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Capitolo VIII.
I PATTI COL DIAVOLO.
Il diavolo, quando non può adoperare la violenza per venire a’ suoi fini, adopera l’astuzia, e volentieri usa i modi legali, se dai modi legali si ripromette guadagno. Dove non gli è dato rubare, patteggia e traffica; compra, a più o men caro prezzo, quanto non gli sarebbe donato; stipula contratti, assume obblighi e li osserva.
L’idea di un possibile patto col diavolo fu, nei tempi di più viva ed ingenua credenza, un’idea che s’offerse spontanea agli spiriti, e che molti ne dovette tentare con acri e strane lusinghe. Se il desiderio più vivo del principe delle tenebre era quello di sedurre anime, e se per vedere appagato questo suo desiderio egli usava tutto il suo potere e tutta l’arte sua, come non credere che l’uomo potesse vendergli l’anima a prezzo di ricchezze, o di onori, o di qualsivoglia altro bene mondano, ond’egli, quale signore del mondo, era facile dispensiero? E come non credere ciò, se negli stessi Evangeli si vede Satana offrire a Cristo i regni della terra a patto d’essere riconosciuto per signore e adorato da lui? Naturalmente ancora doveva il patto vestir la forma, e accompagnarsi di quelle cautele che, tra gli uomini, sono prova di legalità e validità, e assicurano l’osservanza reciproca degli obblighi. Di qui la scrittura debitamente distesa e firmata, che il diavolo chiede a chi, in iscambio di tale o tal cosa, s’impegna di dargli, dopo un tempo stabilito, l’anima propria; ed è curioso che mentre il diavolo sente il bisogno di assicurare con un documento in regola e ben chiaro, la fede del suo contraente, questi, di solito, non sente il bisogno di assicurarsi, nello stesso modo, della fede di quello. Vero è che il demonio, quasi sempre, sta ai patti, o almeno, se non allo spirito, alla lettera dei patti, e che gli uomini molto spesso non ci stanno, s’ingegnano di riaver le scritture, e riavutele, si gabbano di chi ha loro creduto. Forse fu per dar più valore al contratto che, a cominciare dal secolo XIII, il diavolo volle si scrivessero i patti col sangue, il quale, come ben dice Mefistofele, è un certo succo affatto particolare. A tali scritture anche il demonio soleva apporre alcun segno. In una, di cui dà notizia Gilberto di Vos (sec. XVII) in certo suo libro di teologia, il diavolo lasciò l’impronta abbronzata della sua mano, stesa sopra una croce.
Sono innumerevoli le storie in cui si racconta di patti stretti col demonio, e parecchie assai antiche: non ispiacerà, spero, al lettore, che io ne riferisca qualcuna.
In una vita di san Basilio arcivescovo di Cesarea, attribuita ad Amfilochio vescovo d’Iconio (sec. IV), si legge quanto segue. Un senatore cristiano, per nome Proterio, ha un’unica figliuola, cui egli, dopo aver visitato i luoghi santi, risolve di consacrare a Dio. La fanciulla è lieta di ciò; ma il demonio, che mai non dorme, si accinge tosto a contrariare il santo disegno. Egli accende nell’animo di un giovane servo una passione violenta per la nobil donzella. Sapendo di non potere in altro modo conseguire il suo desiderio, il servo ricorre ad un negromante, e gli promette, quand’ei voglia ajutarlo in quell’amore, grandissima quantità di denaro. Il negromante acconsente, e fattogli, prima d’ogni altra cosa, rinnegare il Redentore, gli dice: “Va alla tale ora di notte, e ponti sul sepolcro di alcun pagano, tenendo levata in alto questa lettera che io ti do: tosto vedrai apparire chi ti condurrà alla presenza del demonio mio signore, dal quale potrai avere l’ajuto che chiedi.