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Capitolo IX.
LA MAGIA.
Coloro che facevano patti col diavolo molto spesso li facevano per potere esercitare le arti illecite della magia; ma il patto non sempre importava quell’esercizio, e quell’esercizio poteva andar senza il patto. Mi spiego. C’erano casi in cui il demonio volenterosamente si obbligava di fare quanto dal mago gli fosse richiesto, a patto che questi gli desse l’anima in premio; e c’erano casi in cui il mago, in virtù dell’arte propria, forzava il demonio a fare ciò che per sè stesso il demonio non avrebbe nè dovuto, nè voluto. C’erano, come si vede, due magie, che gli scrittori non distinguono abbastanza, ma che quanto alle origini, se non quanto agli effetti, erano profondamente diverse; l’una prodotta da un volontario assoggettamento della potenza diabolica all’arbitrio dell’uomo, l’altra nascente da un vero e proprio dominio acquistato dall’uomo su quella potenza, e acquistato (si ponga mente) non in grazia di un consentimento divino, ma in grazia di una scienza e di un’arte, che avevano i loro canoni, che si studiavano con certo tirocinio, che si potevano possedere più o meno; la scienza e l’arte di magia. I teologi e i dottori affermano, gli è vero, che di questa scienza malvagia e fallace, di quest’arte perniciosa, era inventore lo stesso Satanasso, uso a giovarsene pel conseguimento dei fini suoi; ma nasce dubbio che nella opinione loro vi possa essere qualche errore, quando si vede quella scienza e quell’arte imporsi al presunto inventore per modo che questi non può non obbedire a chi per esse gli comanda. Molta parte della magia presuppone l’esistenza in natura, e la cognizione per parte dell’uomo, di virtù arcane che hanno forza di muovere e di legare i demonii. Ma comunque il mago avesse acquistato la sua formidabile potestà, l’esercizio di essa era colpevole e vietato, e conduceva da ultimo i trasgressori in inferno. Generalmente parlando, e guardando agli effetti, maghi e streghe possono considerarsi come alleati e coadiutori di Satana.
Le sorgenti della magia sono nella passione e nella ignoranza, che fanno quasi tutto l’uomo. Il desiderio sempre rinascente, e che non riesce a saziarsi nelle ordinarie condizioni della vita, suscita nella mente il sogno di una potenza incontrastabile per la quale ogni appetito si appaghi; e l’ignoranza delle leggi inflessibili che governano la natura lascia credere che il corso di questa possa essere signoreggiato e mutato in conformità di quel sogno; il quale, quando abbia raggiunto un certo grado d’intensità, spontaneamente tende a trasformarsi in azione. L’amore, l’odio, il desiderio della sanità, delle ricchezze, del potere, della scienza medesima, sono cause produttrici della magia, e suoi perpetui stimoli, ond’è che noi vediamo questa praticata dovunque son uomini, nell’antichità più remota, nel medio evo, e presentemente ancora, non solo fra le popolazioni barbariche o selvagge, ma fra le stesse genti che si dicono civili. Cesario racconta di uno scolare, il quale non imparando nulla con lo studio, si procacciò una pietra che dava a chi la teneva in mano ogni sapere: è questa in iscorcio tutta la storia della magia.
Col crescere e con l’afforzarsi della credenza in Satana la magia doveva acquistare nuovo credito e nuovo vigore. Tutto quanto si sapeva o si credeva sapere di lui, della sua natura, de’ suoi costumi, de’ suoi propositi, doveva tendere a produr questo effetto. Egli era la potenza sempre viva ed inquieta che circuiva e penetrava tutte le cose, il principe di questo mondo, il dominatore della natura pervertita; egli era in ogni luogo, e aveva sotto ai suoi ordini una milizia innumerevole, sempre parata ad ogni cimento. Con l’ajuto dell’opera sua non era così difficile impresa, non era miracolo che non si potesse compiere, e l’ajuto di quell’opera egli porgeva senza troppo farsi pregare. Si sapeva che di buon grado egli s’associava all’uomo per venire più facilmente a capo de’ suoi disegni. La Chiesa stessa, a furia di predicare la potenza e l’astuzia di Satana, a furia di mostrare, con infiniti esempii, gli effetti della sua dominazione sul mondo, e più popolato assai l’inferno che il paradiso, era riuscita dove non credeva nè voleva riuscire, aveva lasciato germogliare negli animi come una vaga credenza che il padrone foss’egli e non Dio, aveva, qua e là, alla paura e all’orrore, sostituita l’adorazione. Nel XIII secolo i Luciferiani furono accusati di adorare il diavolo, e la stessa accusa fu lanciata contro i Templari, contro gli Albigesi, contro i Catari, contro parecchie altre sètte. Molte volte, senza dubbio, l’accusa fu calunniosa, dettata da astio religioso e da perfidia ecclesiastica; ma alcuna volta dovette pur cogliere nel segno. La spaventosa istoria dei processi contro le streghe ne porge prova incontestabile, e la diabolica assemblea ch’ebbe in Francia il nome di sabbat, e in Italia quello di giuoco della signora, suppone un vero e proprio culto satanico, del quale dovrò dire qualche cosa più oltre. Finalmente non si dimentichi che le condizioni della vita furono sovente nel medio evo così dure ed insopportabili, sotto la duplice oppressione ecclesiastica e baronale, da spingere intere classi di uomini derubati, affamati, disperati, a cercare nella magia, o alcun sollievo agl’infiniti lor mali, o alcun’arme di vendetta. Per costoro darsi al diavolo era la suprema via di salvezza, era trovare un amico e un ajutatore, qual ch’ei si fosse. Satana era men tristo del barone e del prete.
