendente, religioso. Non è qui il caso naturalmente di entrare in una discussione estesa di questi problemi. In genere dirò soltanto che in questo sono determinato, come è naturale, da pure esigenze logiche. Io sono convinto che una profonda analisi critica della esperienza e della realtà non soltanto ci rivela in essa la manifestazione di una energia spirituale universale, ma ci rinvia ad una unità spirituale assoluta, che ne trascende tutte le forme particolari. La medesima conversione che si è operata nei veggenti antichi e per cui la molteplicità mutevole e varia degli esseri finiti si è ai loro occhi trasfigurata nella manifestazione unica di una potenza divina, si opera ancora nel nostro intelletto affinato da secoli di sottili speculazioni: soltanto essa si opera per noi nella regione del pensiero logico ed ha la sua espressione non nei vaghi simboli del mito, ma nelle oscure astrazioni della filosofia. A questa pura esigenza logica si aggiungono poi altre considerazioni, che sono in fondo anch’esse di natura logica, ma possono apparire e venire esposte sotto l’aspetto di esigenze dell’ordine sentimentale e pratico. Io credo che una spiegazione soddisfacente dei grandi fatti dell’ordine spirituale, non possa venir raggiunta se non in quanto essi vengono considerati come preparazioni e condizioni della vita religiosa. Il diritto, la morale, l’arte, la stessa indagine scientifica, non sono in sè fenomeni religiosi e possono esistere indipendentemente dalla religione: ma possono venir compresi a fondo solo in una visione religiosa della realtà e perciò in pratica possono svolgersi e progredire verso le forme più alte solo in quanto riconoscono il loro fine (quindi il loro fondamento) nella vita religiosa. Le considerazioni che io verrò svolgendo da questo punto di vista sullo stato, sulle condizioni sociali odierne e sui doveri che per noi ne risultano, non saranno quindi deduzioni dogmatiche da un punto di vista arbitrariamente scelto, ma serviranno nello stesso tempo a confermare il principio da cui discendono ed a metterne in luce le applicazioni concrete nel campo che ci interessa.
La teoria della società come quella della realtà in genere, può essere costituita da un duplice punto di vista. Se noi la consideriamo nella molteplicità degli elementi e delle forze che la costituiscono, noi siamo tratti a concepirla come un grande meccanismo, anzi come un sistema di meccanismi cospiranti necessariamente in un dato indirizzo: nulla di più naturale allora che di passare a poco a poco a considerare le forme ideali di unità, che sembrano scaturire da questo grande insieme, come pure parvenze che non hanno alcuna influenza sul processo complessivo, anzi sono come l’ombra che lo accompagna e ne dipende. La concezione opposta considera invece la società come una grande unità spirituale, come una coscienza superiore e più vasta che in sè abbraccia le coscienze individuali e persegue i suoi fini facendo ad essi servire gli individui. La vita sua non è un meccanismo, ma una creazione, una libera esplicazione: le grandi volontà ideali sono come le forze creatrici che piegano a sè e utilizzano i meccanismi inferiori. Non è difficile riconoscere in questi due punti di vista i due punti di vista fondamentali che abbiamo contrapposto nella scienza e nella filosofia: e che in realtà non si contrappongono, ma si richiamano e si completano. La società è come il nostro organismo fisico un sistema di attività e di funzioni, le quali non possono venir considerate dalla scienza altrimenti che come un sistema di attività meccaniche. Fare intervenire, in questo sistema, delle forze immateriali, introdurre nell’esplicazione di fenomeni fattori altri dai fattori causali sperimentabili e misurabili è non soltanto un errore di metodo, ma una aberrazione che toglie ogni serietà alla ricerca ed ogni valore ai risultati. Ma quando si è dissecato un sistema nei suoi elementi materiali, non si ha la realtà completa del sistema; la considerazione analitica lascia fuori di considerazione ciò che ai nostri occhi più importa, vale a dire l’unità del sistema: manca ad essa soltanto, dice ironicamente Goethe, il vincolo spirituale che lo collega. L’organismo dell’uomo è un sistema di meccanismi, ma la vita sua non è nel suo insieme un processo meccanico: analogamente la vita della società si leva su di una molteplicità di meccanismi elementari che sono studiati dalla economia e dalle altre scienze sociali, ma è nel suo insieme una attività creatrice che non ha niente di meccanico. Il meccanismo è soltanto la parvenza, secondo il concetto profondo di Leibnitz, dell’attività spontanea creatrice: la scienza che si attiene ad una considerazione parziale della realtà deve star saldamente attaccata al punto di vista particolare e studiare il rapporto dell’elemento singolo con l’elemento, senza preoccuparsi della visione di insieme che giace fuori del suo orizzonte: ma avrebbe torto se volesse fare del suo il punto di vista assoluto e contrastare alla filosofia il diritto di risolvere questa concatenazione fenomenica di meccanismi nella manifestazione esteriore di una vita interiore profonda, di una unità creatrice. Noi apprezziamo quindi altamente le sottili analisi degli economisti: ma ciò non ci impedisce di rilevare nel modo più deciso che quando essi erigono i loro presupposti in teoria filosofica, essi ci conducono a dottrine teoricamente assurde e praticamente funeste: la concezione idealistica della realtà sociale non è in alcun modo in contraddizione con i metodi e i risultati delle scienze economiche e sociali, ma soltanto con le conclusioni materialistiche che una rozza filosofia crede di poterne ricavare.
