< Il continente misterioso
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13. I grandi calori dell'Australia centrale 15. Una traccia misteriosa

14.

IL DESERTO


Quelle parole le aveva pronunciate il dottore. Vedendo i due marinai attraversare di corsa il fiume e udendo poi quel primo colpo di fucile, era accorso credendo che inseguissero qualche indigeno scoperto fra i canneti.

— Giungete in buon punto, dottore — disse il mastro. — Ditemi, avete mai veduto un animale più brutto di questo?

— No, Diego — rispose Alvaro.

— Sapete almeno cosa sia?

— Un molak, un sauriano appartenente alla famiglia delle agame e che si conosce da soli pochi anni. Se ne uccise qualcuno nell'interno di questo continente.

— Non si trovano che in questo paese, questi molok?

— Solamente qui, Diego.

— Sono pericolosi?

— Non credo.

— Eppure le sue scaglie sono così dure, da fare rimbalzare una palla di fucile.

— Ciò mi sorprende, essendo quei pungoli ossei vuoti.

— Che sia buono da mangiarsi?

— Credo che nemmeno gli australiani lo divorerebbero, tanto è brutto.

— Allora lasciamolo ai dingos. Orsù, in ritirata.

— Un momento, mastro. Avete trovato dell'acqua?

— Nemmeno una goccia, dottore — rispose Cardozo.

— Ecco una brutta scoperta. Non ne possediamo che duecento litri.

— Non troveremo altri fiumi, più al nord o all'ovest?

— Saranno aridi.

— Nemmeno un lago?

— Quello di Wood, ma è assai lontano.

— Cosa si fa, adunque? — chiese Diego.

— Seguiremo il Finke fino all'Hugh, poi vedremo. Ritorniamo, amici, ho fretta di lasciare questi luoghi.

— Temete un altro assalto?

— Forse, Cardozo.

Ripassarono il fiume e ritornarono al dray. Niro-Warranga risalì a cassetta e la piccola carovana si rimise in marcia malgrado il calore torrido, seguendo le rive del Finke per avere, finché potevano trovarne, delle canne da dare agli animali. Alle quattro giungevano sulle rive dell'Hugh, grosso affluente del Finke che nasce sui versanti settentrionali dei monti Waterhnousen, ma era completamente asciutto. Cardozo però fu tanto fortunato da abbattere un cigno, che veniva dal nord diretto verso il sud.

Pesava almeno venticinque chilogrammi, ma invece di avere le penne candide come i suoi congeneri che s'incontrano sui fiumi dell'America settentrionale e dell'Europa centrale, le aveva oscure, quasi nere. Nemmeno gli uccelli, quello strano continente, aveva eguali a quelli degli altri!

Verso sera, Niro-Warranga arrestava il dray presso un gruppo di magri alberi, dalle foglie grigie, appartenenti alla grande famiglia degli eucalyptus. Appena fu vicino, balzò a terra e guardò con viva attenzione la corteccia di quegli semi-inariditi vegetali, facendo dei gesti di sorpresa e di paura.

— Ehi, Coco! — gridò il mastro. — Hai scoperto qualche delizioso frutto?

— Un terribile segnale, volete dire — rispose l'australiano, additando alcune frecce piantate sopra un pezzo di scorza d'albero, che portava delle strane incisioni.

— Cos'è — chiese il dottore, che era pure sceso dal dray.

— Una intimazione di guerra.

— Diretta contro chi?

— Contro di noi senza dubbio.

— Da chi?

— Dagli abitanti della regione.

— Ma se non abbiamo veduto neppur uno di questi abitanti — disse Cardozo.

— Ci avranno veduti loro.

— Tu ci narri delle frottole, Coco — disse il mastro.

— E io vi dico che ci si proibisce di avanzare.

— Me ne infischio, delle proibizioni di quei tisicuzzi urlanti.

— Potreste pentirvene.

— Cioè si pentiranno loro, quando la nostra mitragliatrice accarezzerà i loro dorsi.

— Vi consiglio di fermarvi.

— È impossibile, Niro-Warranga — disse il dottore. — Noi andremo innanzi, a dispetto di questi segnali di guerra.

— Vi uccideranno tutti, padrone.

— Venderemo a caro prezzo la nostra vita.

— E dovrò seguirvi io?...

— Per mille fulmini! — gridò il mastro. — Ci guiderai anche se non lo vorrai!

— Ma la mia vita...

— Sapremo difenderla noi, poltrone.

— Lo vedremo.

— Che ne dite, dottore — chiese Cardozo quando Niro-Warranga fu lontano.

— Che i selvaggi cercano di spaventarci.

— Andremo egualmente innanzi?

— Sempre, amici.