La più parte diventavano stregoni e streghe con solo mettersi nel gregge di lui, e con fruire di quei beneficii e di quel tanto potere di cui egli voleva farli partecipi; ma, come ho detto, oltre a questa più bassa magia, prodotta da una specie di delegazione di potestà, c’era una magia più alta, frutto dello studio e del volere, una magia fondata sulla cognizione di forze a cui gli stessi demonii obbedivano, ma che nulla avevano di divino.
Di questa erano tenuti gran maestri i saraceni e gli ebrei, e v’erano scuole famose, in cui dicono s’insegnasse, come Salamanca e Toledo in Ispagna, Cracovia in Polonia. La più celebre nel medio evo fu quella di Toledo, dove la leggenda fece studiare Virgilio, trasformato di poeta in mago, Gerberto, il beato Egidio di Valladares prima della sua conversione (m. 1265) ed altri assai.
La prima delle magiche operazioni, quella che avviava a tutte l’altre, era l’evocazione, con cui si forzava Satana, o alcuno de’ diavoli suoi, a comparire; operazione non difficile quando se ne conosceva il modo, ma pericolosa a chi vi procedesse sbadatamente, senza le opportune cautele. Si faceva più comunemente di notte, anzi nel punto di mezzanotte; ma poteva farsi anche di pien mezzogiorno, essendo quella l’ora in cui ha più vigore il diavolo meridiano. Facevasi nei bivii, nei trivii, nei quadrivii, nel fondo di selve cupe, sopra lande deserte, tra rovine antiche. L’evocatore si chiudeva in un cerchio, o, per più sicurezza, in tre cerchi, tracciati in terra con la punta di una spada, e doveva badar bene di non lasciar cogliere fuor di quel limite la più piccola parte di sè, e di non concedere a patto alcuno cosa che il diavolo potesse chiedergli. Ne andava la vita. Il solito Cesario racconta di un prete, che adescato a uscire del cerchio, fu tutto fracassato dal demonio, per modo che in capo di tre giorni morì; e racconta di uno scolare di Toledo, che avendo sporto fuor del cerchio un dito, verso un demonio che in figura di leggiadra danzatrice gli offeriva un anello d’oro, fu subito rapito e trascinato in inferno, d’onde non uscì se non per le insistenti preghiere del negromante che l’avea menato a quella festa.
Le formole di evocazione erano molte e strane, alcune lunghissime, quali più, quali meno efficaci, nè tutte si addicevano a tutti i diavoli. La più piccola omissione poteva bastare a renderle inefficaci affatto, se il demonio era svogliato o indispettito. Qui cade in acconcio una osservazione. Abbiam veduto per esempii assai numerosi che il diavolo si presenta volentieri, senza farsi troppo pregare, anche a chi lo chiama così alla buona e nel linguaggio consueto, e che spesso si presenta senza che altri pensi a chiamarlo. Gregorio Magno racconta il caso di un prete, che avendo detto al proprio servo: “Vieni, diavolo, e trammi gli stivali,„ si vide comparire innanzi il diavolo in persona, a cui non pensava in quell’ora. Altre volte il diavolo si mostra pigro e restio, e allora bisogna rinforzare e replicar gli scongiuri, ai quali da ultimo è pur necessario ch’ei ceda, sempre che non vi sia difetto. L’ultimo dei Carraresi lo chiamò invano quando, nel 1405, essendo Padova afflitta dalla peste, e stretta d’assedio dai Veneziani, egli non aveva più uomini da far difesa.
Evocato, il diavolo poteva apparire con accompagnamento di varii prodigi, e sotto varie forme, salvo che il mago gl’imponesse di prenderne una determinata. Un cavaliere tedesco, di cui racconta la storia Cesario, stando entro il cerchio insieme con un negromante amico suo, vide da prima tutto intorno un’acqua fluttuante, poi udì mugghio di bufera e grugnito di porci, e, dopo altri portenti, vide apparire, più alta degli alberi della foresta, la figura del demonio, di così spaventoso aspetto, ch’egli ne rimase smorto tutto il rimanente di sua vita.
