< Il diavolo
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Capitolo VI.


L’INFESTAZIONE DIABOLICA.



Abbiamo veduto qual fosse la potenza di Satana, e come egli tentasse e tormentasse gli uomini; ma siam lontani ancora dall’avere un giusto concetto della parte ch’egli aveva in questo povero mondo, del luogo ch’egli teneva nella vita del genere umano, delle infinite faccende che si trovava e delle infinite noje che dava.

Chi non aveva il diavolo addosso, lo aveva dattorno, sempre desto, pronto sempre a cogliere tutte le occasioni d’importunare o di nuocere. Ogni più semplice atto della vita poteva dargli pretesto a mal fare. Gregorio di Tours racconta la storia di un prete Pannichio, che trovandosi con amici a tavola, e stando per recarsi il bicchiere alle labbra, si accorse di una mosca, la quale gli ronzava importunamente d’intorno, e pareva volesse imbrattargli il vino. Pratico di tali faccende, Pannichio capì quella non esser mosca, ma diavolo, e con un segno di croce pose fine allo scherzo. Vero è che il vino si sparse miracolosamente in terra, e il buon prete non lo bevve per quella volta.

Figuriamoci che vita dovesse essere quella di coloro che, non di tanto in tanto, ma sempre, così di notte come di giorno, così nel sonno come nella veglia, si trovavano esposti a queste insidie, a queste burle, a queste soperchierie. Il più perseguitato dei perseguitati fu forse un certosino, a nome Ricalmo, abate di Schoenthal nel Vürtemberg, non si sa precisamente in qual tempo. Questo dabben uomo compose, o fece comporre, in latino, un Libro delle insidie, degli inganni e dei dispetti che i diavoli fanno agli uomini, il quale è per certo uno dei più curiosi documenti delle credenze del medio evo che sieno pervenuti sino a noi. Egli racconta i dispetti fatti a lui e quelli fatti agli altri. I diavoli, senza un rispetto al mondo pel suo carattere e la sua età, lo chiamavano immondo sorcio pelato, gli gonfiavano e movevano il ventre, gli davan nausea e capogiri, gli appesantivano le mani per modo che non poteva quasi più farsi il segno della croce, lo facevano addormentare in coro, e poi russavano per far credere agli altri monaci ch’egli fosse colui che russava. Parlavano con la sua voce, lo facevano tossire, lo stimolavano a sputare, si cacciavano in letto con lui, gli tappavano il naso e la bocca per modo da non lasciargli avere il fiato, lo forzavano ad orinare, lo pungevano a guisa di pulci, e se per combattere il sonno egli esponeva al freddo le mani, essi gliele tiravano sotto le vesti per riscaldargliele. Qualche volta a tavola gli facevano passar l’appetito, ed egli allora cercava di ajutarsi con un granello di sale, che ha grande virtù contro i demonii. Tutte queste cose, ed altre assai, racconta Ricalmo a un discepolo. Il fruscio che le sue vesti pajono fare, quand’egli si muove, è cicalio di demonii. Tutti i rumori che escono dal corpo umano, tutti quelli che vengono dalle cose, sono pure opera di maligni spiriti, meno il suono delle campane che è opera di spiriti buoni. La raucedine, il dolor di denti, certi affiochimenti di voce, gli errori commessi nel leggere, i moti e le smanie degli infermi, i tristi pensieri, i mille piccoli accidenti della vita del corpo e della vita dell’anima son dovuti a potenza diabolica. A un certo momento il frate che ascolta si ravvolge tra le dita un filo di paglia; insidia del demonio anche quella. Tutto ciò che noi diciamo di buono viene dagli angeli, tutto ciò che diciam di cattivo viene dai diavoli, così che, confessa il povero Ricalmo, io non so più quel che mi dica io. Egli aveva almeno questo vantaggio, che udiva e intendeva tutti i discorsi che i diavoli facevano tra di loro, ed era informato di tutte le loro trame, e di tutti i loro maneggi. Di ciò i diavoli si dolevano assai; ma la colpa era loro, perchè, invece di parlare una lingua incognita a Ricalmo, si ostinavano a parlar latino, e si sforzavano di parlarlo correttamente. Per difendersi dagli assalti continui del popolo infernale, Ricalmo si segnava dalla mattina alla sera, nel viso, nel petto, e col pollice della mano destra nella palma della sinistra, e consigliava di segnarsi tutto il corpo, fin dove fosse possibile di giungere con le mani. Confessava per altro che, stante la grande ressa dei demonii, il segno della croce rimaneva inefficace talvolta, come un’arma di cui per troppa calca di nemici più non si possa far uso. Ciò spiega come anche l’angelo custode, sebbene non abbandoni mai l’uomo, ma con tutte le forze anzi si adoperi in sua difesa, possa alle volte dar poco ajuto. I diavoli, dice Ricalmo, sono nell’aria come è il pulviscolo in un raggio di sole; anzi l’aria stessa è come una gelatina di demonii, nella quale l’uomo è immerso e sommerso. Si può anche dire che i diavoli involgono l’uomo come il guscio la testuggine, o che gli stanno addosso come uno strato di cenere. Un frate, essendo ancora novizio, vide una sera, dopo compieta, venir giù dal cielo una gran pioggia di diavoli, e correre l’onda impetuosamente, rigurgitando, per tutto l’atrio, e durar l’acquazzone finchè egli ebbe recitato per intero quattro volte il salmo Beati quorum. Come si vede, non colsero tutto il vero quei cabalisti i quali dissero che ciascun uomo aveva 1000 diavoli da man destra e 10,000 da mano manca; ciascun uomo ne aveva pure dinanzi e di dietro e di sopra; e che l’aria ne fosse tutta pregna è anche provato dalla testimonianza dell’anacoreta Gutlaco, il quale se li vedeva schizzare in cella attraverso le fessure dell’uscio.