Noi possiamo quindi senza preoccupazioni per un particolare punto di vista che qui non ci interessa, considerare la realtà sociale in quell’unità profonda, che è anche la sua realtà più vera, come la esplicazione di un’energia spirituale, di una volontà che tende, come ogni altra unità spirituale, verso quell’unità assoluta in cui ogni cosa ha il suo fondamento. La nostra coscienza individuale è la sintesi delle innumerevoli coscienze degli elementi cellulari che ci compongono e che sono organizzati in complessi sistemi di unità: analogamente noi dobbiamo pensare ogni unità sociale come una unica grande coscienza superiore di cui noi siamo gli elementi cellulari, le unità elementari che la costituiscono e ad essa imperfettamente partecipano. Come avviene questa estensione della coscienza individuale, questa costituzione di unità spirituali collettive in cui si rivela l’unità profonda degli esseri che la costituiscono? Per rispondere adeguatamente a questa domanda mi sarebbe necessario ricordare tutta la storia dei gruppi famigliari e sociali e vedere come da quell’estensione fisiologica dell’essere proprio, che ha luogo nella maternità sia nata e si sia svolta in molteplici forme l’unità morale della famiglia: e come dai primi inizi della vita politica, che sorsero là dove un gruppo di violenti soggiogò una moltitudine imbelle, derivarono le corporazioni, gli stati, le associazioni di stati con tutta la ricchezza morale e culturale che accompagna questo svolgimento. Ma a noi basta qui riassumere questo grande movimento nei suoi due momenti essenziali che sono il «diritto» e la «morale». Ogni organizzazione umana è sorta in origine dalla violenza: o per fini o per effetto di violenza. Questa violenza è ancora qualche cosa di egoistico e di individuale: ma tuttavia in quanto è una estensione di questa volontà individuale ad una generalità, essa acquista qualche cosa del valore della generalità e diventa «diritto». La proposizione brutale di Hobbes e di Spinoza che il diritto è la forza, è sotto questo aspetto profondamente vera: il diritto non è altro nelle origini che una forza bruta, una forza dominatrice in modo costante ed uguale, che perciò, mentre risponde alle esigenze egoistiche dei dominatori, assicura alla moltitudine dei dominati quei vantaggi che provengono dalla stabilità della organizzazione. L’ossequio divino prestato in origine ai re, l’ammirazione che le folle dimostrano per i potenti che trionfano, sono un riflesso appunto di quel carattere ideale che riveste agli occhi degli uomini la forza e che ne preannunzia sotto un certo aspetto il valore morale. Ma il progresso nella organizzazione sociale non avviene solo per una estensione quantitativa: nello stesso tempo che il regno della forza stabile diventato diritto si estende e si consolida, l’unità così creata subisce nel suo seno una conversione interiore: l’unità delle coscienze da esteriore e forzata diventa unità interiore spontanea, «unità morale».
Così il «diritto» e la «moralità» costituiscono come i due momenti o gradi successivi di quell’unità interiore che costituisce l’essenza intima della vita di un popolo: unità che prima è imposizione violenta di volontà dominatrici e che in appresso si trasforma in armonia liberamente voluta in virtù del bene comune. Tuttavia questo non deve essere inteso nel senso che la morale cominci soltanto là dove cessa il diritto e che il diritto cessi dove comincia la morale. Anche quando nella società si è svolta una larga ed intensa vita morale il diritto continua a sussistere non solo come eredità del passato, ma anche come funzione sussidiaria e preparatoria: esso subisce l’azione della vita morale, si modifica, si ritira o si estende, si subordina alle esigenze morali: così sorge un nuovo diritto che conserva l’antico carattere di essere dominio fondato sulla forza, ma è forza piegata alle nuove esigenze morali della società. Anzi di mano in mano che la vita morale progredisce, si disegna in essa un nuovo ordine del diritto, un ordine puramente ideale, conforme alle nuove idealità morali: questo è il diritto che i riformatori e i ribelli contrappongono al diritto della forza: anch’esso vuole essere forza piegante a sè le volontà sociali (senza di che non sarebbe diritto), ma è la forza «come deve essere», la forza orientata secondo le nuove esigenze morali.