Nelle formole d’evocazione erano molte parole strane di suono ed inintelligibili, e quanto più erano strane ed inintelligibili, tanto maggior virtù si attribuiva loro. Nel qual fatto si rivela una tendenza assai nota della natura umana, e della quale si potrebbe discorrere a lungo. La parola Abracadabra si scriveva già dai greci sugli amuleti, e conservò nel medio evo l’antica riputazione. Lo stesso dicasi della parola Abraxas. Per l’uomo incolto la parola è inscindibile dalla cosa, s’immedesima con la cosa. Nella coscienza, essa suscita repentinamente l’immagine di questa, onde la credenza di un misterioso legame fra le due, e di una potenza quasi creativa di quella. Il suono è Brama, dicesi in un libro sacro dell’India: Dio disse: Sia la luce e la luce fu; e in principio era il Verbo. Secondo una superstizione sparsa su tutta la faccia della terra, certe cose non si debbono nominare, perchè i nomi si traggono dietro le cose. Coloro che si convertivano al cristianesimo mutavano il nome, per gettar via con esso tutto il loro passato, e così lo mutava chi, rinunziando al mondo, entrava in un chiostro. Virtù magica si attribuiva, oltrechè alle parole, anche ai numeri, ai caratteri, alle figure, e la più parte di tali credenze ha origine antichissima.
Di parole, di cifre, di figure era composto il libro magico, altrimenti detto libro del comando, il quale dava a chi n’era possessore facoltà di scongiurare i diavoli, di comandar loro e di operare per mezzo loro ogni maniera di meraviglie. Non v’è mago di qualche reputazione che non abbia avuto il suo. Gerberto rubò, come abbiam veduto, quello del proprio maestro, e Fausto n’ebbe uno di grandissima virtù. Secondo una leggenda che ho già ricordata, presso Norcia era l’antro della Sibilla, e un lago popolato di diavoli, al quale accorrevano a frotte gl’incantatori per consacrare i lor libri magici. Col suo, Malagigi fa miracoli per entro ai poemi cavallereschi. Ordinaria compagna del libro era la famosa bacchetta.
Ma oltre alla bacchetta e al libro c’erano pure altre cose con le quali si potevano vincolare e signoreggiare i demonii: tali certe gemme e certe erbe che si trovano descritte nei lapidarii e negli erbarii del medio evo. Più di un mago riuscì ad avere un demonio chiuso in un’ampolla, o dentro un anello, in guisa da potergli comandare come a uno schiavo; e ciò ad imitazione di Salomone, che molti demonii, secondo si legge in racconti ebraici ed arabici, ridusse in ischiavitù. Del famoso medico ed astrologo Pietro d’Abano, morto l’anno 1316 nelle carceri dell’Inquisizione, si dice avesse chiusi in una fiala sette diavoli, per tacer di una borsa a cui tornavano fedelmente i denari spesi; e il famosissimo Paracelso (m. 1541) aveva non so se uno o più diavoli chiusi nel pomo della spada. Con l’ajuto dell’arte magica poi e dell’astrologia, si potevano costruire ingegni ed ordigni che, in parte almeno, rendevano superflua la cooperazione dei demonii, come quelle teste artifiziate che rispondevano alle domande, e di cui una costrusse, come s’è già veduto, Gerberto, un’altra Alberto Magno, una terza Ruggero Bacone, altre altri.
I maghi e le streghe non erano tutti di una valentia e d’una forza: come in ogni altra condizione umana, anche nella loro c’era disparità di potenza e di grado. Ciò nondimeno non era così misera fattucchiera, nè così fallito stregone, che non potesse con l’ajuto dell’arte sua far cose mirabili, e tali da vincere ogni umano potere ed ogni umano avvedimento. Chi volesse fare un elenco delle svariatissime operazioni dell’arte magica dovrebbe comporre un volume, e non riuscirebbe a dir tutto, giacchè per essa si poteva far presso a poco quanto cade nella fantasia, quanto può essere oggetto di desiderio. Il mago, con acconci filtri, o giovandosi dell’opera di accorti demonii, poteva forzare all’amore, poteva mutare l’amore in odio, poteva strappar l’amata all’amante, o far che quella volasse di notte tempo, per l’aria, fra le braccia di questo. Egli si vendicava de’ suoi nemici, o dei nemici di chi ricorreva a lui per ajuto, facendo divampare l’incendio nelle loro case, rovesciando la tempesta sui loro campi, sommergendo in mare le navi; o pure li faceva morire, infiggendo in una figura di cera, fatta a loro immagine, un ago, o uno stiletto, o pure, senz’altro apparecchio, con una semplice imprecazione, con un’occhiata velenosa. Per lui non erano distanze, non vie malagevoli e perigliose. In groppa ai demonii egli volava da una ad un’altra estremità della terra, spendendo poche ore là dove altri consumavano mesi ed anni, e allo stesso modo faceva viaggiare coloro cui egli favoriva dell’opera sua. Fabbricava amuleti e talismani acconci ad ogni uso, armi fatate che sfidavano il ferro ed il fuoco, e, in una notte, palazzi sontuosi, castelli inespugnabili, intere città murate. Con una parola oscurava l’aria, faceva imperversare un’orrenda procella, apriva sopra la terra le cateratte del cielo; con una parola faceva riapparire il sereno, e risplendere il sole più sfolgorante di prima. Alzando il dito sgominava un esercito, o ne faceva saltar su un altro, tutto di demonii sbucati dall’inferno. Ov’egli s’intrometteva la natura perdeva la sua usanza e il suo essere. Egli trasmutava le cose l’una nell’altra; faceva oro del fango e fango dell’oro; e similmente trasformava d’una in un’altra le creature viventi e sensitive, i maschi in femmine, le femmine in maschi, gli uomini in bruti. Egli aveva cognizione delle cose più nascoste; vedeva in un bacino d’acqua ciò che gli premeva vedere, prediceva senza errore il futuro, e, miracolo più di tutti gli altri gradito, racquistava egli stesso, e faceva racquistare altrui la giovinezza perduta.