Secondo alcuni gnostici la natura è opera di angeli maledetti, e la materia è il male, il contrario di Dio. Gli Albigesi professarono la stessa dottrina. Senza giungere a una affermazione così categorica, la credenza ortodossa del medio evo le si raccosta, in quanto inclina a considerare la natura tutta intera come contaminata, come caduta in potestà di Satana dopo il peccato dei primi parenti. La natura è indemoniata; lo spirito di Satana la pervade e la soggioga. Il frate, che vive murato nel suo convento come in una fortezza, la contempla con vago senso di terrore, e vede in essa quasi l’accampamento degli innumerevoli suoi nemici. Le selve profonde e nereggianti, le accigliate creste dei monti, una rupe smisurata, pendente sull’orlo del precipizio, una valle orrida e cupa, un lago immobile in mezzo a una pianura deserta, un torrente che balza spumeggiando e mugghiando fra travolti macigni, sono per lui come gli aspetti di una scena minacciosa, dietro alla quale si trama un’immensa e formidabile insidia, e d’onde prorompe ogni poco e penetra nello stesso asilo di lui la potenza impetuosa del male. Se quello che noi diciamo sentimento della natura sembra nel medio evo pressochè estinto, non bisogna farsene meraviglia. Satana è nelle nuvole procellose che s’incalzan per l’aria, nella nebbia che si stende sulle terre e sui mari, nella pioggia che fa straripare i fiumi, nella grandine che distrugge i raccolti, nel vortice che inghiotte la nave; Satana rugge nel vento, divampa nella fiamma, si diffonde nella tenebra, urla nel lupo, gracchia nel corvo, fischia nel serpe, si cela in un frutto, in un fiore, in un granello di sabbia, è in ogni luogo, è l’anima delle cose.

