< Il diavolo
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Capitolo VII.


AMORI E FIGLI DEL DIAVOLO.




Tentando, tormentando, invadendo le anime come rocche espugnate, Satana e gli spiriti suoi erano in perpetuo commercio con gli uomini e stringevano con essi legami varii e molteplici. La possessione era il legame più intimo, e comunque lo si spiegasse, riusciva pur sempre un connubio, una specie di copula, da cui poteva seguitare una fecondazione maligna, e una proliferazion di peccato. Ma la possessione era una semplice copula spirituale, e i diavoli, sempre intenti a far guadagno, con tutti i mezzi e per tutte le vie, dovevano desiderare anche l’altra, dovevano tentare di congiungersi carnalmente con gli uomini, di fondere in mostruose geniture l’umano e il diabolico, e procrear figliuoli, che fossero, sino dal concepimento, consacrati all’inferno. E procrearono figliuoli, e il mondo li conobbe, e più d’una volta sentì il peso di lor malvagia potenza.

La cosa, per altro, non è al tutto chiara. Come fanno i diavoli a generare? Che ne avessero facoltà pareva accertato da un luogo del Genesi, dove sembra si dica che gli angeli ebbero commercio con le figlie degli uomini, e generarono i giganti; e da molti si credeva che i demonii fossero per l’appunto quegli angeli peccatori, che la celeste loro natura avevano bruttata del fango della sensualità. Ciò nondimeno molti dubbii si mossero, e molte difficoltà si fecero, su questo proposito da teologi di grande e di piccola levatura, e le opinioni loro non sono gran fatto concordi. Secondo i cabalisti, i demonii s’accoppiano regolarmente fra loro, e si propagano al modo stesso degli uomini. In Germania è spesso ricordata tra il popolo la nonna del diavolo, una signora non troppo cattiva, provveduta di novecento teste; e tra gl’italiani nel mezzogiorno è conosciuta, e torna spesso nei discorsi, la mamma di lui. I rabbini nominano le quattro mogli di Samaele, madri d’infiniti demonii. Il greco Michele Psello, segretario dell’imperatore di Costantinopoli, monaco del Monte Olimpo in Bitinia, filosofo, matematico, medico, oratore, alchimista e teologo, vissuto sin verso la fine dell’XI secolo, afferma in certo suo trattato delle operazioni dei demonii, che questi possono benissimo generare, provveduti come sono di quanto si richiede al bisogno. Ma qui appunto le opinioni discordano. San Tommaso d’Aquino, san Bonaventura e infiniti altri teologi, dicono risolutamente che i diavoli non hanno seme proprio, e perciò non generano, nel vero senso della parola; ma, facendosi succubi, ricevono il seme dell’uomo, e poi trasformandosi in incubi, impregnano di quel seme la donna con cui si accoppiano, e così generano. La loro sarebbe dunque una peculiar maniera di paternità putativa, la quale tuttavia non esclude la trasmissione di certe qualità diaboliche alla prole generata in tal modo. Aveva torto dunque Lodovico Dolce, quando a certo Fra Girolamo di una sua commedia intitolata Il Marito faceva dire con troppo dogmatica sicumera:

. . . . i demonii non possono concipere,
O per dir meglio ingravidar le femine,
Perchè non hanno seme; nè l’Altissimo
Permetteria che donna con battesimo
Ingravidata fosse dal dimonio.
Lascia pur ch’altri ciarli, chè i teologi
Tutti d’accordo quant’io dico affermano.

Ma l’Altissimo permetteva al diavolo tant’altre cose; perchè avrebbe dovuto vietargli questa? E le donne che non erano con battesimo? Il popolo, che poco intende e meno gusta le distinzioni, le arguzie e gli arzigogoli dei signori teologi, credette da senno, e senza volersi torre la briga di venire in chiaro del modo, che i diavoli potessero procreare figliuoli, e così séguita a credere ancora oggi giorno, per tutto dove non abbia scosso un pochino da sè le antiche superstizioni e l’antica ignoranza.

E perchè non avrebbero potuto i diavoli generare, se fantasmi di donne morte potevano concepire e partorire? L’inglese Gualtiero Mapes (m. c. 1210) racconta in certo suo libro De nugis curialium, ossia Delle frascherie dei curiali, la mirabile storia di un cavaliere di Brettagna, che cavalcando una notte per una valle recondita, trovò in mezzo a una schiera di donne che si sollazzavano al cheto lume della luna, la propria moglie, già morta da un pezzo, la rapì, come si fa di un’innamorata, visse con lei molt’anni felicemente, e n’ebbe parecchi figliuoli, che per soprannome furono detti i figliuoli della morta, filii mortuae.