I maghi maggiori molto si compiacevano di fare stupire le più illustri assemblee con lo spettacolo dei prodigi che sapevano operare. Nel cuor dell’inverno, Alberto Magno pregò l’imperatore Guglielmo di volere andare un giorno, con tutta la corte, a desinare in sua casa. V’andò l’imperatore, e il buon mago lo menò, insieme col seguito, in un giardino, dove tra gli alberi sfrondati, in mezzo alla neve ed al ghiaccio che coprivano ogni cosa, si vedeva apparecchiato il convito. I cortigiani cominciarono a mormorare, parendo loro uno strano scherzo quello dell’ospite; ma come il re fu seduto a mensa, e gli altri similmente, ciascuno secondo il suo grado, ecco splendere in cielo un sole estivo, ecco disfarsi in un baleno la neve ed il ghiaccio, la terra e gli alberi germinare e coprirsi di verzura e di fiori, brillar tra le fronde i frutti maturi, e l’aria d’intorno sonare del soavissimo canto d’infiniti uccelli. In breve la caldura crebbe di sorta, che i convitati cominciarono a tôrsi le vesti di dosso, e, seminudi, ripararono all’ombra delle piante. Fornito il mangiare, i numerosi e leggiadri valletti che avevan servito, sparvero come nebbia, e di subito il cielo si rabbujò, e le piante si dispogliarono, e un orrido gelo coperse novamente ogni cosa, con sì acerba freddura, che gli ospiti tremando corsero in casa, e si accalcarono intorno al fuoco.
Molte altre simili storie si raccontano. Michele Scotto che, a testimonianza di Dante,
veramente |
e che perciò fu da lui posto con gli altri incantatori in inferno, trovandosi un giorno alla corte di Federico II, illuse sì fattamente con le sue arti un cavaliere per nome Ulfo, che questi credette d’aver lasciato Palermo e la Sicilia, e, dopo lunga navigazione, passato lo stretto di Gibilterra, d’esser giunto in istranie e remote contrade, e quivi aver vinto ripetutamente in battaglia poderosi nemici, conquistato un vasto e florido reame, condotto moglie, e avutone più figliuoli, consumando in tali fatti un tempo che parve a lui di vent'anni e in realtà non fu se non di poche ore.
Verso il 1400 frequentò la corte del re di Boemia e imperatore Venceslao, soprannominato il Beone e il Fannullone, un mago di nome Zito, o Zitek, il quale faceva le più strane gherminelle del mondo: entrava in un guscio di noce e si faceva tirare a carretta da due scarafaggi addestrati; mostrava un gallo che attaccato a una pesantissima trave, se la traeva dietro trionfalmente, come fosse stata un fuscello; mutava in porci i manipoli di fieno e per porci li vendeva. Alcune di tali gherminelle si raccontarono poi di Fausto. Nel secolo XVI un rabbino di Praga per nome Löw giunse a tal segno di potenza che nemmeno la morte poteva nulla contro di lui. Questa da ultimo si celò in una rosa, e il rabbino morì fiutandola.
La credenza alla magia fu universale nel medio evo, e continuò ad essere universale dopo, durante il Rinascimento. Le leggi ecclesiastiche e civili che condannavano e punivano i cultori dell’arte diabolica, non facevano se non ravvivare e rafforzare quella credenza, a cui s’accompagnavano naturalmente il sospetto e il terrore. Come si vedevano diavoli in ogni banda, così vedevansi streghe e stregoni, e non vi fu uomo insigne su cui non pesasse l’accusa di magia, a cominciare dai grandi dell’antichità morti da secoli, da Aristotele, da Ippocrate, da Virgilio, e a venir giù sino ai contemporanei di Leone X e oltre. Di magia fu sospettato il Petrarca, e in pieno secolo XVII si fece un processo ad Alessandro Tassoni, per essergli stato trovato in casa, entro una boccia di vetro, uno di quei diavoli che servono a trastullare i fanciulli, e che si chiamano diavoli di Cartesio. Parecchi papi, come Leone III, il già ricordato Gerberto, Benedetto IX, Gregorio VI, Gregorio VII, Clemente V, Giovanni XX, soggiacquero alle medesime accuse. Sul finire del secolo XI, il cardinale Benno pretendeva nella sua Vita d’Ildebrando (Gregorio VII) che c’era in Roma una scuola di magia da cui quello ed altri papi erano usciti; e del secolo XII, e del XIV, ci sono lettere autentiche di Satana, scritte ai principi della Chiesa, amici e cooperatori suoi. Un dotto francese, Gabriele Naudè, potè stampare nel 1625 un grosso libro in cui si fa l'apologia dei grandi uomini d’ogni condizione cui toccò la stessa sorte.