Ma sebbene la giurisdizione di lui si stendesse sopra tutta la natura; sebbene egli potesse, in ogni parte della terra fermar la sua sede ed esercitare la sua potestà, pur nondimeno v’erano luoghi nei quali egli e il suo popolo dimoravano più volentieri che altrove, e che parevano essere da loro in più particolar modo occupati e dominati. Tali erano i luoghi deserti in genere, certe foreste, certi cucuzzoli di montagna, certe isole, alcuni laghi e fiumi, le città abbandonate, i castelli smantellati, le chiese diroccate. San Peregrino confessore, capitato un giorno in una tenebrosa foresta, ode improvvisamente un fragore spaventoso, e si vede accerchiato da una infinita moltitudine di demonii, che tutti gridano a squarciagola: A che sei venuto? questa selva ci appartiene, e serve all’esercizio della malvagità nostra. Gervasio di Tilbury racconta, in sul principio del secolo XIII che in Catalogna è un monte dirupatissimo, sulla cui cima si raccoglie un lago quasi nero e d’imperscrutabile profondità, e sorge, invisibile al comune degli uomini, un palazzo abitato da demonii. San Filippo d’Argirone cacciò i diavoli dal monte Etna. San Cutberto liberò l’isola di Farne dai demonii che l’occupavano; e nelle storie della fondazione di molti conventi si legge come fu necessario di togliere il luogo ai nemici, i quali non lo lasciarono se non dopo lunga ed ostinata difesa. Nella storia dei miracoli di San Guglielmo di Orange è ricordato un fiume, di cui i diavoli s'erano fatti padroni. Ugone d’Alvernia trovò in Oriente, durante la sua lunga e faticosa peregrinazione, una città tutta intera popolata di diavoli. San Sulpizio, andato a pregare una notte, mentr’era ancor fanciullo, in una chiesa diroccata, fu villanamente assalito da due diavoli neri che ci stavano di casa.


Se c’erano luoghi preferiti dagli spiriti malvagi e frequentati più volentieri da loro, non c’erano, per contro, luoghi in cui essi non potessero penetrare e attendere alle loro faccende. Le alte e spesse mura, le porte ferrate e munite di ponderosi catorci, non impedivano loro d’irrompere nei chiostri; e le chiese stesse, debitamente consacrate e regolarmente officiate, non erano sicure dalle loro invasioni. Il chiostro e la chiesa erano come due fortezze, rimaste in mano dei legittimi padroni in mezzo a un paese già corso e conquistato dai nemici.

I monasteri, reputati luoghi di salvazione, erano cinti di perpetuo assedio, e per quanto quei di dentro s’ingegnassero di far buona guardia, non era possibile sempre vietar l’ingresso a quegli avversarii così leggieri e spediti. Dov’erano frati e monache era sempre una gran ressa e un grande rimescolamento di diavoli d’ogni generazione. San Macario d’Alessandria, vissuto nel quarto secolo, vide una volta nella sua propria città una moltitudine di piccoli diavoli, simili a fanciulli neri, aggirarsi affaccendati tra i monaci, e tentarli in varii modi. Alcuni accarezzavano ai servi di Dio le palpebre per farli dormire; altri cacciavano loro in bocca le dita per farli sbadigliare. Pietro il Venerabile narra le tribolazioni d’ogni maniera che i diavoli davano ai santi abitatori dell’abbazia di Cluny. Cesario racconta di un abate Ermanno, il quale vedeva i diavoli balzar fuori dalle pareti, gironzar pel convento, mescolarsi coi monaci, correre a guisa di picciolissimi nani su e giù per il coro, schizzando faville, o trarre in volta gran corpi tenebrosi, con volti affocati, come di un ferro rovente. Turbato da tali visioni, chiese per grazia a Dio d’esserne liberato, e gli fu concesso; ma il capo di quei demonii gli si mostrò un’ultima volta, in forma di un occhio aperto e luminoso, grande come il pugno, pieno di vita e di malizia. Come l’occhio di Dio, l’occhio del diavolo era per tutto, vedeva tutto. Non avevano dunque il torto quegli antichi monaci, che a tutela dei chiostri e di sè ponevano la notte di contro al nemico, scolte e sentinelle: l’apostolo li aveva messi in sull’avviso: Vigilate!