„ Il servo fa puntualmente quanto gli è detto, e giunta l’ora è da alcuni spiriti condotto alla presenza del principe dei demonii, che siede in un trono eccelso, con le sue milizie d’attorno. Letta la lettera del mago, dice il principe al servo: “Credi tu in me?„ e quegli: “Credo.„ Ma il demonio: “Voi altri cristiani siete gran tergiversatori, e poco sicura è la vostra fede. Quando avete bisogno di me, venite a cercarmi; raggiunto poi il fine, ve ne tornate al vostro Cristo, il quale, buono e misericordioso com’è, vi accetta novamente per suoi. Però se tu vuoi il mio patrocinio, bisogna che per iscritto rinunzii a lui e al battesimo, obbligandoti d’esser meco il giorno del giudizio, e di soggiacere insieme con me alle pene eterne dell’inferno.„ Promette il servo, e scrive di proprio pugno ogni cosa. Allora il principe manda alcuni suoi satelliti, i quali suscitano nell’animo della giovane un incomposto amore, e le fan detestare la santa vita cui stava per consacrarsi. Ella si getta ai piedi del padre, e tanto prega, e tanto piange, che quegli, pien di cordoglio e di amarezza, concede alfine che le nozze si facciano. E le nozze si fanno. Passato picciol tempo, certuni notano che lo sposo non entra mai in chiesa, nè mai s’accosta ai sacramenti, e lo dicono alla donna. Questa si dispera, interroga il marito, viene a cognizione dell’orribil secreto, e inorridita corre dall’arcivescovo Basilio a implorare consiglio ed ajuto. Il sant’uomo non perde tempo, e dà mano ai ripari. Interroga a sua volta il giovane, gli chiede se sia pentito, se creda in Dio e nella sua infinita misericordia, e vedutolo in ottima disposizione, lo chiude in una stanza, dove si custodivano i sacri indumenti, e passa tre giorni in orazione. Intanto i demonii, stizziti, assediano il fedifrago, lo vituperano, lo percuotono, gli sciorinano sotto gli occhi la scrittura da lui vergata, rinfacciandogli la sua mala fede. Passano alcuni giorni, e la diabolica infestazione a poco a poco va rimettendo della sua furia: il giovane ode ancora le grida minacciose, ma più non vede i suoi nemici. Scorso il quarantesimo giorno, l’uom di Dio trae il peccatore fuor del suo carcere, convoca il clero ed il popolo, narra il caso, esorta tutti a pregare perchè il demonio sia vinto. Mentre la chiesa risuona di devote preci, ecco il diavolo farsi addosso al giovane, forzarsi di trascinarlo con sè, mostrare in prova del proprio diritto la funesta scrittura. Ma il santo non si perde d’animo per questo, tien testa coraggiosamente al nemico, e ordina ai fedeli di gridare senza intermissione Kyrie eleison, tenendo le braccia levate al cielo, sino a tanto che non siasi ottenuta vittoria. Dopo lung’ora si vede volar per l’aria la scrittura, e posarsi tra le mani del santo, che si affretta a lacerarla. Il giovane è salvo, e ottenuta la benedizione, e rifatto partecipe dei sacramenti, torna a vivere lieto con la sua sposa, frodando il diavolo e fruendo tranquillamente dei suoi beneficii.
In questa istoria, rinarrata con qualche leggiera diversità da Giacomo da Voragine e da altri, chi fa la più trista figura non parmi sia il diavolo, il quale, avendo fedelmente mantenuto le sue promesse, vuole con ragione che l’altro patteggiatore faccia lo stesso. Il suo diritto è pieno ed inoppugnabile, e san Basilio non può spogliarnelo, se non carpendogli la scrittura che lo sancisce.
In altra istoria, che ora riferisco, il peccatore pentito non riesce a riavere la scrittura, e qualche dubbio rimane della salvazion sua. In che tempo avvenissero i casi vi si narrano non si sa propriamente; ma e i casi, e l’anonimo racconto greco che li contiene, sono, senz’alcun dubbio, antichissimi.