Ma gl’incantatori illustri non eran più che falange a fronte dello sterminato esercito degli incantatori minuti, degli stregoni e delle streghe, e di queste in più particolar modo, giacchè tutti gli scrittori di sì fatte cose s’accordano in dire che per un maschio dedito all’arti magiche, si avevamo a dir poco dieci femmine. Qualcuno degli illustri riuscì da ultimo a frodar Satana e a sgusciargli di mano, e seppe anche adoperare a buon fine l’arte malvagia, forzando Satana a far più bene che non avrebbe voluto. Tale Ruggero Bacone, il quale liberò un cavaliere che a Satana aveva venduta l’anima, e sulla fine della sua vita, bruciati tutti i libri di magia, si chiuse in una cella, d’onde non uscì più, e dove morì santamente dopo due anni consacrati alla preghiera e alla penitenza. Ma queste erano eccezioni, e degli stregoni spiccioli, non si salvò forse nessuno, e tutti meritarono la mala lor fine, la quale assai volte fu di bruciar vivi in questo mondo prima di andar a bruciar morti eternamente nell’altro.
Costoro erano il gregge e la mandria del diavolo, tanto è vero che non nell’anima solamente, ma nel corpo ancora recavano, come pecore e giovenchi bollati, il marchio del padrone, il così detto stigma o sigillum diaboli, il quale era un punto fatto privo, per virtù soprannaturale, di ogni sensitività. Spesso, in un medesimo corpo, erano parecchi di tai suggelli, e gl’inquisitori figgendovi un ago facilmente si assicuravano della colpa o dell’innocenza dell’accusato.
Streghe e stregoni si congregavano in certi tempi e luoghi per rendere omaggio e far festa al loro signore. Eran quelle le corti bandite del diavolo. Ogni paese aveva suoi luoghi appositi per così fatte riunioni, le quali contavano a volte, se i racconti non mentono, migliaja e migliaja di persone. In Francia il principale era il Puy de Dôme; la Germania aveva il Blocksberg, l’Horselberg, il Bechtelsberg e altri assai; la Svezia il Blakulla; la Spagna la landa di Baraona, le sabbie di Siviglia; l’Italia il famosissimo Noce di Benevento, il monte Paterno presso Bologna, il monte Spinato presso la Mirandola, ecc. ecc. Assemblee si tenevano ancora sulle rive del Giordano e sul monte Hecla, nella remota Islanda. Facevansi di solito una volta la settimana, ma in giorni diversi, secondo i paesi, e c’erano poi, nell’anno, riunioni più generali e solenni, le quali ponevansi di preferenza in giorni prossimi alle maggiori feste religiose. In Germania la principale solennità delle streghe cadeva la notte di Santa Valpurga, come sanno quanti hanno letto il Fausto del Goethe.
Le streghe (giacchè degli stregoni era, come ho detto, scarsissimo il numero) si recavano al giuoco dopo essersi unto il corpo di certi unguenti, a cavalcioni di granate, di forconi, di pale da forno, di sgabelli, o anche di caproni, di porci e di cani diabolici. Volavan per l’aria, non molto alto da terra, e dovevano por mente di non pronunziare, durante il viaggio, il nome di Cristo, e di non lasciarsi cogliere dal suono mattutino dell’Ave Maria, se non volevano capitombolar giù, con pericolo grande di fiaccarsi il collo.
Le cerimonie, i riti e gli spassi del giuoco variavano secondo i paesi, mutarono coi tempi; e chi volesse conoscerli tutti dovrebbe leggere i trattati speciali, i così detti Martelli o Flagelli delle streghe, scritti dai più gran luminari della Santa Inquisizione, e i constituti delle streghe medesime negli innumerevoli processi. Satana si lasciava vedere a’ suoi devoti sopra un trono, o sopra un altare, in figura d’uomo, di caprone, di cignale, di scimia, di cane, secondo i casi. Se in figura d’uomo, talvolta si mostrava arcigno, uggito, rabbujato, talaltra ilare e ridente, e in tal caso scherzava con le streghe, sonava, cantava. Queste gli rendevano omaggio, come a loro signore, s’inginocchiavano davanti o dietro a lui, gli baciavano i genitali, o le natiche, o altra parte del corpo, gli si confessavano, raccontandogli tutte le ribalderie che avevano commesse in suo onore dopo l’ultimo congresso. Egli ascoltava, lodava o biasimava, e puniva di bastonate, o con una buona multa, quelle che avessero trascurato di venire alle assemblee, o in qualche altro modo mancato al loro dovere. Accoglieva le nuove devote, le battezzava in suo nome, le istruiva e ammoniva. Diavoli minori in gran numero facevano corona al principe, partecipavano insieme con le streghe alle cerimonie, tra le quali spiccava una specie di parodia dei riti ecclesiastici, della messa, dei sacramenti, con profanazione di ostie consacrate e altri sacrilegi orribili e turpissimi. Non mancava un’acqua benedetta, o maledetta che si voglia dire, scura e puzzolente, con cui quegli strani sacerdoti aspergevano gli astanti. Finite le cerimonie si banchettava allegramente. Il convivio era rischiarato da streghe, che stavano carponi, con candele accese confitte tra le natiche: i cibi erano quando delicati e squisiti, quando orribili e stomacosi, degni in tutto della infernal cucina. Spesso si mangiavano bambini lattanti, o cadaveri strappati alle sepolture. Da ultimo si ballava, al suono di diabolici strumenti; poi ciascun demonio ghermiva la sua strega, e coram populo si sollazzava con lei. Dico che si sollazzava con lei; ma le streghe affermano che, per esse almeno, quegli abbracciamenti di solito non erano troppo gradevoli: una di loro poi, introdotta da Pico della Mirandola in certo suo dialogo intitolato appunto La strega, entra in particolari ch’io passerò volentieri sotto silenzio.