Nelle sculture e nelle pitture che adornano le chiese del medio evo, i diavoli sono ritratti infinite volte, in tutti i modi, sotto tutti gli aspetti; ma, oltrechè scolpiti e dipinti, ci si lasciavano vedere vivi e sani, allegri e sfacciati; come in casa loro. Quanti monaci, stando a pregare in coro, non videro i diavoli ruzzar davanti l’altare, correre in questa banda e in quella, fare a rimpiattino tra le panche, rotolar per terra, spenzolarsi dai capitelli, spegnere i ceri, rovesciar le lampade, metter sozzure nei turiboli, voltar sottosopra i messali, senza un timore, senza un rispetto al mondo! Quante volte i maledetti non frastornarono gli oranti, non guastarono le sacre funzioni, frammettendo ai canti sacri stonature risibili, arruffando e confondendo nelle bocche innocenti le parole dei salmi, troncando sul più bello il fiato agli organi, mentre il demonio Tutivillo, serbato a quest’officio, andava raccogliendo di sulle bocche ogni error di lettura, ogni sfarfallone di pronunzia, e ne faceva fardello, da tirar poi fuori e sciorinare a suo tempo, nell’ora del giudizio, dinanzi all’anime intontite! La fanciulla, nel cui seno s’agitava una prima vampa d’amore; la moglie che non ogni pensiero aveva dato al marito; la suora cui terribili e pur cari fantasmi turbavano i sonni, s’accostavano tremando al confessionale, presso a cui, dietro il bruno pilastro, era acquattato il demonio, consigliera di peccaminose reticenze, e di più peccaminose menzogne. Forse, chi sa? quel monaco oscuro, immobile sotto la tonaca, perduto il volto nell’ombra del cappuccio, quel monaco silenzioso ed austero, dalle cui labbra doveva venire la santa parola dell’esortazione e del perdono, era egli stesso un diavolo camuffato. Se n’eran veduti di questi casi, e si ricordavano con raccapriccio.

Racconta il già citato Gregorio di Tours come Eparchio, vescovo degli Alverni ai tempi del re Childeberto, trovasse una notte la chiesa sua piena di diavoli, seduto il principe loro, in figura di laida meretrice, sulla cattedra episcopale. Cesario narra, giustamente sdegnato e scandalizzato, di una torma di diavoli, i quali entrarono in certa chiesa sotto forma di un branco di porci, sozzi e grugnenti. Moltissimi indemoniati furono invasi in chiesa. Non ebbe dunque torto l’antico ed ignoto artefice, che nella loggia esterna della chiesa di Nostra Donna in Parigi, pose una statua di demonio, appoggiata al parapetto, in postura di persona che stia a tutto suo agio, in luogo non vietato, ma familiare; e non ebbe torto il Lessing, quando immaginò di cominciare certo suo dramma non finito di Fausto con un conciliabolo di diavoli in una chiesa. Nel dramma del Longfellow intitolato La leggenda aurea, Lucifero, vestito da prete, entra in una chiesa, si genuflette per ischerno, si meraviglia che luogo così scuro ed angusto abbia il nome di casa di Dio, pone alcuna moneta nella cassetta delle elemosine, ben sapendo a quale uso queste si serbino, filosofeggia e deride, si siede nel confessionale e confessa il principe Enrico, assolvendolo con una maledizione, poi se ne va pei fatti suoi.


Il mondo fisico era in preda a una vera infestazione diabolica; ma così ancora era il mondo umano. In tutti i fatti della storia Satana era immischiato, sia per promuovere, sia per contrastare e confondere. Egli suscitava le eresie, egli poneva la tiara in capo agli antipapi e la superbia in cuore agli imperatori, egli sommoveva i popoli, preparava e capitanava le ribellioni e le invasioni. Le armi e le vittorie di quei saraceni che misero in periglio la cristianità, erano armi sue, vittorie sue. Della interminabile e varia tela della storia egli era il tessitore più operoso e più industre. I mali costumi e le cattive leggi, il fasto ed il lusso, gli spettacoli profani, il denaro per cui tutto si compra e si vende, erano sue invenzioni. Gli istrioni, i giullari, i bagatellieri, lavoravano per lui, sotto i suoi ordini. L’uomo che si mena in casa gl’istrioni e i saltimbanchi, dice Alcuino in una sua lettera, non sa quanto gran turba di spiriti immondi li segua. Le danze erano un trovato di Satana, ed ogni agio che altri potesse concedersi, ed ogni spasso, anche innocentissimo a primo aspetto, poteva celare, e celava quasi sempre, una diabolica insidia, e apriva l’adito alle diaboliche prepotenze. San Francesco d’Assisi, un giorno che era fieramente travagliato da un gran male di capo e di denti, chiede un guanciale di piuma per adagiarvi il capo; ed ecco subito farglisi addosso il diavolo e non dargli requie fino a tanto che il santo non abbia gettato lungi da sè il guanciale. Guiberto di Nogent narra la storia di certi cacciatori, che credendo d’inseguire un tasso, inseguono un demonio, lo prendono e lo mettono in un sacco; ma tosto assaliti da una infinita moltitudine di demonii, lo lasciano andare, e giunti a casa muojono. Finalmente Satana era bellezza, ricchezza, ingegno, scienza: egli era in ogni vizio e poteva celarsi dietro ogni virtù. Aveva ragione Salviano quando esterrefatto gridava: ubique daemon, il diavolo è per tutto,