— E noi vi seguiremo — disse Diego.

— Vi raccomando però di fare buona guardia alla notte.

— Non temete, dottore — rispose Cardozo. — Dormiremo di giorno e veglieremo di notte.

Ritornarono all'accampamento, dove Niro-Warranga stava preparando la cena. Il mastro, che diventava ogni giorno più diffidente, guardò per bene in viso l'australiano, ma gli parve che fosse tranquillo.

— Lo terrò d'occhio — brontolò. — Qui succedono certi misteri, che non riesco a spiegarli.

Divorata la cena, il mastro montò il primo quarto di guardia, ma nulla di straordinario accadde, né vide alcuna ombra avvicinarsi all'accampamento. Cardozo, che lo sostituì, passò pure in perfetta calma il suo quarto; però, verso le tre del mattino, all'incerto chiarore degli albori, gli sembrò di scorgere una forma umana alzarsi sulle rive del fiume, e poco dopo un'altra forma che sembrava un animale o un uccello di dimensioni gigantesche. L'apparizione fu però così rapida, da non permettergli di assicurarsi se era stata una visione o la realtà. Temendo di cadere in un agguato, si tenne presso il carro; armò però lo snider e aprì per bene gli occhi. Le sue quattro ore trascorsero senza che l'apparizione tornasse a mostrarsi.

— È strano — mormorò. — Se non fossi certo che abbiamo percorso tanta via, giurerei che quelle forme rassomigliavano allo stregone e al suo struzzo. Bah! Sono pazzo a pensare a quell'uomo! Deve trovarsi ancora presso i monti Bagot o sulle sponde del Finke.

Era tanto convinto di essersi ingannato che non ne fece parola né al dottore, né a Diego, per non allarmarli inutilmente.

Alle sei, il dray si rimise in marcia seguendo la solita direzione. Tagliato il 134° meridiano presso il monte Charlotte, si spinse verso i monti James, le cui vette spiccavano nettamente verso il nord.

Il caldo era sempre opprimente, e dall'interno soffiava senza interruzione un vento ardente che disseccava le gole degli uomini e degli animali, e che assorbiva rapidamente la scarsa provvista d'acqua della piccola carovana. La grande pianura che si estendeva fino ai piedi dei monti era di una aridità spaventosa, senza un filo d'erba, cosparsa solamente di grossi sassi calcinati dai cocenti raggi del sole e di sabbie che il vento sollevava in grandi cortine, riempiendo gli occhi e le bocche dei viaggiatori, i quali venivano presi da furiosi accessi di tosse convulsa.

Quella sabbia era così impalpabile, che penetrava attraverso la bianca tela del dray e s'introduceva perfino dentro le casse.

A mezzodì, il termometro toccò i sessanta gradi!... I disgraziati viaggiatori cucinavano vivi, come se fossero dentro un forno acceso. Solo il selvaggio resisteva a quell'orribile calore e sfidava a testa nuda quella pioggia di fuoco. All'una un bue, fulminato da un colpo di sole, stramazzava al suolo per non più rialzarsi. Furono tagliati i legami, gli venne strappata la lingua che doveva servire da pranzo, e il suo cadavere venne abbandonato ai denti dei cani selvaggi.

Il dray continuò il cammino, trascinato lentamente dai poveri animali che muggivano e nitrivano raucamente. La pesante macchina scricchiolava come se fosse sempre lì per spezzarsi; le sue ruote cigolavano dentro le sale e i perni e si piantavano profondamente nel terreno sabbioso; le sue tavole erano così ardenti, che non si potevano toccare.

Il dottore e i due marinai, quantunque abituati ai calori equatoriali, giacevano sdraiati sulle casse come istupiditi e impotenti di fare qualsiasi movimento. Il loro cervello pareva che fiammeggiasse e i loro polmoni funzionavano furiosamente, senza mai riempirsi; l'aria che entrava era così ardente, che i disgraziati si sentivano disseccare.

Alle due il termometro toccò i 65° e un altro bue cadde, ucciso da una fulminea insolazione.

— Corna di cervo! — esclamò il mastro, con voce rauca. — Se continua questo calore per due altre ore, noi resteremo senza animali. Singolare deserto!... E non si vedono che pietre e sempre pietre!... Bel momento se i selvaggi ci dessero addosso!...

Fortunatamente quel calore terribile, dopo d'aver toccato i 65° scemò lentamente fino ai 50°. Uomini e animali poterono finalmente respirare e riacquistare un po' di energia, ma il deserto continuava a estendersi dinanzi a loro e pareva che non dovesse cessare tanto presto.

Alle sette, il dray attraversava la catena dei monti James, in una gola aperta dall'Hugh, il quale scendeva dal settentrione con dei larghi serpeggiamenti, ma senza contenere un sorso d'acqua.