Le streghe, del resto, non vedevano i loro demonii solamente al giuoco; ma ne ricevevano visite frequenti nelle proprie lor case, in quelle tetre officine dov’erano insieme accozzati gli ordigni, le suppellettili e le mille sozzure dell’arte; andavano con esso loro a diporto, li tenevano in luogo di mariti, e in segno di cara dimestichezza li chiamavano con nomi, non diabolici, ma umani, e spesso carezzevoli, oppure con soprannomi curiosi e bizzarri. Quelli erano con le drude larghi di donativi, i quali, per altro, mostravansi ancor essi non di rado pieni di diabolica falsità, convertendosi le monete in foglie secche e in trucioli, le gemme in mota, se non in peggio. Ingravidate dai diavoli, le streghe spesso partorivano mostri, i quali avevano, quando figura umana, e quando belluina. I diavoli poi, non contenti delle infinite streghe ond’era già pieno il mondo, andavano in giro facendo i bellimbusti, vestiti da cavalieri, e seducevano, e traevano ai loro servigi donne e ragazze. Per poter attendere più liberamente ai fatti loro, le streghe usavano di tramutarsi in gatte, e così tramutate andavano attorno la notte; onde si diè più d’una volta il caso che taluna ne rimanesse, trovandosi in quello stato, ferita, o mutilata, e tornando poi donna, e mostrando la piaga aperta, o la mancanza di un membro, desse a conoscere la sua qualità e il suo delitto.
Il benedettino tedesco Giovanni Trithemio (1462-1516), grandissimo teologo e grandissimo storico, scrisse appositamente un libro, da lui intitolato Antipalus maleficiorum, col quale insegna a tutti gli uomini dabbene a guardarsi dalle streghe e dalle scellerate lor arti. I ripari e i rimedii da lui suggeriti sono senza numero, e passabilmente ridicoli: il riparo più serio, il rimedio più efficace era, secondo l’opinione concorde degl’inquisitori, il rogo.
Nulla v’è che della formidabile potenza di Satana dia così adeguato concetto come la storia delle streghe, e la storia delle persecuzioni che Santa Madre Chiesa promosse contro di loro. Poco mancò (se gli storici dicono il vero) che Satana non trascinasse alle maledette pratiche, al mostruoso peccato di magia l’intero genere umano, e zelantissimi e oculatissimi inquisitori avrebbero volentieri abbruciato l’intero genere umano, pur di vincere l’iniquità e debellare il nemico. Io non intendo rinarrar qui cose note, e, benchè note, meritevoli sempre di meditazione e di studio: qualche rapido cenno potrà bastare al proposito mio.
Le persecuzioni contro le streghe imperversarono più particolarmente sul finire del secolo XV e nei due secoli che vennero poi. Non già che non se ne trovino esempii anche prima, e parecchi; ma, strano a dire, essi diventano più frequenti e più terribili come più i tempi procedono, scostandosi dalla barbarie medievale e approssimandosi alla civiltà nuova del Rinascimento. In uno dei capitolari di Carlo Magno è detto espressamente che coloro i quali attendono alle arti fallaci della magia debbono, come seguitatori della superstizione pagana, essere presi e ammoniti; se perseverano nell’errore, debbon essere tenuti in carcere fino a tanto che non si sieno emendati. In altro capitolare il glorioso imperatore dice più saviamente ancora: “Se alcuno sia che, ingannato dal diavolo, creda, secondo l’usanza dei pagani, esservi stregoni e streghe divoratori di uomini, e, mosso da tale credenza, quelli abbruci, o ne dia le carni a mangiare, sia condannato nel capo.„ Intorno all’800 dunque Carlo Magno giudicava fallaci le arti della magia e puniva di morte gli uccisori dei presunti maghi: gl’inquisitori sarebbero stati freschi se egli si fosse trovato ai tempi loro.