Ciò che costituisce veramente l’anima, il momento essenziale della vita di un popolo, non sono quindi i meccanismi economici o le rudi forze che in essi intervengono: ciò tanto varrebbe quanto far consistere il momento essenziale della vita di un uomo negli scambi organici del suo corpo. Una società è un organismo spirituale che ha per fine e per ideale l’unità armonica di tutte le volontà in una vita comune: questa unità è veramente una volontà creatrice, che non solo non deriva dalle unità egoistiche e dai loro conflitti economici, ma anzi contrappone a sè queste unità come materia della sua vita, le piega ai suoi fini ed arriva a dissolverle nella unità superiore della sua vita. Però questa unità non è essa medesima che un grado ed un momento della unità universale della coscienza e della vita. La vita stessa di un popolo non è fine a sè, non ha valore per sè: anche la stessa unione morale di tutta l’umanità, pur costituendo un ideale morale altissimo, non ha la sua ragione di essere in sè medesima. Se noi potessimo condurre tutta l’umanità a vivere come una sola grande unità di volere, ci chiederemmo pur sempre: cui bono? — a che serve? — Questa insoddisfazione in cui ci lascia la stessa vita morale vuol dire che essa ha sopra di sè una forma più ampia di vita: la «vita religiosa». Anche adesso se noi consideriamo razione complessiva della società vediamo che la stessa sua unità morale serve non a sè, ma a rendere possibile la cooperazione volontaria di tutti nella produzione dei beni più alti, che noi riassumiamo sotto il nome di coltura e che comprendono l’arte, la scienza, e in genere tuttociò che affina ed approfondisce la vita interiore. E se noi consideriamo questo punto alla luce dei principi da cui siamo partiti, noi vedremo la cosa con perfetta chiarezza. La realtà vera ed ultima, quella che costituisce il fondamento dell’essere nostro, e il termine di tutte le nostre aspirazioni, è l’unità assoluta dello spirito: ogni essere è tanto più perfetto e beato quanto più si avvicina a questa unità e tutta la vita è un tendere insoddisfatto verso di essa. L’unità morale è un bene perchè è un uscire dall’isolamento, un riconoscere parzialmente questa unità: per questo la vita morale ci appare come un bene ed un dovere. Ma anche la vita di tutto un popolo e di tutta l’umanità non è ancora l’unità assoluta: questa unità delle volontà umane è un bene solo perchè rende possibile alla coscienza umana l’aspirazione verso una vita ancora più alta, l’aspirare a confondersi con quella unità assoluta delle cose che l’umanità in ogni tempo ha considerato come qualche cosa di santo ed ha chiamato col nome sacro di Dio. L’arte, la filosofia, la religione sono altrettanti mezzi di questa unione, altrettanti sforzi di questa ascensione del finito verso l’infinito. L’unità morale degli uomini che si realizza nella società e nello stato, ha quindi il suo fine superiore nel rendere possibile quella vita superiore della umanità che abbraccia in sè le manifestazioni più alte e più pure dello spirito e che noi possiamo comprendere col nome di «vita religiosa».
La società e lo stato non sono quindi aggregati di interessi o risultati meccanici di conflitti e di cooperazioni economiche: l’anima della società è nell’unità della volontà morale che essa progressivamente crea: la società è per essenza un «organismo morale». E questo organismo morale ha a sua volta la sua ragione d’essere in quella vita spirituale più alta che esso rende possibile all’uomo di raggiungere e che noi, dando alla parola un senso un poco più ampio e più elevato dell’ordinario, possiamo chiamare «religione».
III.
Se la società è essenzialmente una unità morale, un organismo, essa deve avere una organizzazione corrispondente: la forma naturale della società è l’accentramento aristocratico intorno ad un sistema direttivo. La sorgente del diritto è l’unità morale della vita sociale, non la molteplicità che intorno ad essa si accentra. Il diritto nella sua forma più alta è l’unità morale stessa: non vi sono altri diritti. Quindi l’individuo non ha mai propriamente diritti, o meglio ha soltanto i diritti che gli conferiscono i suoi doveri. Egli può avere diritti storici: vale a dire può avere il diritto che gli conferisce la tradizione ereditaria della forza: ma idealmente non ha diritto. Molti di fatto possiedono, ma nessuno ha idealmente il diritto di possedere: il soggetto ideale del diritto è uno solo: è la società nella sua costituzione ideale. Di fronte alle esigenze ideali della società nessuno può vantare diritti: anzi la persistenza di diritti storici tradizionali, non fondati su esigenze ideali, è per la società un segno di inferiorità morale.
Questo vale anche degli elementari diritti che si considerano come il possesso imprescrittibile di ogni persona. Di fronte al diritto barbarico primitivo, che era pura forza e che dava in balia dell’egoismo di pochi la libertà e le sostanze di innumerevoli soggetti, ha potuto apparire un progresso la proclamazione dei diritti dell’uomo: ma questa era in realtà la proclamazione di un ordine morale migliore: era la affermazione di uno stato nuovo delle coscienze che voleva rendere possibile al maggior numero il conseguimento di condizioni più umane di vita nel senso che anche ad essi doveva essere possibile la partecipazione alla vita morale ed ai beni superiori della spiritualità umana. La democrazia ha quindi questo solo senso: che tutti nella società devono vivere come uomini e perciò debbono poter vivere come uomini. Sulla volontà egoistica dei pochi non deve prevalere l’egoismo bestiale dei molti, ma la legge morale che è lo spirito stesso della società e che vuole che ciascuno possa compiere il proprio dovere, che la società metta ogni uomo in condizione di poter vivere degnamente della vera, pura ed alta vita umana. La sorgente del diritto non è l’individuo come individuo, ma la legge che egli è chiamato a realizzare: di fronte a questa legge l’individuo non ha valore se non in quanto egli è chiamato a parteciparvi e ad obbedirvi.