I diavoli facevano quando da incubi, quando da succubi; quando cioè da maschi e quando da femmine, secondo il gusto e l’opportunità; ma mi affretto a dire, senza pretendere di darne le ragioni, che essi volevano essere piuttosto maschi che femmine. Tommaso Cantipratense assicura d’avere ricevuto assai volte la confessione di donne che si dolevano d’essere state violate da incubi; e nella vita di san Bernardo si narra la scandalosa istoria di un incubo sfacciatissimo, il quale per più anni di fila giacque cotidianamente con certa femmina, senza un ritegno o rispetto al mondo, tanto che si cacciava in quello stesso letto in cui anche il povero marito dormiva.

Che la natura umana potesse essere profondamente turbata e sconvolta da quegli spaventosi contatti; che gli amplessi diabolici potessero tornare alle volte mortali, non parrà strano a nessuno, e chi ne voglia gli esempii può trovarne a bizzeffe negli scrittori. Tommaso Walsingham, monaco di sant’Albano d’Inghilterra circa il 1440, racconta la terribile storia di una fanciulla, che contaminata da un diavolo, morì in capo di tre giorni, enfiata per tutto il corpo, spandendo intorno orribile fetore. Cesario va più in là e racconta di una donna, la quale abbracciata (non altro che abbracciata) da un diavolo vestito di bianco, impazzì subitamente e morì poco dopo; e di un’altra, cui un diavolo travestito da servo toccò la mano, e che ebbe la stessa sorte.

Ben più strano parrà, credo, che donne di carne e d’ossa potessero reggere per anni ed anni a quei connubii senza troppo risentirsene: e pure anche di ciò sono prove ed esempii; celebre tra gli altri quello di un diavolo e di una donna i cui amori durarono un quarto di secolo. E sembra che alle volte i diavoli innamorassero per davvero, a dispetto dei teologi, i quali pretendono che in quella loro depravata natura l’amor non alligni. Gervasio di Tilbury, gran conoscitore di tutti questi secreti, dice chiaro: certi demonii amano con tanta passione le donne, che per possederle ricorrono ad ogni arte e ad ogni inganno.

Ardori nefandi, ma rispondenti ai loro, si producevano poi in certe donne, nelle cui anime l’idea di soprannaturali abbracciamenti suscitava strani fantasmi e concupiscenze mostruose. A quante non dovette sembrare terribile, ma pure invidiabile ventura avere amante un angelo del fuoco! Alvaro Pelagio, vescovo di Silva, che circa il 1332 compose in latino un libro Del pianto della Chiesa, dice d’aver conosciuto molte monache, le quali volontariamente si sottoponevano al diavolo. Le streghe erano le concubine ordinarie e volenterose dei diavoli, che nelle assemblee e nei bagordi di cui dovrò parare più oltre, usavano con loro pubblicamente. Sono senza numero quelle che nei processi confessarono apertamente e senza vergogna i turpi amori, e sul rogo ne pagarono la pena; e più d’una ebbe a svelare questa strana particolarità, che il seme dei diavoli è freddo come il ghiaccio.

Michele Lermontov, uno dei maggiori poeti che abbia avuto la Russia in questo secolo, morto a ventisett’anni in duello, nobilitò il tema di tante fosche leggende in un poema ch’è tra i suoi più belli, e s’intitola appunto Il demone. Satana s’innamora perdutamente, là, fra le aspre e meravigliose solitudini del Caucaso di una fanciulla bellissima, per nome Tamara. Costei, mortole il fidanzato, si seppellisce in un chiostro; ma l’innamorato demone anche quivi la persegue, e ottiene ch’ella s’innamori di lui, e giura di voler per quell’amore rinnegare il suo passato e rendersi a Dio. Gli amplessi del superbo caduto uccidono la fragile creatura, che perdonata e benedetta è dagli angeli assunta in cielo, mentre quegli, non ravveduto, si risommerge nelle tenebre sempiterne.


I demonii succubi non erano meno sfacciati e pericolosi degl’incubi. Cesario racconta di un converso, che abbracciato e baciato in letto da un diavolo vestito da monaca, infermò e in tre giorni morì; e ricorda il caso di un uomo dabbene, che non avendo voluto consentire alle lubriche voglie di un succubo, fu da questo tratto a volo per l’aria e scaraventato in terra, così che, dopo avere stentato un anno, se ne andò all’altro mondo. Ma di quanti succubi vide il medio evo, il più fascinatore fu Venere, quella Venere che mutata, come le nuove credenze volevano, di nume in demonio, innamorò di sè il gentil cavaliere e poeta Tanhäuser, ed altri assai, cui fu larga de’ suoi favori. Fu amata da molti e taluno forse anche amò, come in antico; certo era gelosa dei diritti o bene o male acquistati e s’ingegnava di farli valere. Lo prova il seguente caso narrato da parecchi, e che io riferisco, voltando in volgare il forte e colorito latino di un cronista inglese, Guglielmo di Malmesbury, che nel XII secolo ne fece primo il racconto.

