< Il diavolo
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Capitolo X.


L’INFERNO.




Immaginate un mondo spartito in tre piani. Nel piano di sopra è il paradiso, la reggia di Dio, la dimora degli angeli e dei beati, sfolgorante di luce, risonante d’ineffabili armonie, odorosa di fiori immarcescibili; è il regno della santità incorruttibile e della eterna letizia. Nel piano di mezzo è questo mondo terreno, popolato da una umanità decaduta e dogliosa, che pecca anelando al riscatto, e spasima sognando beatitudine; è il regno della perpetua vicenda, del cimento sempre rinovellato nella mescolanza del bene e del male. Nel piano di sotto è l’inferno, la voragine tenebrosa, dove Satana e gli angeli suoi, con l’infinito popolo dei dannati, pagano alla divina giustizia un debito che mai non si salda; è il regno del peccato irreparabile, della scelleratezza irredimibile, del dolore smisurato, disperato ed eterno. A quest’ultimo regno è congiunta una regione dove il peccato si ripara e si purga, dove il dolore è alleviato dalla speranza; è il purgatorio, vestibolo bujo del cielo radioso.

Il regno di mezzo è come un vivajo immenso di anime, le quali ininterrottamente ne emigrano, spartite in doppia corrente, l’una che sale al cielo, l’altra che scende all’inferno. Satana e la innumerevole sua milizia non intendono ad altro fine, non ad altro usano l’arte e la malvagità loro, che a trarre all’ingiù quante più anime possono, a popolare l’inferno a scapito del paradiso. E della loro riuscita in tale intento non si possono lagnare.


Ma dov’era propriamente l’inferno? Dice sant’Agostino, nel suo libro della Città di Dio, che nessun uomo lo può sapere se Dio stesso non glielo ha rivelato. Ciò non tolse tuttavia che le più disparate e le più strane opinioni fossero espresse in proposito; e il regno dei dannati fu posto nell’aria, nel sole, nella Valle di Giosafat, sotto i poli, agli antipodi, dentro ai vulcani, nel centro della terra, nell’ultimo Oriente, in isole remote, perdute in grembo di oceani sconosciuti, o, a dirittura, fuori del mondo. Qualche esempio a tale riguardo potrà bastare. Gregorio Magno racconta di un solitario dell’isola di Lipari, che vide una volta il papa Giovanni e Simmaco precipitar nella bocca di quel vulcano l’anima di Teodorico. Alberico delle Tre Fontane, cronista francese morto nel 1241, dice, parlando dell’Etna, che le anime dei dannati erano quivi portate quotidianamente a bruciar tra le fiamme. Aimoino, monaco di Fleury sul finire del secolo X, e Cesario di Heisterbach, narrano fatti e storie consimili. San Brandano, navigando fuori dei termini del mondo conosciuto, vide un’isola ignivoma, dove demonii in figura di fabbri ferrai martellavano sulle incudini le anime arroventate. Nell’Huon de Bordeaux, poema francese del secolo XIII, si dice che l’inferno è in un’isola chiamata Moysant, e nell’Otinel, altro poema pure francese, che esso è posto sotto la Tartaria. Ugone d’Alvernia trova l’adito infernale nell’ultimo, favoloso Oriente.

L’opinione più comune tuttavia, e nel tempo stesso più naturale, era quella che poneva l’inferno nelle viscere della terra, conformemente a quanto già avevano creduto gli antichi. Così l’abisso era spalancato, insidia e minaccia perpetua, sotto ai piedi dei peccatori e dei giusti, e la corteccia terrestre diveniva un tenue solajo che trepidava e fremeva per l’impeto delle fiamme penaci e pel mugghio degli eterni tormenti. La terra, illuminata fuori dal sole, lieta di floridi campi e di selve, rorida di acque, era come un frutto bacato che, sotto vaga buccia, abbia fradicio il midollo; era com’un di quei pomi che a detta dei viaggiatori nascevano sulle rive del Mar Morto, e che coloriti e odorosi di fuori, erano, dentro, pieni di cenere. Il baco che aveva ròsa e guasta la terra era Satana, cui Dante chiama il verme reo che il mondo fora, e alla cui caduta dal cielo fa seguire, con mirabile fantasia, la formazione del baratro infernale.