Nella città d’Antiochia viveva una vedova dabbene, con una sua figliuola per nome Maria. Madre e figlia menavano vita esemplare, tutta consacrata al servizio di Dio, e la buona fanciulla aveva fatto proposito di serbare illesa la sua verginità e di darsi tutta allo sposo celeste. Un Antemio, uomo assai denaroso, e dei principali della città, s’innamora perdutamente di lei, e comincia a tentarla con doni, a insidiarla con mezzane, e a profferirsele per isposo, quando vede di non poterla avere altrimenti. Ma nulla gli giova. Respinto da lei e dalla madre, e sempre più acceso di mala passione, egli giura di venire a capo del suo disegno, checchè sia per costargli. Fa conoscenza con un negromante di grandissimo potere, chiamato Megas, cioè Grande, e narratogli il caso, ne ha promessa che la fanciulla verrebbe a trovarlo di notte tempo nella propria sua casa e nel proprio suo letto. E così segue. La fanciulla è con inganno tratta da un demonio nella camera di Antemio; ma riesce a fuggirgli di mano con la promessa di voler quanto prima tornare a lui, consenziente o non consenziente la madre. Veduti gli effetti dell’arte magica, Antemio vuol esser mago egli pure, e prega Megas che tale lo faccia. Megas, accertatosi prima ch’egli è pronto a rinnegare Cristo e il battesimo, gli dà una polizza e gli dice: “Esci dalla città, senz’aver cenato, e nell’ora che la notte è più cupa, vientene su questo ponticello, e tieni a braccio teso in alto cotesto breve; ma per cosa che tu veda, bada bene di non aver paura e di non fare il segno della croce.„ Antemio fa quanto gli è detto, e stando a mezzanotte sul ponte, vede giungere una gran cavalcata e un principe seduto in un carro. Porge la lettera; ma il principe non accoglie subito fra’ suoi colui che la reca: egli vuole un’abjura scritta. La scena si ripete tre volte, e negli intervalli Antemio si consiglia col mago. La terza volta il principe, ricevuta la scrittura, grida, levando al cielo le braccia: “O Gesù Cristo, questi che già fu tuo ti rinnega per iscritto. Di ciò non io sono autore, ma egli, che con ripetute istanze ha chiesto di poter essere mio. Però in avvenire non ti curar più di lui.„ Udite queste parole, che il principe ripete tre volte, Antemio è preso da subitaneo terrore e da grande ambascia, e ridomanda la sua scrittura. Ma invano: il principe, senza più dargli ascolto, passa oltre, lasciandolo prosteso a terra, immerso in lacrime di dolore e di pentimento. Il dì seguente, Antemio, tagliatisi i capelli, vestito di sacco, va a trovare il vescovo di una città vicina, gli si getta ai piedi, gli narra ogni cosa, lo scongiura di ribattezzarlo e di salvarlo. Il vescovo gli dice di non potergli dare nuovo battesimo, lo esorta ad avere buona speranza in Dio, prega e piange con lui. Tornato a casa, Antemio libera tutti i suoi schiavi, distribuisce alle chiese ed ai poveri le sue ricchezze, dona tre libbre d’oro alla madre di Maria, e mentre Maria entra in un chiostro, egli si rende tutto a Dio, alla cui misericordia nessuno ricorre invano. Della scrittura, che il demonio aveva ricusato di restituire, dicendo che la produrrebbe dinanzi al giudice eterno nel giorno del supremo giudizio, non si fa più parola.
In entrambe le leggende che precedono, la causa che spinge gli sconsigliati a ricercare l’ajuto del demonio, e a stringere un patto che dovrebbe costar loro la salute dell’anima, è l’amore: in altri è cupidigia di ricchezze e di onori, o brama di un sapere vietato.
La leggenda di Teofilo, non troppo opportunamente chiamato da taluno il Fausto del medio evo, risale al sesto secolo, e si trova la prima volta narrata da un Eutichiano, che si spaccia per discepolo di esso Teofilo, e afferma d’aver veduto co’ propri suoi occhi le cose che narra. In Adana, città di Cilicia, era un vicedomino, o vogliam dire economo di quella chiesa, uomo adorno di molte e rare virtù, chiamato Teofilo. Essendo venuto a morte il vescovo, il clero e il popolo di comune accordo, designan lui per succedergli, di che il metropolitano si mostra assai lieto; ma egli, allegando la insufficienza e indegnità propria, ricusa la nuova dignità, nè per esortazioni o preghiere si lascia smuovere dal suo proposito. È fatto un altro vescovo, il quale, contr’ogni giustizia e cagione, toglie l’ufficio dell’economato a Teofilo. Subito il diavolo comincia a usar le sue arti, e nel mite animo dell’uomo dabbene versa il fermento delle malvage passioni, suscita un’acre brama di grandezze e di onori. Teofilo va a trovare uno scelleratissimo ebreo, famoso stregone, gli narra l’ingiuria sofferta, gli apre l’animo suo, lo richiede di ajuto. A mezzanotte il mago lo conduce nel circo ch’era presso alla città, e gli dà il solito avvertimento: “Checchè tu oda o veda, non temere, e non ti fare a patto alcuno il segno della croce.