Come forma ideale di governo la democrazia non ha quindi alcun senso. Espressione ed organo del diritto è sempre una aristocrazia: aristocrazia militare e feudale nelle origini, poi curiale e industriale, e, infine, nell’ideale almeno, intellettiva e morale. Ogni organismo è sempre aristocraticamente ordinato: democrazia nell’organismo fisico vuol dire dissoluzione e morte. La moltitudine delle energie che l’organismo sociale accentra è sempre di natura inferiore: la funzione e il fine della unità sociale è appunto di elevare queste nature inferiori verso una forma più universale ed umana. Ora ciò non sarebbe possibile se la direzione e il dominio dell’organismo non fossero accentrati in una minoranza superiore che domina col diritto che le conferisce precisamente questa superiorità ideale. Anche le aristocrazie barbariche hanno posseduto al loro tempo questa superiorità: nelle condizioni particolari dei loro tempi, la disciplina, il disprezzo della vita, la forza fisica, la crudeltà stessa sono state doti necessarie a sostenere le aspre lotte accese fra i diversi gruppi umani per la distruzione reciproca: come in altri tempi la potenza di organizzazione, la tenacia, la intelligenza e l’assenza di scrupoli sono doti superiori che hanno fondato e sostengono la superiorità della presente aristocrazia industriale di fronte alle folle deboli e mutevoli, schiave dell’ignoranza e del desiderio, tutte assorte nella vita del momento ed incapaci di uno sforzo intelligente e perseverante.
L’ideale di una società evoluta sarebbe certamente una aristocrazia dotata di alte qualità spirituali e morali: noi dobbiamo anzi ritenere che una società in tanto progredisce ed è saldamente organizzata in quanto si avvicina a questo ideale: perchè l’essenza, l’anima della società è la volontà morale della sua unità, quella volontà cioè nella quale possono armonizzarsi e confondersi le volontà buone di tutti i singoli, ma che ha sempre la sua espressione più pura in una piccola minoranza delle anime migliori del tempo. Io andrò anzi più oltre e dirò: come l’umanità ha il suo fine supremo non nella vita morale soltanto che raccoglie i concordi voleri di tutti, ma anche e più in quella vita superiore che questo concorde volere rende possibile e che abbiamo chiamato vita religiosa, così nello stato ideale l’aristocrazia dominante dovrebbe essere non una aristocrazia morale, ma una aristocrazia religiosa. Si intenda però bene questo concetto! Per aristocrazia religiosa si dovrebbe intendere un piccolo numero di anime non soltanto pure da tutti i bassi desideri egoistici ed accese da uno spirito di carità profonda per gli uomini, anzi per tutti gli esseri viventi, ma conscie anche degli alti fini dell’uomo sulla terra ed ansiose soprattutto di rendere possibile al maggior numero di uomini quella intensità e profondità di vita interiore che sole rendono la vita degna di essere vissuta. Questa è una utopia certamente, è il regno dei filosofi, che Platone ha invocato e l’umanità ha vissuto una volta sola, sotto Marco Aurelio, l’imperatore filosofo. L’età nostra pratica e positiva può sorridere della utopia, ma lo spirito pratico e positivo è la malattia di cui muoiono le società da cui si è ritirata la vita interiore.
Ma se la costituzione naturale della società è la costituzione aristocratica, donde nasce quella infrenabile tendenza alla democrazia che sembra essere il carattere distintivo della età nostra? E se la legge della società è il progresso interiore che trasforma le aristocrazie barbariche nelle aristocrazie raffinate dello spirito, donde lo sconvolgimento materiale e morale che minaccia di travolgerci? Ogni aristocrazia in una società è come un organo nuovo in un organismo: si forma in seguito ad esigenze presenti e vitali, risponde a bisogni derivanti dalle condizioni del momento: poi si fissa, diventa stabile e persiste anche quando queste condizioni sono passate, anzi ad esse sono succedute delle condizioni nuove ed opposte, come un organo rudimentale che ostacola la vita ed il progresso. L’aristocrazia barbarica della forza rispondeva nelle origini a condizioni tali per cui l’unità violenta da essa introdotta era la sola unità possibile e quindi la unità che possedeva il più alto diritto che moralmente parlando: quante società, nelle interminabili e sanguinose lotte che precedono la storia, sono perite perchè in esse è mancata una minoranza coraggiosa, violenta e feroce che imponesse loro una legge di ferro! Ed è naturale che questa aristocrazia attribuisca a sè il possesso delle terre e lo sfruttamento dei greggi umani: questo era, nelle condizioni del tempo, un vero diritto morale in quanto era la sola forma che permettesse la sopravvivenza sociale e quindi lo svolgimento futuro di una vita veramente morale. Ma quando si vennero introducendo fra i gruppi umani altri rapporti e la lotta assunse altre forme e sorsero nel seno delle società nuove e più pure esigenze, la preminenza economica e giuridica di questo gruppo sociale diventò un’ingiustizia: si paragoni la nobiltà feudale che sotto Carlo Magno difende le frontiere dell’impero contro i barbari e quella che sotto Luigi XIV si accalca nei saloni della reggia a dissiparvi le ricchezze della nazione! In altre classi si accentra l’unità vitale del popolo: alla unità violenta ed esteriore si sostituisce una unità interiore di carattere morale che ha la viva coscienza di essere la ragione ideale di vivere per tutto il popolo. Allora all’antico diritto tradizionale si contrappone idealmente, nel pensiero di pochi prima, poi nel sentimento generale, un nuovo diritto ed all’antica aristocrazia in