Un giovane cittadino romano, ricco di molto censo, e nato d’illustre famiglia senatoria, avendo condotto moglie, invitò gli amici a banchetto. Levate le mense, e stimolata coi vini più generosi l’ilarità, uscirono i commensali in un prato, desiderosi di alleggerire danzando e sbalestrando, o in altri giuochi esercitando il corpo, gli stomachi aggravati dal cibo. Lo sposo, re del convito, e maestro del giuoco, chiese una palla, e trattosi l’anello nuziale, questo pose in dito a una statua di bronzo ch’era ivi presso. Ma poichè tutti i compagni, giocando, in lui solo inveivano, egli, affannato ed acceso, si ritrasse primo dal campo, e volendo riavere il suo anello, trovò piegato sulla palma della mano il dito della statua, che prima si vedeva disteso. Avendo quivi penato un pezzo, senza potere nè strappare l’anello, nè frangere il dito, taciuta la cosa ai compagni, affinchè, lui presente, nol deridessero, o, assente, non involassero l’anello, in silenzio se ne partì. Tornatovi poi con alcuni familiari a notte scura, ebbe a stupire vedendo raddrizzato il dito e sparito l’anello. Tuttavia, dissimulato il danno, si lasciò dalle carezze della sposa rasserenare, e giunta l’ora di coricarsi si adagiò accanto a lei. Ma, come appena si fu adagiato, sentì alcun che di nebuloso e denso voltolarsi fra sè e lei, la qual cosa si poteva sentire, ma non vedere. Vietatogli da tale impedimento l’amplesso conjugale, udì una voce che diceva: “Giaciti meco, dacchè oggi pure tu m’hai sposata. Io sono Venere, a cui tu ponesti l’anello in dito: l’anello è in poter mio, e più nol renderò.„ Spaventato da tanto prodigio, nulla osò, nulla potè rispondere il giovane, e passò insonne l’intera notte, esaminando tacitamente nell’animo il caso. Corse gran tempo, e in qualunque ora tentasse egli di accostarsi alla sposa, sempre sentiva e udiva il medesimo: del rimanente era validissimo e atto a checchessia. Alla fine, mosso dalle querele della moglie, scoperse ogni cosa ai parenti, i quali, avuto consiglio fra loro, ne informarono un prete suburbano per nome Palumbo. Aveva costui virtù di suscitare per arte di negromanzia figure magiche, e d’incutere terror nei demonii, facendoli obbedire come più gli era a grado. Pattuita pertanto la mercede, che doveva esser grande, e tale da riempirgli d’oro la borsa quando fosse riuscito a far congiungere gli sposi, usò quegli il supremo dell’arte sua, e composta una espistola, diedela al giovane dicendo: “Va alla tale ora notte al crocicchio, dove la via si spartisce in quattro, e poni mente a ciò che tu vedrai. Passeranno di colà molte figure umane, d’ambo i sessi, d’ogni età, d’ogni grado e condizione, alcune a cavallo, altre a piede, quali con la fronte volta alla terra, quali col ciglio superbamente levato; e quante sono insomma le forme, e le sembianze dell’allegrezza e della tristezza, tutte le potrai vedere nei volti e nei gesti loro. Non favellare a nessuna, quando pure quelle favellassero a te. Seguirà alla turba uno di maggior statura degli altri e più corpulento, sedente in un carro; a lui porgi silenzioso l’epistola, e incontanente sarà appagato il tuo desiderio, purchè tu faccia tanto d’essere d’animo risoluto.„ Il giovane si avviò, come gli era stato prescritto, e stando la notte a ciel sereno, vide la verità di quanto avevagli detto il prete, che nulla non mancò alle promesse. Fra gli altri che di là passavano, scorse sopra una mula una donna vestita a modo di meretrice, sparsi i capelli giù per le spalle, e stretti in capo da un’aurea benda. Teneva colei in mano una verga d’oro, con la quale governava la cavalcatura, e per la tenuità delle vesti mostrandosi quasi ignuda, faceva ostentazione d’atti impudichi. Che più? l’ultimo, che pareva il signore, ficcando i terribili occhi nel viso al giovane, dal carro superbo, tutto composto di smeraldi e di perle, chiese la cagion del suo venire; ma quegli, nulla rispondendo, stesa la mano, porse la epistola. Il demonio, non osando disprezzare il noto suggello, lesse lo scritto, e tosto, levate al cielo le braccia: “Dio onnipotente,„ esclamò, “insino a quando soffrirai tu la iniquità di Palumbo?„ E senza por tempo in mezzo, mandò due suoi satelliti, perchè togliessero a Venere l’anello, la quale, dopo molto contrastare, finalmente lo rese. Così il giovane, venuto a capo del suo desiderio, potè godere dei sospirati amori; ma Palumbo, com’ebbe udita la lagnanza che di lui il demonio aveva mossa a Dio, intese esser prossima la sua fine; per la qual cosa, fattosi di suo arbitrio troncar tutti i membri, morì con miserevole penitenza, avendo confessato al papa e a tutto il popolo le inaudite sue scelleraggini.

