< Il diavolo
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Capitolo 4 Capitolo 6

Capitolo V.


BURLE, TRUFFE, SOPRUSI, ANGHERIE

E VIOLENZE DEL DIAVOLO.




Ma Satana non si contenta del tentare. Sedurre gli uomini, trascinarli per mille strade al peccato, e, mercè il peccato, all’inferno, alla dannazione senza riscatto, non basta all’odio suo, alla sua invidia. Bisogna ancora che egli, in mille modi, li affligga e li tormenti, ed amareggi loro la vita con noje infinite, quando, per altri suoi fini, non gli piaccia di abbellirla loro, allietandola di falsi guadagni e di gioje bugiarde.

Satana, è, come abbiam veduto, un infaticabile operatore di calamità e di sciagure: le guerre, i morbi, le carestie, le ruine d’ogni maniera, le infinite disgrazie grandi e piccole che contrassegnano ogni istante del tempo che fugge, hanno in lui, il più delle volte, cagione e principio. Nè questo ancora gli basta. La notte, il dì, senza intermissione, egli, con l’innumerevole suo popolo, affronta buoni e perversi, picchia gli uni, strazia ed uccide gli altri, e quanti più può truffa e defrauda. Egli è, oltrechè un tentatore, anche un tormentatore di professione, e il suo ufficio di tormentatore esercita non meno sopra la terra che in inferno. Chi lo chiamò nemico ed avversario, omicida e ladro, pose mente, senza dubbio, a entrambi gli offici.

Satana fu chiamato il primo bugiardo, e, sembra, non senza ragione. Gli esempii delle sue menzogne, e dei danni che mercè loro egli reca a chi gli crede, sono infiniti. Narra alcun cronista del medio evo che egli apparve una volta, sotto figura di Mosè, a molti giudei che vivevano in Creta, e dato loro ad intendere di volerli condurre nella Terra Promessa, li fece tutti imbarcare, e poi in alto mare li sommerse. Guai a chi presta fede alle sue promesse ed ai suoi oracoli, o non è più che guardingo nel giovarsene! E quelle e questi sogliono essere espressi con parole artifiziose ed equivoche, tali che fanno nascere in chi le ascolta aspettazione contraria all’evento. Dice il proverbio che la farina del diavolo va tutta in crusca. Non sempre, ma molto sovente, le cose ch’egli mostra di fare in servigio altrui, e quelle che procaccia, riescono ben diverse da ciò che a primo aspetto sembravano: i denari, di cui suol essere largo donatore, si convertono in foglie secche, le gemme in carboni spenti, le vivande in sterco o in sassi. Prudenzio sapeva quel che diceva quando chiamava Satana un prestigiatore.

Satana si piace di fare alla gente burle e dispetti di molte sorta. Sono senza numero i pollaj disertati, i granaj votati, le cantine asciugate da lui. A san Morando monaco strappava la coltre dal letto; a santa Gudula spegneva il lume mentre era in orazione, e rovesciava il candelliere a san Teodeberto; a santa Francesca Romana empieva di mosche l’acqua da bere; ad altri rubava la tonaca, nascondeva l’uffizio, imbrattava la minestra. Ai monaci di san Dunstano sparecchiava a dirittura la tavola. I discepoli di san Benedetto stavano costruendo il cenobio. Bisognava mettere a posto una gran pietra; ma per quanto ci si affaticassero intorno non c’era verso di smuoverla: il diavolo ci s’era seduto sopra, e bisognò che venisse il santo in persona a cacciarlo via. Ma la burla peggiore, la più villana, a mio avviso, era questa: cogliere uomo e donna in flagrante peccato carnale e annodarli in indissolubile amplesso, more canino.

I santi erano fra tutti i più tormentati, e così doveva essere. Il diavolo odia i santi, non solo perchè servi di Dio, ma ancora perchè ogni loro atto, le preghiere, i digiuni, le pie opere, sono a lui ingiuria e tormento. Inoltre, certe nature d’uomini, inclinate alla melanconia, e nelle quali la fantasia sormonta, sembrano attirare il diavolo, e dargli buon giuoco. Dice Amleto che il diavolo ha grande potestà sopra nature come la sua. Del resto bisogna fare a questo proposito una distinzione. Il diavolo poteva contentarsi di tormentar l’uomo esteriormente, moltiplicando le offese e le angherie; poteva anche tormentarlo interiormente, cacciandosi in lui, invasandolo. Nel primo caso si aveva la ossessione propriamente detta; nel secondo si aveva la possessione. Ora, i santi, erano del continuo esposti alla ossessione, ma dalla possessione andavano, generalmente parlando, immuni.


La ossessione aveva, come la tentazione, alla quale andava molto spesso congiunta, forme e gradi infiniti, e a darne un concetto che in qualche modo si raccosti al vero, bisogna ricorrere senz’altro agli esempii, i quali, per buona sorte, sono infiniti ancor essi, e ci permettono di tener dietro al formidabile crescendo di quest’altro capitale esercizio diabolico.