genere, una nuova aristocrazia ben conscia del suo valore e del suo diritto. Ma questa contrapposizione assume da principio una forma puramente negativa: il nuovo principio fa appello, nella lotta ineguale, alle forze di tutto il popolo e perciò la reazione sua appare come reazione di popolo, come sostituzione di una costituzione democratica alla oligarchia antica. Questo è del resto quanto si avvera in tutti i campi dello spirito; le leggi dello spirito sono dappertutto le stesse. Nella storia religiosa ogni concezione fondamentale è, nelle sue origini, qualche cosa di salutare e di vitale. Il mito stesso che è per noi diventato quasi un trastullo poetico, è la filosofia delle origini: il pensiero teologico di San Tomaso adunava al suo tempo quanto la coscienza scientifica e filosofica potevano convocare per la soluzione del problema delle cose. Ma in appresso queste concezioni persistono, si irrigidiscono, si oppongono come dogmi ai risultati viventi del pensiero che ogni giorno progredisce: ed allora abbiamo lo spettacolo che ci offre il dogma cattolico attuale, nel quale si sono fossilizzate verità antiche, salutari per il loro tempo, che oggi, almeno per la forma che rivestono, sono diventate un ostacolo alla nostra vita spirituale. Come ha luogo la reazione contro queste sopravvivenze? Per la negazione fatta fine a sè stessa. La conservazione superstiziosa provoca la ribellione scettica che nega la religione stessa come una stoltezza e che tuttavia non è, noi lo sappiamo bene, se non la preparazione negativa di una nuova costruzione positiva, di una nuova filosofia, di una nuova vita religiosa. Così anche la negazione democratica è nella sostanza una tendenza dissolutiva diretta contro una aristocrazia diventata moralmente insufficiente: la democrazia liberale contro l’aristocrazia feudale, che non è stata distrutta che in parte e che ci attraversa ancora, come un cadavere, la via; la democrazia sociale contro la aristocrazia curiale e industriale, che si è rapidamente dimostrata impari alle nuove esigenze morali del corpo sociale. Ma la direzione e il senso di questi movimenti sono al di là della loro negazione, nella preparazione spesso inconscia di una nuova aristocrazia che incarni la nuova unità morale sorta nella coscienza sociale: le convulsioni sociali presenti dovrebbero essere il travaglio del parto che accompagna la generazione di un nuovo ordine morale e di una nuova organizzazione ad esso rispondente.
Dico «dovrebbero essere» e non «sono», perchè quando il contrasto fra la costituzione antica e le esigenze nuove dello spirito sociale è diventata troppo grande, si hanno quelle violenti crisi negative che diciamo rivoluzioni, crisi che spesso sono salutari e che risolvono, come provvide operazioni chirurgiche, una situazione diventata insostenibile; ma che spesso mettono anche in pericolo la vita dell’organismo ed in ogni modo costituiscono sempre per lo stesso una scossa violenta dalla quale non potrà riaversi che dopo un certo periodo di tempo. L’origine di tutti i nostri mali presenti risiede precisamente nell’acuto squilibrio, che tutti sentono, tra le esigenze più delicate e più alte di una nuova coscienza sociale, che richiede un nuovo ordine ed un nuovo diritto, e la costituzione tradizionale che ci appare degenerata in una sistemazione iniqua di brutali volontà egoistiche, ma soprattutto nella incapacità, in cui il nuovo principio si trova, di affermarsi e di liberarsi: onde, come in un organismo in dissoluzione, l’unità centrale diventa ogni giorno più inadeguata al suo compito e le forze elementari che da ogni parte insorgono, minacciano di mandare in putrefazione l’intiero organismo sociale.
Questo rivela, agli occhi del clinico spietato, un male grave ed antico, una specie di affezione costituzionale, il cui esito è senza dubbio molto problematico. E le cause di questo grave stato non vanno cercate in fenomeni recenti che, come per esempio la guerra, sono stati essi medesimi indice ed effetto di condizioni più generali e più antiche e che in ogni caso non hanno creato, ma, accelerato e intensificato ciò che non avrebbe tardato anche senza di essi a rivelarsi. L’origine immediata del presente stato di cose va cercata nella riforma liberale che dal 1790 al 1850 circa ha parzialmente sostituito anche presso di noi all’antica costituzione ecclesiastica e feudale un nuovo ordinamento fondato essenzialmente sul concetto della libertà politica e civile e della eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Noi non possiamo anche ora, a tanta distanza di tempo, che riconoscere con gratitudine il valore di una riforma che ha liberato i nostri padri e noi da un giogo intollerabile: le anime generose che hanno ad essa consacrato le loro forze e la loro vita meritano che noi le ricordiamo con riconoscenza imperitura. Ma questo movimento aveva un vizio di origine: esso era un movimento puramente negativo. L’affermazione della libertà e della uguaglianza politica e civile fu una liberazione da privilegi odiosi ed ingiusti: essa distruggeva un ordine economico e politico non più corrispondente alla nuova anima sociale, ma non vi sostituiva nulla di nuovo in cambio: fedele all’ottimismo superficiale della filosofia rivoluzionaria, esso si illudeva che una volta messi gli uomini gli uni di fronte agi altri in stato di perfetta eguaglianza essi si sarebbero amati come fratelli ed avrebbero rinnovato sulla terra la età dell’oro: l’ingenuità delle prime costituzioni liberali è commovente, ma è anche un monumento di semplicità e di ignoranza delle vere condizioni della natura umana. I principii più alti a cui questa