L’inferno doveva avere le sue bocche e i suoi aditi, necessarii, se non altro, al disimpegno di quelle mille faccende che i diavoli avevano, al loro andare, venire, frullare perpetuo. Negli Evangeli è cenno di porte dell’inferno che non prevarranno contro la Chiesa; Cristo, accingendosi a penetrar nei regni buj, grida ai principi delle tenebre di aprir quelle porte, e non obbedito, le infrange. Dove fossero non si sa con certezza. Gervasio di Tilbury dice ch’eran di bronzo, e che si vedevano ancora, così infrante, in fondo a un lago, presso Pozzuoli. Dante entra in inferno per una porta senza serrame, su cui si leggono le parole di colore oscuro. Altre entrate ad ogni modo non mancavano. Più di una caverna tortuosa e cupa, più di una voragine sprofondante sotterra, fu creduta una bocca dell’inferno, e se alcuni pensavano che dentro i vulcani abitassero i demonii e fossero tormentate le anime dannate, altri dicevano i vulcani essere più propriamente bocche e spiracoli dell’inferno, d’onde esalavano gli ardori e il fumo dell’eterna fornace. In Irlanda il famoso pozzo di San Patrizio metteva in purgatorio e in inferno. Nè mancavano, oltre gli aditi ordinarii e stabili, gli straordinarii e avventizii. Il suolo si lacerava per lasciar passare i demonii, o per ingojare vivi gli scellerati maggiori. L’inferno era come un mostro immane sul cui corpo si moltiplicavano le bocche, avide di procacciare nuova pastura al ventre voraginoso. Non senza ragione dunque si vede rappresentato l’inferno, nelle pitture e nei misteri del medio evo, sotto la forma di una mostruosa bocca di drago che divora anime e vomita turbini di fiamme e di fumo.


L’inferno è il regno del dolore e del bujo, come il paradiso è il regno della letizia e della luce. Le tenebre vi sono dense, profonde, fatte in qualche modo consistenti. La dolorosa valle d’abisso, dice Dante,

Oscura, profond’era e nebulosa,
     Tanto, che per ficcar lo viso al fondo,
     Io non vi discernea nessuna cosa.

Essa è il cieco mondo, il loco d’ogni luce muto, la cui eterna caligine è rotta solo dai sanguigni lampeggiamenti di quei nembi e vortici di fiamme, dal corruscare delle brage ammontate, dei metalli colati. Non mancò del resto chi disse il fuoco infernale aver l’ardore e non la luce, esser nere le fiamme che mai non si spengono.

Il regno della morta gente è vasto e profondo, come si conviene all’infinito popolo che vi si accoglie. In un antico poema anglosassone si dice che Cristo ordinò a Satana di misurarlo, e Satana trovò che dal fondo alla porta correvano 100,000 miglia. Giova per altro avvertire che il gesuita Cornelio a Lapide (1566-1637), autore di dieci volumi di commento sopra la Sacra Scrittura, afferma non avere l’inferno più di dugento miglia italiane di larghezza. Un buon teologo tedesco andò più in là e calcolò che una capacità di un miglio per ogni verso basta a centomila milioni d’anime dannate, le quali non hanno già a stare al largo e a loro agio, ma le une sulle altre, pigiate, come le acciughe nel barile, o gli acini dell’uva nel tino.

Dante ci descrive un inferno geometricamente costruito, diviso in cerchi, che facendosi sempre più angusti, vanno digradando verso il centro della terra. Tale struttura si ritrova in alcuni degli imitatori del divino poeta, ma non in quelli che si possono in qualche modo chiamare precursori suoi, negli autori delle Visioni. Qui l’inferno descritto rassomiglia a una regione terrestre, salvo che è più orribile assai d’ogni più orribile luogo che conoscano gli uomini, e non vede mai lume di cielo. Vi si trovano montagne dirupate ed ignude, valli asserragliate e ronchiose, precipizii spalancati, foreste d’alberi strani, laghi color di bitume, paludi putride e tetre. Lo traversano per lungo e per largo fiumi pigri o impetuosi, alcuni dei quali scaturiti dalle viscere dell’Averno antico, l’Acheronte, il Flegetonte, il Lete, il Cocito, lo Stige, che anche Dante descrive, o ricorda.