Così Guglielmo; il quale avverte da ultimo come ancora al tempo suo, in Roma, e in tutta la circostante provincia, le madri usassero raccontare il caso ai figliuoli, affinchè ne fosse tramandata ai posteri la memoria.

Non lascerò i succubi senza dire che la bellissima Elena, ricordata nella leggenda quale concubina di Simon Mago, era, secondo la più fondata opinione, un diavolo, e che da amori con succubi tolsero argomento, il Cazotte a quel suo strano romanzetto intitolato Le diable amoureux, e il Balzac ad uno dei suoi Contes drôlatiques.

Forzare i diavoli a lasciar le pratiche di loro gusto non era cosa agevole, nè priva di pericolo. In una delle innumerevoli leggende della Vergine si narra di una donna, la quale era invano ricorsa ai segni di croce, all’acqua benedetta, alla preghiera, alle reliquie, per liberarsi da un gran diavolo che la teneva in luogo di moglie: finalmente, un giorno, trovandosi all’usato cimento, levò le braccia al cielo invocando il santo nome di Maria, e il drudo maledetto non fu più buono a nulla. Cesario di Heisterbach racconta un’altra storia. Un diavolo seduce nella città di Bonna la figliuola di un prete e si giace con lei. La fanciulla confessa la cosa al padre, il quale, per tagliar corto alla tresca, allontana la figliuola da casa e la manda oltre il Reno. Cápita il diavolo, e non trovando più la sua ganza, corre dal padre e gli grida: “Malvagio prete, perchè mi hai tu tolta la moglie?„ e gli dà tale un picchio nel petto che dopo due giorni il pover uomo rende l’anima.


Abbiam veduto che i diavoli, o a torto, o a ragione, generavano, e poichè essi erano innumerevoli, non è a meravigliare se grandissimo era il numero dei loro figliuoli. Giordane, storico dei Goti nel VI secolo, afferma che gli Unni nacquero dal commercio di orribili maliarde con demonii incubi; e durante tutto il medio evo ci fu una spiccata tendenza a considerare come figliuoli del diavolo i bambini deformi ed i mostri, che per ciò appunto sperdevansi senza scrupulo alcuno. Nel 1265, una dama che aveva passata la cinquantina, Angiola de Labarthe, confessò in Tolosa d’aver generato col diavolo un figliuolo con testa di lupo e coda di serpe, che bisognava nutrire con carne di bambini.

Secondo un’altra opinione, confermata da notabili esempii, i figli del diavolo erano robusti, animosi, pieni d’ingegno e d’ardore. Lo storico Matteo Paris (m. 1259) ricorda il caso di un bambino che a sei mesi era grande quanto un giovane di diciott’anni. La Chiesa chiamò, e chiama ancora, figliuolo di Satana chiunque si scosti un pelo dal catechismo; ma questa è una metafora e nulla più.

Avviene dei figliuoli di Satana ciò che dei figliuoli degli uomini: i più passano incogniti e immeritevoli di fama; alcuni si traggon fuori della volgare schiera, ed empiono il mondo del loro nome e del grido delle loro gesta; taluno pure ve n’ha, che vincendo la fatalità della origine e la maledizione della propria natura, si redime dall’inferno per sempre, acquistando il cielo. Io non parlerò se non dei principali.

Il più antico è Caino, il primo omicida. Assicurano i rabbini che Adamo ebbe commercio con succubi ed Eva con incubi, un bel modo, come si vede, di dar principio alla razza umana: di uno di questi incubi fu figliuolo Caino, che mostrò chiaramente con l’opere l’origine sua. Tale credenza, del resto non fu dei soli rabbini: il greco Suida (sec. XI) la ricorda in certo suo Lessico.

Attila, il Flagello di Dio, fu figliuolo del diavolo secondo alcuni, di un mastino secondo altri; e del diavolo fu figliuolo Teodorico re dei Goti, in prova di che gettava fuoco dalla bocca, e vivo ancora andò a raggiungere il padre in inferno.