„ Ecco una grandissima caterva di demonii, vestiti di clamidi bianche, con molta luminaria, e in mezzo ad essi il principe in trono. Teofilo bacia i piedi del principe, e stende un breve, in cui dichiara di rinnegar Cristo e la madre sua, e al quale appone il proprio suggello. Tosto se ne vede l’effetto. Il vescovo revoca il precedente decreto, ripone Teofilo nell’antico suo officio, e lo colma di onori. Ma non passa gran tempo, e Teofilo, considerando l’enormità del suo fallo, si sente lacerar dai rimorsi. Disperando di ogni altro soccorso, egli ricorre all’avvocata dei peccatori, alla benignissima Vergine, si macera coi digiuni, si strugge in lacrime, passa in ferventissima preghiera quaranta giorni e quaranta notti, implorando perdono e misericordia. La quarantesima notte gli appare la Vergine corucciata, e gli rimprovera aspramente il commesso peccato, non senza versargli tuttavia sul cuore esulcerato il balsamo della speranza. Teofilo passa altri tre giorni in chiesa a pregare, senza prender cibo, e la Vergine gli appare una seconda volta, e gli porge il lieto annunzio dell’ottenuto perdono. Trascorsi ancora tre giorni, la Vergine, in una terza apparizione, gli restituisce il chirografo maledetto. Il dì seguente, giorno di domenica, Teofilo fa manifesto al vescovo e a tutti i fedeli congregati in chiesa il memorabile avvenimento; poi inferma, e indi a poco, distribuito ai poveri ogni suo avere, devotissimamente si muore e va a fruire della gloria eterna del paradiso. A sant’Egidio la cosa non riuscì così agevolmente. Lasciata la magia, e fattosi domenicano, egli stentò sett’anni prima di poter riavere, con l’ajuto della Vergine, la sua scrittura.
La storia di Teofilo, tradotta di greco in latino, nel settimo secolo, da Paolo, diacono di Napoli, messa nell’undecimo, se non nel seguente, in versi leonini da Marbodo, vescovo di Rennes, godette, durante tutto il medio evo, di un favore grandissimo, e porse in molte province d’Europa argomento a drammi devoti. In uno di tali drammi, composto dal trovero francese Rutebeuf, che morì verso la fine del secolo XIII, Teofilo, perduto l’officio, e venuto in povertà, si scaglia contro Dio, e si duole di non poterlo giungere e conciare a suo talento.
Ha! qui or le porroit tenir |
E infine la Vergine minaccia il diavolo, che non vuol restituire la scrittura, di pestargli la pancia coi piedi.
Non meno famosa, anzi più, è la storia di quel Gerberto che fece stupire con la sua dottrina il secolo X e fu papa sotto il nome di Silvestro II. La credenza ch’egli dovesse al diavolo, non solo la scienza miracolosa di cui diede molteplici prove, ma ancora la suprema dignità ecclesiastica, e che avesse col diavolo stretto un patto in regola, s’andò formando a poco a poco, s’andò allargando, e nel XII secolo fiorì in una meravigliosa leggenda che numerosi storici ripetono a gara. Il benedettino inglese Guglielmo di Malmesbury dice nel libro II delle sue Storie dei re d’Inghilterra, che le cose ch’ei narra di Gerberto volavano allora di bocca in bocca. Gerberto nacque in Gallia, e fanciullo ancora si consacrò al monacato; ma presto fastidito del chiostro, oppure invaso da riprovevole cupidigia di gloria, fuggì di notte tempo in Ispagna, e stando coi saraceni attese a studiare astrologia e magia. In poco tempo diventa dottissimo in ogni maniera di scienza, così lecita come illecita. Ruba ad un filosofo saraceno, che l’ospitava in sua casa, un libro magico e fugge. Evoca il demonio, stringe con lui un patto, e si fa portare oltre il mare. Di ritorno in Francia, apre scuola, acquista gran nome, e ha molti discepoli, fra cui Roberto, che divenuto re di Francia lo fa vescovo di Reims. Quivi costruisce, con mirabile artificio, un orologio e un organo. Essendo in Roma penetra in un sotterraneo incantato, dove sono accumulati e gelosamente custoditi i tesori di Ottaviano imperatore, poi divien papa. Fabbrica una testa magica, la quale ad ogni sua domanda risponde, e lo assicura ch’ei non morrà insino a tanto che non celebri messa in Gerusalemme. Esulta il pontefice, e fa proponimento di non veder mai la terra bagnata del sangue di Cristo; ma in capo di certo tempo va a celebrare, senza sospetto alcuno, in quella delle basiliche di Roma che appunto è detta di Santa Croce in Gerusalemme. Ammala di subito, e consultata la testa loquace, scopre l’inganno, e conosce imminente la propria fine. Allora, convocati innanzi a sè i cardinali, confessa pubblicamente i gravissimi suoi peccati, in espiazion dei quali, vivo ancora, si fa tagliare a pezzi, e gettare, come immondizia, fuori della casa di Dio.