Usciti da quel passo, scopersero la catena dei Waterhnousen, ma anche quella era aridissima e non si scorgeva, nelle sue valli, la più piccola traccia di vegetazione. Il sole aveva tutto bruciato su quel vasto territorio e aveva perfino fatte morire le grandi piante, i cui tronchi, spogli di foglie e di cortecce, si rizzavano come tanti scheletri sui fianchi delle montagne.

L'indomani la penosa marcia venne ripresa due ore prima dello spuntare del giorno. Nella celerità stava la loro salvezza, poiché gli animali, privi di alimento, stavano per cadere per non più rialzarsi e la provvista d'acqua calava a vista d'occhio. Se fra due giorni non giungevano a qualche sorgente o a qualche ruscello, avrebbero dovuto abbandonare il dray in mezzo al deserto. Aizzando i buoi e i cavalli si spinsero fino ai monti Waterhnousen che attraversarono con incredibili fatiche, superarono il fiume Mueller, affluente dell'Hugh, e si diressero verso la grande catena dei monti Mac-Donnell, nelle cui valli speravano di trovare un po' di pastura e qualche corso d'acqua.

Alle undici, Diego, che si era rialzato per esaminare il paese circostante, additò al dottore delle masse oscure che si disegnavano ai piedi dei monti.

— Sono alberi — disse il dottore.

— Siete certo di non ingannarvi?

— Certissimo, Diego.

— E sperate di trovare acqua?

— Ne troveremo.

— Avanti, Niro-Warranga! Ma... toh! cosa significa questa distesa di terra rossa?

— Significa, amico Diego, che noi passeggiamo sopra un grande giacimento aurifero, sopra un vero placer.

— Scherzate, dottore?

— Parlo sul serio, mastro. Sotto i nostri piedi vi sono forse parecchi milioni.

— Che disgrazia non potersi fermare qui e caricarsi d'oro. Che vi siano anche dei diamanti?

— Non lo credo; in Australia non se ne sono finora scoperti.

— Ditemi, dottore — chiese Cardozo. — L'oro è il metallo più prezioso che esista?

— Mai più, amico mio; vi sono altri metalli che costano assai di più. È un errore il credere che l'oro sia il più prezioso.

— Oh! — esclamò Diego. — Questa è una novità per me, dottore.

— E anche per i più, mastro — rispose Alvaro.

— E quali sarebbero, di grazia, questi metalli più preziosi?

— Ti accontento, curioso. Come già saprai, l'oro si paga comunemente 3500 lire al chilogrammo; l'irìdium, che è un metallo scoperto nelle miniere di platino nel 1803, da Tennant, costa invece 6000 lire e anche 6500 al chilogrammo.

— Quasi il doppio!...

— Oh, questo è nulla, vi sono dei metalli che costano assai di più.

— Ma che metallo è questo Iridium?

— Un metallo bianco come l'acciaio, che riflette i colori dell'arcobaleno e che è raro assai. L'Osmium, che si trova pure assieme al platino e che ha un colore bianco-azzurrognolo, si paga pure circa 6500 lire al chilogrammo; il Barium scoperto da Davy nel 1808 e che si trova nelle terre di barite e che è bianco come l'argento, si paga circa 40.000 lire al chilogrammo.

— Lampi e tuoni! è ben raro quel metallo!

— Il columbiam o Niobium, scoperto da Rose nel 1844 e il Rhodium, scoperto da Wollaston nel 1803, costano 20.000 lire ciascuno; il Ruthenium, scoperto da Claus nel 1843 e che assomiglia assai all'Indiani, costa 14.000 lire; il Palladium, scoperto dal Wollaston nel 1803 e che si trova ora assieme al platino ed ora assieme all'oro del Brasile e che ha le forme di piccoli granelli, costa 4500 lire; l'Yttrium, stato trovato per la prima volta a Steerby in Scandinavia e che è molto raro, costa 25.000 lire il chilogrammo; lo Strontium, scoperto da Davy nella Scozia nel 1808, che ha un colore giallo-pallido e abbrucia producendo una luce bianca intensa, si paga 35.000; il Glycium o Beryllium, 34.000; il Lithium, che è il più leggero di tutti i metalli, 25.000; il Vanadium, scoperto nel 1830 da Sefstrocin nella Svezia, che è bianco come l'argento e d'uno splendore meraviglioso che non si offusca mai, costa 22.000 lire e il Didym, scoperto da Mosander nel 1840, costa più di tutti poiché il suo prezzo tocca le 42.000 lire al chilogrammo.

— Mille vascelli!... che prezzi!...

— Il bosco! — gridò in quell'istante Niro-Warranga.

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