La storia del mago e profeta Merlino, è, per questa parte, più: particolareggiata e più celebre. L’inferno, debellato e spogliato da Cristo, sentiva abbisogno di rifarsi della patita jattura. Satana, cui più sta a cuore la cosa, risolve di procreare un figliuolo che propugni la sua causa fra gli uomini, e disfaccia l’opera redentrice di Gesù. L’impresa è di gran momento, perigliosa e difficile, e chiede lunga e diligente preparazione. Ecco: per le forze congregate dell’inferno una famiglia onorata e cospicua è tratta a rovina, gettata in preda al disonore e alla morte. Di due figliuole superstiti, l’una si abbandona al più svergognato libertinaggio, l’altra, bella e casta, resiste lungamente ad ogni tentazione, sino a che trovandosi una notte, per aver dimenticato di farsi il segno della croce, temporaneamente priva della protezione del cielo, dà agio al diavolo di sopraffarla e di compiere il meditato disegno. Conscia e inorridita di sua sventura, la fanciulla si studia di ricomprare, con le austerità di una penitenza angosciosa, il non suo peccato, e giunto il termine posto dalla natura, dà alla luce un figliuolo, che nel corpo stranamente peloso reca i segni dell’origine sua. Il fanciullo è battezzato, senza, s’intende, il consentimento del padre, e riceve il nome di Merlino: poi si pensa in cielo che sarebbe non piccolo trionfo quello di strappare all’inferno lo stesso figliuolo di Satana, e il buon Dio ci provvede. Satana aveva impartito al figliuolo la cognizione del passato e del presente; Dio v’aggiunge quella dell’avvenire. Quale arma migliore contro gl’inganni del mondo e le insidie del diavolo? E Merlino, crescendo, operò molte cose mirabili, come si legge nel Venerabile Beda, nelle antiche croniche, nelle istorie della Tavola Ritonda, e fece molte e bellissime profezie, delle quali parecchie già si avverarono, e altre si avvereranno quando che sia, con l’ajuto del cielo. Di suo padre non si diede un pensiero al mondo, anzi lo rinnegò a dirittura. Morì, non si sa precisamente come nè quando; ma tutto fa credere che sia andato in luogo di salvazione.


Se non che, salvarsi quando Dio ci vuol salvi, non è poi merito così grande, e più assai di Merlino mi par degno d’ammirazione quel Roberto il Diavolo della cui storia si fecero poemi, drammi, fiabe, esempii morali e persino un’opera in musica. Terribile storia in verità, ma piena di nobile insegnamento.

C’era dunque una duchessa di Normandia, che si struggeva dal desiderio d’aver figliuoli, e non ne poteva avere. Stanca di raccomandarsi a Dio che non l’esaudisce, si raccomanda al diavolo, ed è tosto appagata. Nasce un figliuolo, una saetta. Bambino, morde la balia e le strappa i capezzoli; fanciullo, sventra a coltellate i maestri; giunto a vent’anni si fa capitano di ladri. L’armano cavaliere, credendo così di vincere in lui quella furia d’istinti malvagi; ma dopo ei fa peggio di prima. Nessuno lo passa di forza e di bravura. In un torneo vince ed ammazza trenta avversarii; poi va gironi pel mondo; poi ritorna in patria, e si rimette a fare il bandito e il ladrone, rubando, incendiando, assassinando, stuprando. Un giorno, dopo avere sgozzato tutte le monache di un’abbazia, si ricorda della madre, e va a trovarla. Come prima lo scorgono, i servitori scappano, chi di qua e chi di là; nessuno s’indugia a domandargli d’onde venga, che voglia. Allora, per la prima volta in sua vita, Roberto stupisce dell’orrore che inspira a’ suoi simili; per la prima volta ha coscienza di quella sua mostruosa malvagità, e sente trafiggersi il cuore dal dente acuto del rimorso. Ma perchè mai è egli più malvagio degli altri? Perchè nacque, chi lo fece tale? Un’ardente brama lo punge di penetrare il mistero. Corre dalla madre, e con in pugno la spada sguainata le impone di svelargli il segreto de’ suoi natali. Saputolo, freme ed inorridisce, sopraffatto dallo spavento, dalla vergogna e dal dolore. Ma la sua forte natura non s’accascia per questo, non cede alla disperazione; anzi, la speranza di un laborioso riscatto, di una mirabil vittoria, stimola e solleva l’anima sua tracotante. Egli saprà vincere l’inferno e sè stesso, saprà render vani i disegni dello spirito maledetto che in proprio servigio lo creava, che aveva voluto far di lui un docile strumento di distruzione e di peccato. E non frappone indugi. Va a Roma, si butta ai piedi del papa, si confessa a un santo eremita, si assoggetta ad asprissima penitenza, e giura di non prender più cibo se non sia strappato alla bocca di un cane. Per ben due volte, essendo Roma assediata dai saraceni, egli combatte sconosciuto per l’imperatore, e procaccia la vittoria ai cristiani. Riconosciuto finalmente, rifiuta i premii e gli onori, la corona imperiale, la stessa figliuola del monarca, e si ritrae a vivere col suo eremita nella solitudine, e muore come un santo, ribenedetto da Dio e dagli uomini. In altri racconti gli si fa sposare da ultimo la bella principessa innamorata di lui.

Ma non sempre i figliuoli del diavolo fecero così bella fine, ed Ezzelino da Romano, tiranno di Padova, ne può con più altri far fede,

Ezzelino, immanissimo tiranno,
Che fia creduto figlio del demonio.

