Questo testo è completo. |
◄ | Libro secondo - IV | Libro secondo - VI | ► |
Cap. V
Del diritto di vita e di morte.
Taluno chiede come mai i particolari, i quali non hanno il diritto di disporre della loro propria vita, possano trasmettere al sovrano quel diritto stesso che eglino non hanno. Questo quesito sembra difficile a risolversi, perchè mal posto. Ogni uomo ha il diritto di arrischiare la propria vita per conservarla. Si è forse mai detto che quegli il quale per campare da un incendio si butta giù da una finestra, sia colpevole di suicidio? Si è forse imputato mai questo delitto a colui, il quale perisce in una tempesta, di cui imbarcandosi non ignorava il pericolo?
Il trattato. sociale ha per fine la conservazione dei contraenti. Chi vuole il fine vuole eziandio i mezzi, e questi sono inseparabili da alcuni rischi ed anche da alcuna perdita: Chi vuole conservare la sua vita a spese altrui, deve pure donare la propria per essi ove faccia d’uopo. Ora, il cittadino non è più giudice del pericolo cui la legge impone di esporsi; e quando il principe gli ha detto: è utile allo stato che tu muoia, ci deve morire, poichè a questa condiziorie soltanto ei visse sicuro fino allora, e perciò la sua vita non è più solamente un benefizio della natura ma un dono condizionale dello stato.
La pena di morte inflitta ai delinquenti può considerarsi press’a poco sotto il medesimo punto di vista: per non esser vittima di un assassino, l’uomo si rassegna a morire ove tale diventi. In questo trattato, lungi dal disporre della propria vita, non si pensa che a guarentirla, e non si deve presumere che alcuno dei contraenti premediti allora di farsi impiccare.
Inoltre qualunque malfattore affrontando il diritto sociale diventa per i suoi delitti ribelle e traditore della patria; cessa d’esserne membro violando le sue leggi, anzi le muove guerra. Allora la salute dello stato diviene incompatibile colla sua, bisogna l’uno dei due perisca, e quando si manda al patibolo il colpevole, lo si manda non tanto come cittadino quanto come inimico. Le procedure, e il giudizio sono le prove e la dichiarazione, che egli ruppe il trattato sociale e per conseguenza non è più membro dello stato. Ora siccome ei si riconobbe tale almeno almeno col suo soggiorno, così ei deve esserne interdetto o coll’esiglio quale violatore del patto o colla morte quale nemico pubblico; imperciocchè un tale nemico non è una persona morale; è un uomo, ed allora appunto si mena buono il diritto della guerra di ammazzare il vinto.
Ma dirassi che la condanna di un delinquente è un atto particolare. Sì, nè questa condanna spetta al sovrano, ma è un diritto che egli può conferire senza poterlo esercitare egli stesso. Tutte le mie idee si collegano, ma non saprei esporle tutte in una volta.
Del resto, la frequenza dei supplizi è sempre un segno di debolezza o d’infingardaggine nel governo. Non vi è uomo malvagio che non si possa render buono a qualche cosa. Non si ha diritto di far morire nemmeno per l’esempio, eccetto quello che non si può conservare senza pericolo.
Riguardo al diritto di far grazia o di francare un colpevole dalla pena inflittagli dalla legge e pronunciata dal giudice, questo diritto non appartiene se non a quello che sta sopra al giudice od alla legge, cioè al sovrano; e nè anco questo suo diritto è ben chiaro, e rarissimi sono i casi in cui debba farne uso. In uno stato ben governato succedono poche punizioni non perchè si faccia sovente grazia, ma perchè vi sono pochi delinquenti: la moltiplicità dei delitti ne assicura la impunità quando lo stato è in decadenza. Nella romana repubblica nè il senato nè i consoli non tentarono mai di far grazia: il popolo stesso non ne faceva quantunque alcuna volta rivocasse il proprio giudizio. Il far grazia frequentemente è segno che tra breve i delitti non ne avranno più bisogno, e ciascuno vede dove ciò conduca. Ma io sento che il mio cuore mormora e raffrena la mia penna: lasciamo discutere queste cose all’uomo giusto che non ha peccato, e che non mai ebbe bisogno di grazia.