riforma faceva appello, sono i principii generali della moralità: la giustizia, la carità reciproca, l’amore della patria e della umanità. Principii alti e venerabili, ma che non si sorreggono da soli. Facendo appello a questi principii la riforma liberale mostrava chiaramente il suo spirito: essa voleva essere una riforma della società su basi morali, un riconoscimento di quella unità morale interiore che si era sostituita nella coscienza di tutti alla unità esteriore dell’antica società feudale. Ma essa non seppe tradurre questi ideali in istituzioni durature e veramente innovatrici: e questo avvenne perchè alla sua coscienza morale mancava il principio informatore e vivificatore, mancava il principio religioso. La vita morale può svolgersi nei suoi primi gradi anche senza alcun principio religioso: io riconosco negli stessi animali, questi umili fratelli nostri che sono così spesso vittima della nostra cecità e della nostra durezza, un principiò di vita morale; soprattutto nelle età irreligiose, come la nostra, la bontà morale può trasmettersi come una sopravvivenza spirituale che persiste nelle anime migliori in virtù di condizioni antiche le quali vivono soltanto nei loro effetti. Ma io nego che una bontà delicata ed alta possa costituirsi nell’uomo senza una coscienza religiosa: come posso io fare appello alla coscienza intima del dovere senza implicare almeno tacitamente che questa mia legge interiore si accordi con la grande legge del tutto? Soprattutto io nego che nella coscienza di un popolo possa svolgersi un’alta e ricca vita morale senza che essa riesca ad un movimento religioso delle coscienze: la coscienza morale da sè può dar luogo ad una momentanea effusione del sentimento, ma non crea nulla di stabile e come una vita isolata dal suo principio regredisce rapidamente verso i gradi inferiori. Questo vide solo fra noi, ed anche imperfettamente, Giuseppe Mazzini; ed anch’egli in questo punto fu rapidamente abbandonato dai suoi seguaci che soggiacquero, non meno degli altri, alla cecità comune.
Questa assenza del principio religioso nel nostro rinnovamento civile si spiega se pensiamo alle nostre condizioni storiche: da secoli l’Italia non ha più una vita religiosa. L’ultimo guizzo della attività religiosa si è avuto in Italia qui, tra noi, nella chiesa Catara dell’ultimo medio evo, chiesa che ebbe anche quì a Milano i suoi vescovi e che noi dobbiamo ricordare con reverenza. L’ortodossia dominante la estinse così completamente che a noi non giunse più nulla dei suoi scritti. Dopo di allora si sono avuti qua e là movimenti locali come la chiesa Valdese, nota per la sua eroica resistenza a secolari persecuzioni: ma la vita religiosa collettiva è stata una morta gora, in cui si sono estinte le migliori parti delle nostre energie spirituali. Anche la Riforma è stata per noi un movimento parziale ed aristocratico: i nostri riformatori furono spiriti isolati, perseguitati e costretti ad errare, poveri ed irrequieti, lontano dalla patria: la più radicale delle chiese riformate, la chiesa Sociniana, è stata, ricordiamolo, una creazione dello spirito italiano. Questa assenza di una coscienza religiosa innovatrice fece sì che nel periodo del nostro risorgimento civile anche i nostri spiriti più profondi, Rosmini e Gioberti per esempio, tardi o mai riuscirono a liberarsi dalle catene tradizionali del dogma: e intanto la grande maggioranza, posta nell’alternativa tra l’ortodossia e la negazione scettica, sceglieva risolutamente questa seconda via, che doveva condurci ad una rapida decadenza. In nessuna parte meglio si vede questa ambigua e stolta cecità del nostro pensiero liberale quanto nella sua attitudine di fronte agli studi religiosi. Sopprimendo le facoltà teologiche, esso veniva a lasciare in mano alla chiesa, che ne è incapace, il monopolio della coltura religiosa, dandole così una ragione di forza e di vita che essa per sè nella sua corruzione non avrebbe avuto: e d’altra parte rinunziava per sè allo strumento più efficace del progresso e del rinnovamento spirituale.
Questa insufficienza spirituale della riforma liberale ha avuto diversi perniciosi effetti. Il primo è che essa ha lasciato sussistere di fronte a sè la chiesa come potenza autonoma di fronte allo stato, organismo per metà spirituale e per metà politico che turba la stessa vita dello stato e che sotto l’aspetto spirituale non è più se non un cadavere che impedisce ed ammorba la nostra via. Non è certo ammissibile che lo stato debba sostituire la chiesa: lo stato è per essenza un organismo morale, non un’associazione religiosa. Ma esso deve proporsi di favorire la vita religiosa, pur lasciandole la maggiore libertà di svolgimento, come fa anche oggi per l’arte, la scienza e la filosofia. E lo stato può assolvere questo compito, che è per esso compito essenziale e vitale, da una parte provvedendo istituti spiritualmente indipendenti che si assumano le specifiche funzioni della vita religiosa; dall’altra curando che questo svolgimento non sia ostacolato da associazioni che per il loro interesse oppongano ad esso la potenza delle loro influenze materiali. A questa cecità del liberalismo di fronte al problema religioso dobbiamo la nostra strana posizione attuale di fronte alla chiesa: perchè mentre dobbiamo in essa riconoscere la depositaria delle tradizioni su cui si fonda la vita religiosa delle moltitudini e quindi un valore morale e spirituale indiscutibile sotto l’aspetto pratico, essa è nello stesso tempo il maggiore ostacolo alla creazione di una coscienza religiosa veramente viva e corrispondente alle nostre più alte esigenze morali ed intellettuali.