Altri narrano alquanto diversamente, o aggiungono a tale racconto qualcosa. Il diavolo, sotto forma di un cane nero, accompagnava sempre Gerberto, e da lui direttamente, non da una testa artefatta, ebbe questi l’insidioso responso. La morte imminente è annunziata al pontefice da un gran tumulto di diavoli, che vengono per torne l’anima. Egli ordina che i brani dello scellerato suo corpo sieno posti sopra un carro tirato da buoi, e seppellito nel luogo dove gli animali spontaneamente si fermeranno. Le ossa di lui si squassano nell’arca marmorea, e questa suda acqua in copia, quando sta per morire alcun pontefice. Taluno, come il cronografo Sigeberto, morto nel 1113, non sa nulla di penitenza, e riferisce una voce secondo la quale il pessimo vicario sarebbe stato accoppato dal diavolo.
Non fu, del resto, Silvestro II il solo pontefice di cui la leggenda abbia narrato la colpevole pratica col demonio; Giovanni XII, Benedetto IX, Gregorio VII, Alessandro VI, furono essi pure accusati d’essersi venduti a colui, dal cui malvolere e dalle cui insidie appunto avrebbero dovuto difendere il gregge alle loro cure affidato.
La leggenda di Gerberto ci porge esempio di una di quelle frodi onde il diavolo si serve per trarre in inganno chi a lui si affida, senza però mancare formalmente alle promesse, anzi serbandosi fedele alla lettera di quelle: un altro esempio, degno d’esser ricordato, ce ne offre una leggenda cresciuta addosso ad una delle vittime illustri della Santa Inquisizione, Cecco d'Ascoli, l’autor dell’Acerba, l’emulo di Dante.
Non è questo il luogo per rinarrar la sua triste istoria: e come egli fu condannato una prima volta in Bologna dall’inquisitore fra Lamberto del Cingolo, che gl’ingiunse di non più leggere astrologia, nè quivi, nè altrove; e come venutosene egli in Firenze, fu da frate Accursio novamente citato, sotto l’accusa d’insegnare astrologia giudiziaria, di aver dato, per astrologia, ragione di tutta la vita di Cristo, di avere asserito che con l’ajuto dell’astrologia può l’uomo venire in cognizione di tutte le cose, e negato il libero arbitrio; e come finalmente, avendo sempre risposto alle accuse: Così dissi, così insegnai e così credo, fu dato in potestà del braccio secolare, e arso pubblicamente l’anno della salute 1327. La leggenda cui accennavo, formatasi alquanto più tardi, afferma che Cecco s’era accordato col diavolo, il quale gli aveva esplicitamente promesso ch’ei non morrebbe se non tra Africa e Campo di Fiori. Condotto al supplizio, Cecco mostrava animo intrepido, e di non curar punto la morte, tenendo per fermo che all’ultimo momento l’amico suo sarebbe venuto a liberarlo; ma saputo, quand’era giù sul rogo, ch’ivi presso era un fiumicello chiamato Africo, e pensato che Campo di Fiori dovesse essere la città che dai Fiori appunto deriva il suo nome, cioè Fiorenza, intese il diabolico inganno e morì disperato.
Il diavolo, come gli oracoli dell’antichità, volentieri si serviva di parole equivoche per meglio assicurar gl’interessi suoi; ma quando, stringendo il patto, aveva promesso di lasciar passare tale o tal numero di anni prima di valersi del suo diritto, osservava la promessa fedelmente, e non anticipava di un’ora il termine pattuito. Non così scrupolosi si mostravano, come abbiam potuto vedere per parecchi esempii, coloro che ricorrevano al suo ajuto; e però bisogna dire che egli non avesse tutto il torto se contro i mancatori usava di qualche avvedimento e di qualche trappola. Comunque sia, i più gli sfuggivano di mano con opportuno ravvedimento; ma qualcuno anche ci rimaneva, e questi pagava per sè e per gli altri. Un monaco, di cui narra la storia san Pier Damiano, aveva pattuito che il diavolo dovesse annunziargli la morte tre giorni prima, pensando di potere così provvedere in tempo alla salute dell’anima. Il diavolo osserva il patto; ma il monaco, appena tenta di confessarsi, cade in letargo, e ripetendosi il fatto più volte, muore senza confessione. Per più notti la tomba di lui è custodita da negri cani.