Agobardo, vescovo di Lione, morto nell’840, uno degli spiriti più illuminati e più liberali che abbia avuto la Chiesa, non pure in quello, ma in tutti i tempi, biasimava come superstizioni assurde le credenze volgari attinenti a magia, e deplorava i mali trattamenti usati dal popolo ignorante ai presunti stregoni. La credenza circa il viaggio aereo delle streghe, quell’orribil viaggio che doveva porgere agl’inquisitori argomento di accuse capitali, è antichissimo; ma antichissimo pure è il giudizio che se ne faceva come di cosa in tutto illusoria e fantastica; e nel XII secolo, dopo altri, Giovanni Sarisberiense lo diceva un inganno del demonio, e più recisamente, nel XIII, Stefano di Borbone lo giudicava una fantasia di donne che sognavano. Per lungo tempo la Chiesa non adoperò contro i rei di magia altre pene che le spirituali, e più di un pontefice sorse, come Gregorio VII, a condannare e vietare qualsiasi procedimento criminale instruito contro chi non era d’altro colpevole che di una vana e sciocca superstizione. E la Chiesa non era sola allora a dar prova di così sano giudizio: Coloman, che dal 1095 al 1114 fu re di Ungheria, di un paese cioè quasi barbaro, diceva chiaro ed esplicito in un suo decreto: Non ci sono streghe, e contro quelle che tali si stimano non deve farsi procedura alcuna.
Ma tanta saviezza e umanità di giudizii e di consigli non dovevano, pur troppo, perpetuarsi. Nel secolo XIII, san Tommaso d’Aquino, quel san Tommaso che doveva diventar poi e rimanere l’oracolo della Chiesa, quello stesso che si rimette ora innanzi ai popoli civili stupefatti quale unico lume della filosofia, dichiarava che, secondo la fede cattolica, la stregoneria è cosa, non già illusoria, ma reale. In quel medesimo secolo la inquisizione sopra l’eretica pravità è affidata ai domenicani, i quali ne fanno l’uso che tutti conoscono, e Innocenzo IV introduce la tortura, contro la quale un altro papa, Nicolò I, s’era quattro secoli innanzi scagliato con nobilissime e memorabili parole. Comincia allora uno strano e doloroso spettacolo. La Chiesa si fa tutrice e banditrice di superstizione, accarezza i più bassi istinti della plebaglia, li promuove e li attizza. Confonde insieme, deliberatamente, e conscia di ciò che fa, eresia e stregoneria, e crea una mostruosa promiscuità d’interessi, dove l’ignoranza, la paura, la stupidità, la malvagità, si accordano insieme e si porgono vicendevolmente la mano. Cominciano i processi contro le streghe, divampano i primi roghi: col volger degli anni il furore, invece di scemare, cresce. I pontefici gareggiano di zelo e di ferocia in quest’opera, ch’essi chiamano una battaglia di Dio contro Satana: Gregorio IX, Giovanni XXII, sono, tra i più antichi, i più ardenti. Così si giunge all’anno di grazia 1484, nel quale anno, il 5 di decembre, il glorioso pontefice Innocenzo VIII promulga la sua famosa bolla Summis desiderantes affectibus, con cui dà ordine e norma alla inquisizione sopra la stregoneria, ferma e regola i diritti e i doveri degl’inquisitori, e apre tale un’era di terrore e di lutto che non ha riscontro nella storia degli uomini. La Chiesa volentieri ne tace per parlare a suo agio del Terrore onde va tristamente famosa la Rivoluzione francese, e questo durò appena due anni, quello più di due secoli.
Il domenicano inquisitore Jacopo Sprenger scrive allora il suo insensato e terribile Malleus maleficarum, o Martello delle streghe, il quale diventa il Vangelo o il codice degl’inquisitori di tutta Europa, e a cui molti altri libri consimili, terribili ed insensati, tengono dietro, che tutti insegnano la santissima arte di scoprire, esaminare, torturare, arrostire la strega, a dispetto di ogni ciurmeria e impostura del demonio, suo naturale amico e padrone. Da indi in poi si moltiplicano i roghi e più non si spengono: i papi vi soffian su terribilmente, Leone X fra gli altri, l’umanissimo e magnifico Leone, protettore di letterati e di artisti, amico d’ogni gentilezza. Nella sola Lorena, in ispazio di quindici anni, si bruciano novecento persone, e novecento, in ispazio di cinque, nella diocesi di Vürzburg; cento l’anno se ne bruciano nella diocesi di Como; il Parlamento di Tolosa ne brucia quattrocento in una volta. Non v’è nessuno che si possa tener sicuro da un’accusa di stregoneria, e l’accusa si risolve quasi sempre in condanna, e la condanna è quasi sempre al rogo: il mostrar di non credere alle malìe è già per sè stesso un indizio grave, se non a dirittura una prova di colpa. La tortura fa miracoli, strappa ai più protervi e ai più riottosi la confessione dello scellerato loro commercio con Satana, provoca sequele interminabili di denunzie le une legate alle altre, le quali, dal tribunale del giudice, si protendono, come i tentacoli di uno smisurato polipo, per mezzo i popoli esterrefatti. Più di un inquisitore si domanda atterrito se l’umanità tutta intera non sia passata al servigio del diavolo. Per veder di rendere l’opera riparatrice della giustizia più sollecita che non sia la stessa propagazione del male, si procede a precipizio, s’interrogano gli accusati secondo certi formularii che pongono loro in bocca la confession del delitto, s’inaspriscono e si moltiplicano le torture, si abbrucia quanto è sospetto d’infezione, uomini, donne, vecchi, bambini: in qualche luogo i carnefici, oppressi dal soverchio lavoro, stracchi, istupiditi, rifiutano l’opera consueta, rinunzian l’officio.