Un secondo effetto è questo: che la stessa riforma liberale è stata sotto l’aspetto politico, imperfetta e parziale. La società feudale sussiste in parte ancora intorno a noi in numerose istituzioni e nello stesso grande possesso fondiario ed agricolo. La rivolta del nostro proletario agricolo è un tumultuario tentativo di risolvere un problema che il liberalismo doveva risolvere e non ha risolto: e non bisogna cullarsi nella illusione che la società possa ritrovare il suo equilibrio prima che venga operata una radicale riforma nella questione del possesso fondiario ed agricolo, e finchè si continui a mantenere un diritto di proprietà che è nelle sue origini e nella sua natura di carattere feudale e che contrasta nel modo più assoluto con i nostri principî di giustizia sociale.
Ma l’effetto più pernicioso del principio liberale — quello di cui oggi massimamente soffriamo — è stata la degradazione morale che esso ha involontariamente introdotto per effetto dei suoi preconcetti egualitari e democratici. Misconoscendo la necessità di una organizzazione giusta, ma aristocratica, dello stato, esso ha posto nelle moltitudini il principio e il criterio della vita morale collettiva: ora il livello morale della moltitudine è, noi lo sappiamo, naturalmente basso. La perfezione discende dall’alto in basso: e non inversamente. Perciò passato il primo momento della esaltazione sentimentale, questa specie di rinunzia della minoranza a dirigere la società ha rapidamente prodotto i suoi effetti: nella moltitudine si è rinnovata la lotta per il dominio come alle origini della storia, ma entro i limiti concessi dalle premesse liberali della teorica eguaglianza degli individui e della superiorità della legge: alla violenza delle età barbariche si è sostituita nell’età nostra curiale e industriale la frode; ma il risultato è rimasto identico. Il dilagare del lusso, dell’immoralità, dell’imprevidenza, della grossolanità in ogni campo è il trionfo dell’uomo medio, è l’espressione sincera della natura della moltitudine. In queste condizioni trionfa chi sa approfittare delle debolezze e delle miserie della moltitudine: l’industrialismo e il curialismo che sono il portato naturale dei principii del liberalismo sono forse più sopportabili che l’oppressione feudale, ma non valgono moralmente molto di più. Nessuna meraviglia quindi che per un processo di dissoluzione interna, al quale assistiamo, essi riconducano rapidamente la società al regno della forza e preparino un nuovo avvento dell’antica barbarie.
Non è difficile certamente completare, in astratto, questa analisi delle nostre condizioni presenti con una indicazione del rimedio. Se le condizioni presenti sono dolorose, queste non lo sono, almeno immediatamente, per la moltitudine che si sprofonda, beata, nel fango dei suoi istinti animali, nè per la plebe profumata e ingemmata che sfrutta questi istinti. Chi ne soffre è la minoranza degli spiriti migliori che vede le cause profonde delle cose e sente le esigenze più pure dello spirito. E da questa minoranza soltanto può partire, se pure è possibile, il principio della rigenerazione. La quale non può consistere in altro che nel riprendere una chiara ed energica coscienza dei propri compiti e nel dedicare più intensamente e disinteressatamente ad essi la propria vita. Non è naturalmente nell’intento mio il delineare qui un programma di rigenerazione morale e religiosa. Questo esigerebbe ben altro tempo ed altre forze. Io mi limiterò ad insistere su due punti cardinali che ne costituiscono come i criteri fondamentali. Il primo è la rinuncia esplicita e completa alle fermole dello stato liberale e l’adozione del concetto dello stato morale, dello stato riformatore che ha la missione di regolare tutte le attività sociali e di promuovere, entro certi limiti, le stesse funzioni spirituali più alte. Le obbiezioni che vengono poste dal punto di vista economico non mi commuovono: per quanto noi dobbiamo mantenerci nelle condizioni reali delle cose e non pascerci di utopie, il partire dalla considerazione delle condizioni presenti degli organi dello stato per concludere che esso è inetto a compiere certe funzioni è un puro sofisma. Lo stato dovrebbe mettersi risolutamente sulla via non soltanto di una riforma economica radicale, ma di riforme altrettanto radicali nella sfera morale e sociale: vi sono piaghe, come per esempio nel campo sessuale la prostituzione e la larvata poligamia, come in altri campi l’alcoolismo, che rodono come un cancro l’organismo sociale e che non saranno mai guarite senza un energico intervento chirurgico dello stato. Per le stesse ragioni — oltre che per la mia esperienza personale — sono convinto avversario della libertà della scuola che oggi si chiede: io sono persuaso che lo stato nostro tenta con ciò una esperienza che espierà più tardi duramente.