Tale fu creduto, e tale fu veramente, se le storie non mentono. Nella sua tragedia intitolata appunto Eccerinis, Albertino Mussato fa svelare l’orribile arcano dalla stessa madre del mostro, Adelaide. Ezzelino, e il fratel suo Alberico, furono tutt’e due generati dal diavolo, che prese per l’occorrenza la forma di un toro. Giove non aveva a’ suoi tempi sdegnato di fare lo stesso. Conosciuta l’origine sua, Ezzelino se ne rallegra e se ne gloria, e promette di fare in modo che il mondo l’abbia a conoscere per degno figliuolo di tanto padre. E mantiene la promessa. Il diavolo questa volta non si vedrà rinnegato da coloro stessi cui diede la vita, nè defraudato delle speranze sue più legittime. Ezzelino diventa signore di Padova, e con l’ajuto del fratello compie lo scellerato disegno, e imperversa a guisa di Furia, chiuso ad ogni senso di umanità, sordo agli avvertimenti che il cielo non lascia di dargli. Ma il castigo, troppo meritato, non si fa molto aspettare. Vinto al Ponte di Cassano, l’iniquo muore disperato, e il fratel suo non tarda a seguirlo.


Noto, così di passaggio, che anche Lutero fu dagli avversarii suoi, tenuto figliuolo del demonio, che s’era nascosto sotto le vesti di un giojelliere, e vengo al maggiore tra i generati da Satana, a colui che non è nato ancora, ma deve nascere, a quel formidabile campione dell’inferno che sarà l’Anticristo. Il suo nome esprime la sua natura e narra le sue opere.

Già altra volta tentò Satana, se non mente un poema anglosassone del secolo IX, di contrapporre un suo figliuolo a Gesù, anzi di porlo nel luogo stesso di questo. Fallitagli allora l’impresa, egli aspetta più propizia occasione, e rinnovellerà la prova quando saranno maturi i tempi e prossima la fine del mondo. Le sue supreme speranze s’accolgono tutte in quel nascituro prediletto.

Intorno al quale corsero molte e varie opinioni. Nell’Apocalissi l’Anticristo è Nerone, che si vede poi, in certe leggende paurose del medio evo, diventar demonio. Nell’VIII secolo si riconobbe l’Anticristo in Maometto, nel XIII in Federico II. Del modo del suo nascimento molto ebbe a dirsi. Sant’Efrem, vescovo di Edessa, vissuto, secondo si crede, nel IV secolo, affermava ch’egli nascerebbe da una donna di mala vita; altri invece dicevano da una vergine, opinione cui contrasta nel X secolo Assone, nel trattato suo De Antichristo. Alcuni si contentarono di credere ch’egli avrebbe a genitore un uomo, ma sarebbe posseduto dal diavolo sino dall’ora del concepimento; altri assicurarono che padre gli sarebbe lo stesso principe dell’inferno. E questa fu l’opinione più generalmente accettata.

Gl’innumerevoli trattati che intorno all’ultimo avversario di Cristo e a’ suoi fatti lasciò il medio evo, molti dei quali giacciono inediti e dimenticati nelle biblioteche, fan fede a noi dell’ansietà e del terrore che teneva desti negli animi il pericolo sempre imminente e al tutto inevitabile della sua venuta. Si ricordavano i segni terribili che al mondo esterrefatto dovevano prenunziare la prossima apparizione di lui, e ponevasi mente se già non se ne vedesse qualcuno. Si moltiplicavano, e si aggravavano con la fantasia gli orrori degli ultimi tempi; ed ogni po’ correva per mezzo la cristianità la spaventosa novella che l’uomo fatale era nato, o stava per nascere. Intorno al 380 Martino, vescovo di Tours, lo credeva già nato, e così pure credeva intorno al 1080 il vescovo Ranieri di Firenze, e alcuni decenni più tardi Norberto, arcivescovo di Magdeburgo. Ai tempi d’Innocenzo VI, un frate minore ne annunziava la nascita per l’anno 1365, e per l’anno 1376 la prediceva Arnaldo di Villanova. Nel 1412 Vincenzo Ferrer sapeva di certa scienza, e ne faceva avvertito l’antipapa Benedetto XIII, che il gran nemico era già d’età di nove anni. Dinanzi al sacro tribunale dell’Inquisizione non poche streghe confessarono d’averlo conosciuto e praticato.