Gli effetti di tale giustizia sorpassano l’aspettazione di coloro stessi che l’amministrano: Niccolò Remy, giudice in Lorena, esclama in un accesso di legittimo orgoglio: “la mia giustizia è così ben fatta che in un anno sedici streghe si sono uccise di propria mano per non capitarle sotto.„ Bisogna pur dire, a onor del vero, che i protestanti non si mostravano punto da meno dei cattolici in così fatta bisogna. Lutero, non solo credeva alle streghe, ma esprimeva il desiderio che fossero tutte bruciate, e fra coloro che più si adoperarono a tener deste le false credenze, e a rendere più violenta la procedura, tiene principalissimo luogo Giacomo I d’Inghilterra, il re pedante e poltrone. Così in tre secoli, mercè il concorde lavoro di cattolici e di riformati, furono spente, non decine, ma centinaja di migliaja di vite umane.
Ora è da por mente che il giudice, nei processi, aveva a fronte, visibile, la strega, invisibile, il diavolo, giacchè, come di giusto, il diavolo non abbandonava la sua protetta, la sua amica, la sua druda. Egli (sono gl’inquisitori che lo affermano, e gl’inquisitori lo devono sapere) le ajutava a mentire, e a sostenere valorosamente la tortura; egli faceva perdere la memoria ai testimoni, e ingarbugliava le idee ai giudici, e metteva la stracchezza addosso ai carnefici. Tutto veniva da lui. Se la strega durante la tortura moriva, era il diavolo che l’aveva strozzata, per impedirle di parlare; se la strega si uccideva da sè stessa, era il diavolo che a ciò l’aveva spinta, affinchè non si potesse più fare il processo. In Lindheim, villaggio dell’Assia, cinque o sei donne furono accusate d’aver dissotterrato un bambino e d’essersene servite per la manipolazione della consueta broda delle streghe. Torturate in regola, esse confessarono il delitto. Allora il marito di una di esse tanto s’adoperò che potè ottenere si facesse una visita al camposanto, per meglio accertarsi della cosa. Aperta la fossa, il corpicino apparve intatto nella sua bara; ma l’inquisitore, senza punto smarrirsi, disse che quella doveva essere una illusione del diavolo maledetto, e che essendoci la confessione delle colpevoli non era da cercar altro, ma era da dar corso alla giustizia, a onore e gloria della santissima Trinità: e le donne furono bruciate vive.
Per render vane le frodi e le gherminelle del diavolo, si usavano in varii luoghi varii accorgimenti e rimedii: si vestiva la strega di una camicia tessuta e cucita in un sol giorno, le si dava bere un intruglio fatto di cose benedette, si aspergevano d’acqua benedetta gli stromenti di tortura, si bruciavano certe erbe, ecc. ecc. Fosse in grazia di tali pratiche, fosse per altra ragione, certo si è che assai di rado riusciva il diavolo a porgere alle streghe e agli stregoni amici suoi ajuto veramente efficace e durevole. Lo storico siciliano Tommaso Fazello (1498-1570) narra di certo mago Diodoro, che ajutato dal diavolo scappava di mano alle guardie, e volava per l’aria, da Catania a Costantinopoli. Il giuoco durò un pezzo; ma finalmente il vescovo Leone potè mettergli le mani addosso, e lo fece gettar vivo in una fornace ben accesa, d’onde quegli non uscì più, o uscì solo per andar capofitto in inferno.
Il primo a insorgere contro la odiosa superstizione, e contro gli orribili effetti suoi, fu nel secolo XVI il famoso Cornelio Agrippa di Nettesheim, seguito e superato dal suo proprio discepolo Giovanni Weier (1518-88) il cui libro fa epoca. I difensori della retta ragione e della umanità si moltiplicarono poi rapidamente; ma la battaglia da essi combattuta non fu coronata di vittoria se non assai tardi. Le ultime vittime della superstizione caddero in Europa nella seconda metà del secolo scorso: fuori d’Europa, nel Messico, due roghi si accesero ancora nel 1860 e nel 1873.
L’Inquisizione è morta, e sono finiti i processi per istregoneria; ma non è morta la stolta credenza, nè sono finiti i lamenti di coloro che la serbano viva; e non passa anno senza che venga alla luce, scritto da un qualche teologo fallito e frenetico, un libro in cui si grida che il mondo è nelle mani del diavolo, e che i satelliti del diavolo, ammaestrati da lui, corrompono con l’arti loro ogni cosa, insidiano e sopraffanno i buoni. Il mondo è pieno di stregoni, camuffati in altra maniera, ma non meno tristi e pericolosi degli antichi, e, quel ch’è peggio, il diavolo, lor buon signore, ha finalmente trovato il modo d’impedire che sieno bruciati. Se si potessero ancora bruciare, a tutto ci sarebbe rimedio.