Non mancavano nel doloroso regno le città e le castella. Dante dipinge la città di Dite, vallata d’alte fosse, con le torri eternamente affocate, con le mura di ferro. Spesso l’inferno tutto intero è considerato come una gran città, che prende il nome di Babilonia infernale, e si oppone alla Gerusalemme celeste, come Satana si oppone a Dio. Immaginate, dice san Bonaventura, una città vasta ed orribile, profondamente tenebrosa, accesa di oscurissime e terribilissime fiamme, piena di clamori spaventevoli e di urla disperate; tale è l’inferno. Un poeta francescano del secolo XIII, Giacomino da Verona, descrisse in due suoi poemi assai rozzi, ma accesi di fede, le due città contrarie, l’una a riscontro dell’altra. La Gerusalemme celeste è cinta d’alte mura, fondata di pietre preziose, munita di tre porte più lucenti che stelle, adorna di merli di cristallo. Le sue vie e le sue piazze sono lastricate d’oro e d’argento; i palazzi risplendono nello sfoggio dei marmi, dei lapislazzuli, dei metalli preziosi. Acque cristalline corrono per ogni banda e dànno alimento ad alberi meravigliosi, a fiori soavissimi: l’aria pervasa da un lume divino, è tutta un olezzo, e vibra di armonie sovrumane. Ben diversa da quella è la Babilonia infernale,

La cità è granda et alta e longa e spessa,

coperchiata da un irrefrangibile cielo di ferro e di bronzo, murata tutt’intorno di macigni e di monti, corsa da torbide acque più amare che il fiele, piena d’ortiche e di spine acute e taglienti come coltelli, divorata da un furioso e perpetuo incendio. L’aria vi è pregna d’incomportabile puzzo, sonante di spaventoso fragore.

Tra le cose più notabili di quella terra maledetta è, per testimonianza di molti, un ponte sottilissimo su cui debbono passare le anime, e d’onde precipitano nel baratro sottostante tutte quelle cui grava troppa soma di peccati: immaginosa finzione del lontano Oriente venuta a cacciarsi, non si sa come, nelle Visioni cristiane del medio evo, se pure non sorse spontanea tra noi, come sorse spontanea laggiù.

Il doloroso regno ha la sua topografia; ma ha ancora la sua meteorologia, la sua flora e la sua fauna. Lo infestano venti impetuosi, gelidi gli uni, gli altri infocati, piogge dirotte che mai non ristanno, grandine e neve. Le piante cui nutre l’orribile suolo, sono irte di spine e recan frutti gonfii di tossico. Gli animali, o sono tali veramente, o son demonii contraffatti, Cerbero, Gerione, cani rabbiosi, draghi, vipere, rospi, insetti nauseabondi.

In inferno capitavano anime d’ogni qualità e condizione, anime di papi e d’imperatori, di frati e di cavalieri, di mercanti e di giullari, di donne impudiche e di fanciulli malvagi; tutte le classi, tutte le professioni gli pagavan tributo e tributo larghissimo. Il cómpito principale dell’umanità, il fine de’ suoi lunghi travagli pareva esser quello di vettovagliare l’inferno. Le anime, o erano catturate e trasportate dai diavoli, o precipitavano nell’abisso come tratte da una specifica, gravità di peccato. Un eremita dell’ottavo secolo, san Baronto, vide i demonii portar l’anime in inferno con la frequenza che mostrano le api, quando, fatto il loro bottino, se ne tornano all’alveare; sant’Obizzo (m. c. 1200) vide cader le anime in inferno fitte come neve, e santa Brigida dice in una delle sue Rivelazioni che le anime le quali piombano ogni giorno in inferno sono più numerose delle arene del mare. Quante ce n’entrano in paradiso? Nessuno lo dice.

Molte volte furono vedute le turbe dei diavoli portare le anime a volo per l’aria. Così ne fu portata l’anima di Rodrigo, ultimo re dei Goti di Spagna; così quelle di molti altri scellerati, pari suoi. Ma i demonii, anche in ciò mutavano modo volentieri. Certi monaci, racconta Giacomo da Voragine, stavano una volta, prima dello spuntar del giorno, sulla riva di un fiume, e s’intrattenevano in frivoli ed oziosi discorsi. A un tratto veggono venir oltre, sull’acqua, una barca piena di remiganti, i quali remavano con grandissimo impeto. “Chi siete voi?„ chiedono essi. E quelli: “Noi siam demonii, che portiamo all’inferno l’anima di Ebroino, maggiordomo di Neustria.„ Udendo ciò i monaci allibiscono di terrore, e gridano: “Santa Maria, ora pro nobis!„ ― “Voi fate bene a invocar Maria,„ dicono i demonii, “perchè era nostro pensiero di lacerarvi e di sommergervi in punizione di questo vostro cicalar dissoluto e fuor di tempo.„ I monaci non se lo fan ripetere, e tornano al convento, mentre i demonii si affrettano alla volta d’inferno.