Il secondo punto è il riconoscimento della necessità di un rispetto assoluto alla legge. Posto il principio che lo stato non è nè un sistema di interessi, nè un semplice tutore di interessi, ma una vera unità morale che ha il suo fondamento nella verità assoluta delle cose, il suo valore è un valore assoluto: esso solo è il diritto e di fronte ad esso ogni diritto scompare. Quindi non solo esso ha il diritto di riorganizzare economicamente la società secondo le più profonde esigenze morali (questo è il principio che anima in segreto tutto il movimento sociale odierno), ma ha il dovere di procedere in questo suo compito senza tener conto di diritti tradizionali che di fronte ad esso non esistono; ha in secondo luogo il dovere di opporsi nel modo più deciso alla costituzione di tutti quegli aggruppamenti di attività e di interessi che costituiscono come altrettanti stati nello stato e di fronte ai quali ha il diritto di dire come il Califfo Omar dinanzi alla biblioteca di Alessandria: «o essi coincidono con le mie volontà morali ed allora sono inutili, o sono contrari ed allora sono da distruggere». Questo è un punto degno del più alto rilievo specialmente nel momento nostro attuale in cui dinanzi alle forze occulte e palesi (grandi banche, grandi industrie, giornali, associazioni politiche) lo stato ha quasi abdicato ad ogni suo potere. Ma questo rispetto assoluto della legge deve anche esplicarsi nel modo più rigoroso contro gli individui, senza nessuna pietà, senza nessun falso umanitarismo. Kant scrive nella sua Filosofia del Diritto che la società dovrebbe far giustiziare il suo ultimo criminale anche se fosse sul punto di dissolversi: nello stesso modo possiam dire che la società dovrebbe far rispettare la legge anche se fosse nel procinto di perire: ciò che importa non è la società, ma la legge — e di fronte ad essa ogni considerazione di umanità e di pietà è falsa umanità e falsa pietà.
Ben più difficile sarebbe invece voler tracciare quali debbono essere le linee della condotta individuale. Anche qui mi limito a fissare due punti essenziali. Il primo punto è questo: che ogni attività individuale diretta verso la rigenerazione della coscienza religiosa deve esplicarsi socialmente, deve collegarsi nella azione di un gruppo di individui affini. La religiosità è una funzione sociale per eccellenza. Così hanno avuto origine tutte le grandi e piccole religioni: anche il Cristianesimo, anche il Buddismo sono stati in origine gruppi dispersi di piccole associazioni che più tardi si sono unite dando origine a vere chiese nel senso più ampio della parola. Un filosofò francese, M. Guyau, che in un memorabile libro ha cercato di tracciare le vie della coscienza religiosa dell’avvenire, vede precisamente in questa anomia, in questa libera associazione delle coscienze in piccoli gruppi, uno dei caratteri essenziali della religiosità futura. Il secondo è la necessità di una rigorosa disciplina, di una completa dedizione di sè stesso, della propria volontà e dei propri interessi. Non vi è nulla di più ridicolo della leggerezza superficiale di tanti che si atteggiano a riformatori ed apostoli facendo di questo loro atteggiamento uno sport antipatico e sapendo conciliare con molta prudenza con questo facile eroismo le esigenze e le comodità della vita. Dedicare sè stesso al miglioramento spirituale della umanità è cosa grave ed eroica: ce lo insegnano coloro che a quest’opera hanno fatto sacrificio di tutte le cose più caramente amate. Le ore che viviamo hanno qualche cosa di grave e di tragico: coloro che nobilmente aspirano a guidare l’umanità in questo difficile momento debbono avere coscienza di tutta l’asprezza e la grandezza del compito e sentirsi disposti ai sacrifìci più penosi.
Ma potranno ancora questi sacrifìci servire a qualche cosa? Vi è ancora una via di salute aperta? Questa è la domanda che sentiamo quotidianamente e che sorge spontanea anche alla fine di queste mie considerazioni. Certo questa è una domanda che può rendere pensoso ogni più sagace osservatore della realtà sociale: essa rende tanto più incerto il filosofo che vede troppo dall’alto le cose del mondo per poter anche solo avventurare su questo punto un giudizio. Del resto agli occhi del filosofo ciò è da un certo punto di vista profondamente indifferente. Anche nella sfera delle attività sociali vige il principio che le azioni valgono secondo la volontà, non secondo il risultato. Nessuna società, nessuna civiltà costituisce un valore assoluto: anche la vita d’un popolo non vale se non per la volontà superiore di cui esso si rende per una certa età lo strumento: essa appare all’individuo come qualche cosa di alto e di venerabile solo perchè è la condizione di un’altra vita più pura e più vasta, la cui continuità ci sfugge. Ora all’individuo non può mai essere tolto, qualunque sieno le condizioni esteriori in cui è chiamato ad agire ed a vivere, il contatto con questa realtà migliore: egli la realizza in sè quando segue la voce del dovere e tutto ciò che per questa via si realizza non è in fondo che strumento e materia del dovere. L’indifferenza ai risultati non infirma per ciò affatto l’obbligo che noi abbiamo di cooperare con quella volontà, di cui la stessa unità morale dello Stato è un grado ed uno strumento e che ha nella voce della coscienza la sua rivelazione individuale immediata: bisogna compiere anche in questa parte senza illusioni, ma con fede sicura, il proprio dovere: la sconfitta o il successo possono essere indifferenti a chi non vede nell’ordine sensibile altro che un simbolo ed inserisce in esso la propria azione senza timori nè speranze, solo per ubbidire ad una legge interiore inflessibile.
- ↑ Conferenze tenute a Milano nel 1920.