Nell’immortale dramma del Goethe Fausto si salva; non si salva invece nella storia popolare, divulgatasi la prima volta per le stampe l’anno 1587; e al nostro bisogno ora fa più questa che quello. Fausto è mosso al patto da sete di scienza e da bramosia di piacere. Egli verga col proprio sangue la scrittura in cui sono espressi i reciproci impegni e le condizioni della loro osservanza: Io, Giovanni Fausto, Dottore, dichiaro quanto segue, in questa lettera scritta di mio proprio pugno. Messomi a scrutar gli elementi, vedendo che le facoltà graziosamente largitemi dal cielo non son sufficienti a penetrar la natura delle cose, e che dagli altri uomini non può essere appagato il mio desiderio, io mi sono dato a questo spirito ch’è qui presente, il quale si chiama Mefostofile, ed è un servitore del principe dell’inferno, perchè m’insegni ciò ch’io desidero di sapere, e mi sia, come promette, sottomesso e obbediente. Da canto mio prometto, che passati ventiquattro anni dal giorno della presente scrittura, io lascerò ch’egli faccia di me, dell’anima mia e della mia carne, del mio sangue e de’ miei averi, ciò che gli sarà in piacere, e questo per l’eternità. A tal fine io rinnego gli esseri tutti che vivono, sia nel cielo, sia sulla terra. In fede di che scrivo e sottoscrivo di mia propria mano e col proprio mio sangue.
Fausto fruisce largamente dei beneficii che gli assicura il contratto. In compagnia di quel suo Mefostofile (che sarà poi ribattezzato in Mefistofele), o ajutato da lui, egli viaggia tutta la terra, percorre i cieli, ha al piacer suo le più belle donne che si trovino, sguazza nelle ricchezze, opera ogni sorta di meraviglie. In Erfurt legge pubblicamente l’Iliade di Omero, e fa comparire dinanzi agli uditori stupefatti gli antichi eroi, vestiti di loro armi, e negli atteggiamenti che lor si convengono; e ai dottori di quell’Università offre di metter loro tra mani tutte le commedie perdute di Plauto e di Terenzio, beneficio che essi, per timore di qualche diabolico inganno, rifiutano. Scorso il diciassettesimo anno, Fausto, che aveva lasciato scorgere qualche intenzione di ravvedimento e di penitenza, verga col proprio sangue, e forzato dal demonio che minaccia di farlo a pezzi se non obbedisce, una seconda scrittura che conferma la prima. Il tempo vola e il termine della terribile scadenza si approssima. Durante l’ultimo anno, il demonio, per istordirlo e consolarlo, gli dà per concubina Elena greca. Giunge finalmente il dì fatale. Fausto invita tutti gli amici suoi ad un banchetto, narra loro la sua storia, e li prega di non partirsi, ma di andare a dormire intanto ch’egli aspetta la fine sua inevitabile. Poco oltre la mezzanotte, gli amici sentono una folata di vento impetuoso investir la casa e scuoterla come se dovesse spiantarla dalle fondamenta, odono sibili orrendi e le grida disperate di Fausto che chiama soccorso. Inorriditi, esterrefatti, non ardiscon di muoversi. Venuta la mattina, entrano nella camera di lui, e la trovano tutta imbrattata di sangue: le cervella dello sciagurato vedevansi sprazzate sulle pareti; gli occhi, strappati dall’orbite, e alcuni denti giacevano in terra. Il corpo, tutto pesto e stracciato, fu poi rinvenuto fuori della casa, sopra un letamajo. Cristoforo Marlowe, il precursore dello Shakespeare, recò sulla scena le spaventose angosce di Fausto aspettante la morte e la dannazione.
Di poco posteriore a Fausto è il polacco Twardowsky, autore anch’egli di molte meraviglie, e finito malamente al par di lui. Egli aveva scritto il patto funesto col proprio sangue, sopra una pelle di bue. Un giorno, mentre in un’osteria faceva stupire gli astanti co’ suoi prodigi, ecco il demonio, che gli ricorda esser giunto il termine pattuito. Lì per lì lo sventurato si salva avvicinandosi ad un bambino che dorme in una culla; ma avendogli il demonio rimproverata la sua malafede, e dettogli che parola d’uomo nobile non dee mutarsi, egli fa animo risoluto e indi a poco gli si dà nelle mani. Bisogna riconoscere che un tale sentimento dell’onore fu assai raro tra coloro che si obbligarono al diavolo e largamente si valsero dell’opera sua.