Del resto i diavoli non si contentavano di portarsi via le anime; ma spesse volte rapivano vivi gli scellerati, anima e corpo. Cesario di Heisterbach racconta di un soldato della diocesi di Colonia, giocatore arrabbiato, il quale una volta giocò a dadi col diavolo e perdette: per rifarlo della perdita, il diavolo se lo portò via attraverso il tetto della casa, lasciandone gl’intestini attaccati alle tegole.

Per compiere tali rapine il diavolo prendeva volentieri la forma di un cavallo nero, o di un cavaliere montato sopra un cavallo nero. Un giorno Teodorico, vecchio oramai, si stava bagnando, quando udì uno de’ suoi famigli gridare: “Laggiù corre un cavallo nero di tanta bellezza e vigoria ch’io mai non vidi l’eguale.„ Il principe barbaro balza fuori dell’acqua, si copre alla meglio e comanda che tosto gli si conducano il suo proprio cavallo e i suoi cani. Ma tardando i servi a tornare, egli, impaziente, salta sul cavallo nero, il quale tosto si mette a fuggire, più rapido di un uccello. Lo insegue, ma indarno, con tutti i cani sguinzagliati, il miglior cavaliere della scorta. Teodorico, sentendo essere nel cavallo che lo rapisce alcun che di soprannaturale, si sforza di scendere, ma non può. Il cavaliere da lungi gli grida: “Signore, perchè corri tu in cotal guisa, e quando farai ritorno?„ e quegli: “È il diavolo che mi porta. Tornerò quando piacerà a Dio e alla Vergine Maria.„

Jacopo Passavanti racconta nel suo Specchio della vera penitenza: “Leggesi iscritto da Elinando, che in Matiscona fu uno conte, il quale da uomo mondano e grande peccatore, contro a Dio superbo, contro il prossimo spietato e crudele. Et essendo in grande stato, con signoria e colle molte ricchezze, sano e forte, non pensava di dovere morire, nè che le cose di questo mondo gli dovessero venir meno, nè dovere essere giudicato da Dio. Un dì di Pasqua, essendo egli nel palazzo proprio attorniato di molti cavalieri e donzelli, e da molti orrevoli cittadini, che pasquavano con lui; subito uno uomo iscognosciuto, in su uno grande cavallo, entrò per la porta del palazzo, senza dire a persona niente; e venendo in sino dove era il conte con la sua compagnia, veggendolo tutti e udendolo, disse al conte: Su, conte, lévati su e séguitami. Il quale, tutto ispaurito, tremando si levò, e andava dietro a questo isconosciuto cavaliere, al quale niuno era ardito di dire nulla. Venendo alla porta del palazzo, comandò il cavaliere al conte, che montasse in su uno cavallo che ivi era apparecchiato; e prendendolo per le redini e traendolosi dietro, correndo alla distesa, lo menava su per l’aria, veggendolo tutta la città, traendo il conte dolorosi guai, gridando: Soccorretemi, o cittadini, soccorrete il vostro conte misero, isventurato. E così gridando, sparì dagli occhi degli uomini, e andò a essere senza fine nello inferno co’ demonii.„ Prima che dal Passavanti e da Elinando, si trova narrata una storia in tutto simile da Pietro il Venerabile nel suo libro De Miraculis.

In questo lor mestiere d’acchiappar le anime, o anche gli uomini vivi, i diavoli non la guardavano tanto pel sottile, e spesso mettevan le mani addosso a chi non dovevano. Morto l’imperatore Enrico II, un eremita vide una turba di diavoli portarne l’anima, sotto forma di un orso, al giudizio, che riuscì favorevole al prigione. Gregorio Magno racconta la storia di certo uomo nobile per nome Stefano, il quale, essendo in Costantinopoli, subitamente ammalò e morì. Condotto dinanzi al giudice infernale, il morto udì questo gridare: “Io ho ordinato di portar giù Stefano ferrajo e non costui.„ Incontanente fa ritorno al mondo Stefano nobile, e Stefano ferrajo muore in suo luogo. Altri esempii, e più strani ancora, di anime mandate e rimandate non mancano. Eccone uno raccontato da Tommaso Cantipratense. Muore un fanciullo disobbediente, e i diavoli ne ghermiscono l’anima per portarla in inferno. Sopraggiunge l’arcangelo Michele, che la toglie loro, e la porta in cielo. Quivi un vecchio (certamente san Pietro) si oppone al suo ingresso, e ordina a Michele di rimetter l’anima nel corpo suo.