Ma gli anni passavano, sbugiardando novellatori e profeti, ai quali, del resto non pochi, nè poco validi argomenti opponevansi da chi era di men facile credenza e di fantasia più composta. Non per anche vedevansi i segni infallibili. La corruzione e l’apostasia non avevano ancora in tutto guasto il genere umano. Il sacro Impero di Roma tuttavia si reggeva, il quale doveva al tutto sfasciarsi all’apparire del terribile avversario. L’Anticristo non era ancor giunto; ma forse poco più tarderebbe. E si conoscevano gli atti dell’intera sua vita, e narravasi la sua storia come fosse storia passata e non avvenire. Egli raccoglierà nelle sue mani le ricchezze tutte della terra, strumento massimo di corruzione e di signoria. Abbatterà il famoso muro di Alessandro Magno, e le gran porte di ferro, e i mostruosi popoli di Gog e Magog strariperanno come un oceano irresistibile. Non fu mai cavaliere o capitano che lo pareggiasse in valore e in iscienza di guerra. All’armi sue nessuno potrà contrastare: egli metterà a fuoco e a sangue città e reami, ucciderà di propria mano i profeti Enoc ed Elia, scesi indarno a difendere la Chiesa, e riunite sul suo capo tutte le corone, sederà unico re della terra soggiogata. Ma allora sopravverrà pure l’inevitabile e ben meritato castigo: l’usurpator scellerato, il figliuolo e il campione di Satana, sarà ucciso da Cristo in persona, o dal principe delle milizie celesti, lo strenuo e pugnace arcangelo Michele, e con lui sarà vinta e fiaccata per sempre la potestà dell’inferno. Allora le porte dell’abisso saranno, chiuse e suggellate per sempre: finirà il regno di Satana, ricomincerà per non più finire il regno di Dio.


Come gl’incubi potevano generare, così i succubi potevano concepire e partorire. In Inghilterra si credette un tempo, e i cronisti nol tacciono, che uno degli antenati di Goffredo Plantagenet avesse sposato un demonio e procreato con esso parecchi figliuoli. Di Balduino conte di Fiandra, ed eroe di un vecchio romanzo francese, si narra una storia consimile, ma più particolareggiata. Gonfio d’orgoglio, il conte sdegna di sposare la figliuola del re di Francia, e sposa una dama di grande bellezza e prestanza, ch’egli incontrò un giorno in un bosco, e che gli disse esser figliuola di un potentissimo re dell’Asia. Passato un anno, nascono due gemelle bellissime. Il conte aspetta notizie di quel reame d’Oriente; ma notizie non vengono, e intanto un eremita, il quale ha fiutato l’inganno, comincia a mettergli certi dubbii e certi sospetti nell’animo. Un giorno il sant’uomo capita in corte, nell’ora del banchetto, entra in sala, e senza più cerimonie ordina alla signora contessa, figlia del re d’Oriente, di tornarsene difilata all’inferno, ond’è venuta. La signora contessa, cioè il demonio, non se lo fa dire la seconda volta, e schizza via come una saetta, gettando all’aria un orribile e veramente diabolico grido. Il conte, per espiare il suo peccato, imprende una crociata e ammazza molta gente. Quanto alle due figliuole, non fanno poi quella mala riuscita che c’era da aspettarsi, essendo nate di cotal madre.


Oltre ai naturali, generati da loro, i diavoli potevano avere dei figliuoli adottivi e avventizii, dei quali non si davano meno pensiero che degli altri, sia che li rubassero, sia che li avessero da genitori malvagi o disavveduti. Molte storie edificanti si potrebbero raccontare a tale proposito; a me basterà ricordarne qualcuna.

Una fanciulla rimasta incinta (così racconta circa il 1300 l’annalista inglese Ruggero di Hoveden), non volendo si conosca il suo errore, fugge dalla casa paterna, quando è già prossima al parto. Vaga sola pei campi, mentre infuria una orrenda procella, e stanca d’invocare indarno l’ajuto di Dio, chiama in suo soccorso il demonio. Ed ecco le apparisce il demonio in figura di giovane, e le dice: Seguimi. Obbedisce la donna, e quegli la mena a un ovile, e fattole quivi un tetto di paglia, acceso un buon fuoco, va a cercar da mangiare. Due uomini, che passavano di là, veduto il fuoco, entrano nell’ovile, interrogano la giacente, e saputo com’erano andate le cose, corrono ad avvertire il curato e i parrocchiani di un villaggio poco discosto. Torna il diavolo, recando del pane e dell’acqua, e refocillata la donna, raccoglie a mo’ di levatrice il bambino che viene al mondo. Sopraggiunge in quell’ora il curato, munito di croce e d’acqua benedetta, scortato da gran brigata, e comincia i suoi esorcismi; il diavolo non potendo resistergli, fugge con la creatura nata appena fra le braccia e più non si lascia vedere. La buona madre, nulla curandosi del figliuolo, ringrazia Dio d’averla salvata dal nemico, e torna a casa.