Con giurisdizione così larga, con tanti svariati ufficii, i diavoli poco potevano stare in ozio. La vita loro era un perpetuo scorazzare i mari e le terre in busca di preda, un perpetuo affaticarsi in provocar peccati e preparare occasioni di peccato, un travagliarsi senza posa in mille opere di nocumento. Notte e giorno la bocca dell’inferno vomitava sopra la terra, sopra la misera umanità, le legioni dei diavoli arrabbiati, smaniosi di far nuovo male, e ringojava le legioni di quelli che, tentando, seducendo, insozzando, scompigliando, distruggendo, avevano fornito il compito. La tresca non aveva nè fine, nè tregua.

Al pensiero di una potenza malvagia così diffusa in ogni luogo, vigile sempre, sempre operosa, e per giunta invisibile, gli animi dovevano empiersi, e veramente si empievano, di terrore. La storia del medio evo è tutta intera come aduggiata dall’ombra immane che getta sopr’essa il nemico implacabile. Secondo una immaginazione degli arabi, in quella estrema e sconosciuta parte dell’Oceano Atlantico che aveva nome di Mar Tenebroso, mare seminato di portenti e di perigli, si vedeva sorgere di mezzo all’acque, all’orizzonte, la mano smisurata e nera del principe dei demonii, minaccia formidabile a’ troppo temerarii navigatori. Così di mezzo al mondo medievale, sopra le città che si raccolgono intorno alle chiese cuspidate come il gregge intorno al pastore, si leva tenebrosa e terribile, quasi in segno di dominazione, la mano di Satana. E quel terrore che ingombra gli animi prende forma e colore e plasticità nelle bieche visioni, nelle fosche leggende, e in tutta un’arte tormentata e mostruosa. Chi dicesse che nel medio evo la più gran moltitudine dei credenti fu governata assai più dal terrore di Satana che non dall’amore di Dio, assai più dal raccapriccio dell’inferno che dal desiderio del paradiso, non direbbe se non il vero. Mille spedienti e mille mezzi erano stati immaginati per contrastare alla potenza del terribile avversario, e per eludere le sue arti; ma si andò anche più oltre, e si cercò modo di mitigare la ferocità sua, di placarne il furore, come si userebbe con un dio malvagio sì, ma strapotente. Satana ebbe preghiere, oblazioni e vittime. Un benedettino francese, Pietro Bersuire (m. 1362), racconta, in un suo libro di esempli morali, la seguente istoria. Fra certi monti prossimi alla città di Norcia, in Italia, è un lago, abitato da demonii, che prendono e rapiscono chiunque si avvicini ad esso, meno gli stregoni di professione. Tutt’intorno al lago fu costruita una muraglia, vigilata da custodi, affinchè non possano andarvi i negromanti e consacrare i libri loro al nemico. Ma la cosa più terribile è, che in ciascun anno, quella città deve mandare in tributo ai demonii, sulla sponda del lago, un uomo vivo, che incontanente da quelli è fatto a brani e divorato. La città sceglie ogni anno, a tal fine, alcuno scellerato, degno di così miserabile morte; che se nol facesse, se volesse mancare del consueto tributo, sarebbe in punizione devastata e distrutta dalle procelle.

Ad aumentar quei terrori squillava di tanto in tanto, simile al clangore delle novissime trombe, in mezzo alla cristianità stupefatta, l’annunzio della prossima fine del mondo. Ora, si sapeva che per un tempo, prima della fine del mondo, la potenza di Satana, sarebbe, Dio concedente, cresciuta a dismisura. Il bene doveva trionfare da ultimo; ma il suo finale trionfo sarebbe stato preceduto da tale strabocco di perversità e di mali di ogni sorta, quale non s’era veduto innanzi sulla faccia della terra, e quale la più fervida fantasia non avrebbe potuto immaginare. Satana doveva esser vinto; ma non senza aver dato a Dio e alla sua Chiesa un’ultima e disperata battaglia.

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