All’inferno era facilissimo andare come inquilino perpetuo; difficilissimo, per contro, l’andarci come semplice visitatore. Ciò nondimeno molti lo visitarono, a cominciare dalla Vergine Maria, che vi andò accompagnata dall’arcangelo Michele, e da numerosa schiera di angeli, secondo è narrato in certa apocalissi greca. Subito dopo lei v’andò san Paolo, secondo una leggenda molto divulgata nel medio evo, e che Dante certamente conobbe. Sì fatte discese nel regno dei dannati solevano essere effetto della divina grazia, sollecita della salute di alcun peccatore, o di quella di un intero popolo, dimentico dei precetti e degli ammonimenti divini; ma non sempre la grazia c’entrava, almeno in modo diretto. San Gutlaco, di cui ho già ricordato più di una volta il nome, è assalito nella sua cella, una notte, da una legione di diavoli, che con molti tormenti lo trascinano a vedere le pene dell’inferno. Ugone d’Alvernia, l’avventuroso cavaliere, va in inferno per ordine espresso del suo re, che voleva tributo da Lucifero. L’anno 1218 un conte di Geulch offre gran premio a chi sappia dargli notizia della condizione del padre, morto poco innanzi. Un intrepido cavaliere offre i suoi servigi, scende con l’ajuto di un negromante in inferno, e quivi trova il vecchio conte, il quale dice che le pene gli saranno alleviate, se si restituiranno alla Chiesa certi beneficii da lui tolti indebitamente. Quando la grazia divina operava in modo diretto, un angelo soleva guidare il visitatore.

La visita poteva compiersi in ispirito soltanto, e anche corporalmente. Nel primo caso si aveva la visione propriamente detta; nel secondo, una vera e propria peregrinazione. Le visioni toccavano di solito a chi era in istato di sovreccitazione mentale, o spossato da lunga infermità: mentre l’anima viaggiava per conto suo, il corpo rimaneva in istato di profondo letargo, simile alla morte. Io non debbo qui entrar nell’esame delle condizioni psicologiche e patologiche del fenomeno; mi basta di recar qualche esempio. San Furseo, monaco irlandese del settimo secolo, essendo ammalato da tre giorni, fu condotto a vedere le pene dell’inferno da degli angeli, preceduti da un altro angelo, che aveva una spada sfavillante e uno scudo luminoso. Una notte, Carlo il Grosso stava per coricarsi, quando, udì una voce terribile gridargli: “Carlo, l’anima tua lascerà il corpo, e sarà condotta a vedere i giudizii di Dio;„ e così fu. Alberico, figliuolo di un barone della Campania, fu soprappreso, all’età di nove anni, da un deliquio che durò nove giorni, durante il qual tempo, guidato da san Pietro e da due angeli, visitò l’inferno e il paradiso. L’anno 1149, un cavaliere irlandese per nome Tundalo, uomo empio e di mali costumi, fu pressochè ucciso con un colpo di scure da un suo debitore. Rinsensato, raccontò ciò che aveva veduto delle cose dell’altro mondo. Altri invece, come Ugone d’Alvernia e Guerino il Meschino, già ricordati, e il cavaliere Owen, andarono all’inferno in carne ed ossa, imitando gli esempii di Ulisse e di Enea. Dante v’andò allo stesso modo.

Comunque ci si andasse del resto, col corpo o senza il corpo, l’andata non era senza periricolo: san Furseo portò tutto il tempo di vita sua le tracce del fuoco infernale che l’aveva tocco. I demonii vedevano assai mal volentieri aggirarsi pel regno loro chi non doveva restarci, e si studiavano di nuocere in tutti i modi agli intrusi. Essi tentarono di uncinar Carlo il Grosso con uncini arroventati, e di afferrare con ignee tenaglie un buon uomo di Nortumbria di cui narra la visione il Venerabile Beda. Il giovane Alberico, il cavaliere Owen, altri assai, furono da loro in varii modi minacciati o tormentati. Senza l’ajuto di Virgilio e del messo celeste, Dante si sarebbe trovato più d’una volta a mal partito.

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