Un’altra storia, non meno meravigliosa, ma di più felice esito, narra il benedettino Gualtiero di Coincy (m. 1236) in una sua raccolta di miracoli della Vergine. C’erano due sposi di gran condizione e virtù, i quali, dopo avere avuto parecchi figliuoli, fecero a Dio e alla Vergine voto di castità. Ma la carne è fragile, e mai non cessa dalle insidie il demonio. Una notte di Pasqua egli accende di tanta concupiscenza l’animo del marito, che questi scorda ogni suo proposito e vuole ad ogni modo infrangere il voto. La moglie prega, ammonisce, minaccia; ma poi, non potendo contrastare più oltre, grida: “Se dal nostro peccato un figliuolo ha da nascere, sappi che io ne fo dono al diavolo.„ Dopo nove mesi, viene al mondo un bambino, così bello e gentile che quanti lo vedono se ne meravigliano. Passano alcuni anni, e il bambino cresce di svegliatissimo ingegno, di bonissima indole, adorno d’ogni bel costume. La madre, che teneramente lo ama, si strugge in lacrime, pensando alla sua imprecazione e agli effetti che ne debbon seguire. Quando il fanciullo ha compiuto il dodicesimo anno, appare a lei un orribile demonio, e l’avverte che di lì ad altri tre anni verrebbe a prendere colui che per diritto gli appartiene, e a cui non rinuncerebbe per cosa del mondo. La povera donna si dispera, e un giorno, cedendo alle supplicazioni del figliuolo, svela il secreto. Il figliuolo dà allora in un pianto dirotto:

S’il est dolenz n’est pas merveille,
Quar l’aventure est moult amère..

A mezzanotte abbandona la casa de’ suoi genitori, e solo si pone in viaggio. Giunge a Roma, e, come il cavaliere Tanhäuser, si presenta al papa, e gli narra la dolorosa sua storia. Il papa a così nuovo caso non sa che dire, e manda il fanciullo al patriarca di Gerusalemme, il più saggio uomo che sia sulla terra. Ecco il nostro pellegrino in Gerusalemme, dopo molte fatiche e molti pericoli. Il patriarca, come il papa, non ci vede rimedio; ma si ricorda in buon punto di un eremita, il quale abita in una grande e perigliosa foresta, ed è di così santa vita che gli angioli scendono dal cielo per intrattenersi con lui: da lui forse potrà aversi consiglio ed ajuto. Piangendo amaramente, invocando Dio e la Vergine, il fanciullo si rimette in cammino; ma intanto i tre anni sono quasi passati e non manca più che un giorno allo spirare del termine fatale. Il sabato innanzi Pasqua trova l’eremita, il quale, udita la strana avventura, rimane ancor egli, a bella prima, come smarrito; ma tosto ripreso animo, conforta il fanciullo, lo esorta a sperar bene e provvede a dargli valido ajuto. Passano entrambi la notte in orazione; poi venuta la mattina, l’eremita, posto il garzone fra sè e l’altare, comincia a celebrare la messa. Ma ecco il diavolo, con dietro una masnada de’ suoi, irrompe in chiesa, e pone le mani addosso al poveretto. L’eremita chiama a gran voce la Vergine che venga in soccorso, e la Vergine gloriosa scende dal cielo, e in un baleno volge in fuga i nemici. Il fanciullo è salvo. Pien di riconoscenza s’accomiata dal suo benefattore e ritorna in patria, dove è ricevuto con indicibile giubilo dalla madre, e dove tutto si consacra poi al servizio della Vergine benedetta.

In un’altra storia il diavolo rapisce, appena nato, il fanciullo che gli fu consacrato, lo fa nutrire, e lo mena poi con sè in giro pel mondo, trattandolo con ogni riguardo sino all’età di quindici anni. Allora san Giacomo glielo toglie e lo restituisce ai genitori. In altri racconti i figliuoli sono, non donati, ma venduti al diavolo, il quale fa come i ladri: quando non può rubare, compra. Nè tali mercati si facevano coi figliuoli soltanto. In una storia che dovrò riferire più oltre, un cavaliere fa un patto col diavolo, e s’impegna di dargli la propria moglie dopo trascorsi sette anni: quanti in suo luogo gliel’avrebbero data subito! In un’altra si vede come al diavolo potessero esser date persone affatto estranee, e come il diavolo, almen qualche volta, volesse che quelle donazioni fossero fatte col cuore, e non con la bocca soltanto. Eccola. Un pessimo esattore, avaro e crudele, andava un giorno a certo villaggio, per farvi una delle solite esazioni. Per via si accompagnò con lui un tale, che egli subito conobbe essere il diavolo, e non è a dire se, conosciutolo, desiderasse, per sue buone ragioni, di levarselo da torno. Incontrano un uomo, che conduceva un porco, il quale lo faceva disperare, cosicchè quegli rinnegava la pazienza e gridava: “Il diavolo ti porti!„ L’esattore dice al diavolo: “Non odi? colui ti dà il porco; va e prendilo.„ — “No, risponde il diavolo, non me lo dà di cuore.„ Un po’ più oltre trovano una madre, che a un suo bambino piangente gridava stizzita: “T’abbia il diavolo!„ — “O perchè non lo prendi?„ esclama l’esattore. — “Non me lo dà di cuore, risponde il diavolo: quello è un modo di dire.„ Giungono intanto al villaggio, e quei poveri villici, vedendo venire il lor carnefice, gridano in coro: “Il diavol t’abbia! possa tu servire al diavolo!„ E il diavolo: “Questi sì che mi ti dànno di cuore, e però tu sei mio.„ E, senz’altro aggiungere, acciuffatolo, sel portò via.

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