La ossessione più leggiera e più semplice era quella che il demonio esercitava con solo esser presente. Nè c’era bisogno che la presenza sua fosse avvertita, che egli la facesse in qualche modo sentire. L’uomo il quale si credeva assiepato tutto intorno da una gran caterva di diavoli, che con occhi intenti e spalancati perpetuamente spiavano l’occasione di tentare e di nuocere, doveva provar l’emozione e il cruccio di chi si trovi solo in una foresta popolata di ladroni, o in mezzo a un grande stuolo di nemici poderosi e crudeli. Ma i diavoli potevano anche lasciarsi vedere, o sotto gli aspetti loro naturali, o sotto altri aspetti mostruosi e terribili, e per la via degli occhi gelar gli animi di terrore. Potevano anche farsi udire, e allora erano angosce d’altra maniera, e noje insoffribili. Infiniti santi, a cominciare da sant’Antonio, li udirono ruggire come leoni, urlare come lupi, stridere come aquile, fischiare come serpi, e li videro in figura di così fatti animali, venir loro incontro, aggirarsi loro d’attorno, tumultuosamente, rabbiosamente. Santa Margherita di Cortona, nella sua cella, li udiva cantare a squarciagola canzoni oscenissime. Altre volte erano invettive furibonde, contumelie atroci, spaventose minacce. Fuggendo, i diavoli, dopo aver torturato gli occhi e le orecchie, affliggevan le nari, lasciandosi dietro un odor nauseabondo, a cui nessun fetore della terra poteva paragonarsi.

Ma questo era nulla ancora. I diavoli non eran gente da rimanersi con le mani alla cintola, e o prima o poi venivano ai fatti. Qualche volta se la pigliavano con le cose inanimate, guastando, distruggendo, sperperando quanto capitava loro sotto; ma questa specie di danno recavano più volentieri ai profani che ai santi, i quali, o non possedevano nulla, o delle cose proprie non si curavano punto. Tuttavia un demonio tentò una volta con una scure di demolire la cella del santo eremita Abramo, là nel deserto, e un’altra volta diede fuoco alla stuoja su cui il santo dormiva. Se si trattava di santi, assai più volentieri che alle cose, i diavoli si attaccavano alle persone.

Per cinque anni continui san Romualdo dovette soffrire che il diavolo venisse ogni notte a sederglisi sulle gambe e sui piedi. A sant’Egidio, una volta, il diavolo saltò sulle spalle e ci si aggrappò così fortemente, che per più tempo non ci fu verso di levarglielo di dosso. Da questi due si fece sostenere e portare; altri, per contro, sostenne e portò egli stesso, ma, si può credere, con poco loro gusto. Più e più volte levò per l’aria, e trasportò da questo a quel luogo, la buona beghina Gertrude da Oost. Santa Francesca Romana fu da lui ripetutamente sollevata per i capelli, e una volta tenuta sospesa sopra carboni ardenti. I diavoli detti dusii avevano in uso di rapir le persone vive, portarle in luoghi spesso remotissimi da quelli ove prima avevano stanza, e lasciare in loro luogo immagini ad esse somiglianti.

Santa Francesca Romana ebbe, del resto, a soffrirne di tutti i colori. Un giorno, non sapendo che altro farle, il diavolo la legò a un cadavere putrefatto, e cominciò a voltolarla per terra come una fascina. Ma non so s’ella avesse più ragion di dolersi che la beata Cristina da Stommeln, che un sozzo demonio imbrattava villanamente di sterco.

Innumerevoli sono i santi che ebbero a patire violenze anche più gravi. San Simeone Stinta, il Giovane, ebbe una volta strappata dalla barba una man di peli; sant’Everardo fu schiaffeggiato notte e giorno, senza intermissione, dal Venerdì Santo alla Pentecoste, ossia cinquantadue giorni di fila. San Niccolò da Rupe fu ravvoltolato ben bene in un roveto. I santi Romano e Lupicino ricevevano addosso una gragnuola di sassi quando si mettevano in orazione; san Dunstano fu ancor egli preso a sassate. Dalle sassate alle legnate poco ci corre. Una notte sant’Antonio fu assalito da uno stuolo di diavoli, i quali lo lasciarono mezzo morto a furia di bastonate. A san Romualdo toccò la stessa disgrazia un giorno che s’era messo a cantare i salmi, e le busse furono tali che gliene rimasero i segni fin che visse. A santa Coleta i diavoli non si contentavano di dare le più villane bastonate di cui si abbia memoria, ma portavano ancora in cella i corpi degl’impiccati. A Tolentino si conservava, e forse si conserva ancora, il nodoso bastone con cui il diavolo aveva dato più di un carpiccio a san Niccolò che appunto si chiama da Tolentino. Il beato Giovanni di Dio fu ancora legnato in pieno secolo XVI.

Nè la cosa finisce qui. I diavoli minacciavano santa Francesca Romana di gettarla in un pozzo e di ucciderla; lasciavano mezzo accoppato san Mosè Etiope; tentavano di uccidere santa Caterina di Svezia; si studiavano di bruciar vivo in letto san Guglielmo di Roeskilde; precipitavano dalla cima di un monte sant’Alferio fondatore della celebre abbazia della Cava; per poco non istrangolavano sant’Antonio da Padova. A san Domenico, un giorno che stava pregando in chiesa, scagliarono dall’alto una grandissima pietra, e poco mancò che il santo non ci rimanesse sotto. Ai poveri tribolati non sempre mancava, in tali frangenti, il soccorso del cielo; ma il soccorso del cielo era un po’ come il proverbiale soccorso di Pisa. Il diavolo picchiava la beata Gherardesca, la stramazzava a terra, tentava di affogarla in Arno, e quando s’era stracche le braccia in così fatto esercizio, giungevano la Vergine e gli angeli e picchiavano il diavolo. Figuriamoci in quali peste dovesse trovarsi la povera santa Cristina da Stommeln, tormentata da 200,000 diavoli, e qual vita dovesse essere quella di certo prete di Colonia, del quale racconta Cesario che i diavoli lo inseguivano e tormentavano persino nella latrina.

Si possono contar sulle dita i santi che, in tutto il corso di vita loro, non soffrirono dal diavolo offesa e danno alcuno. Uno dei pochissimi fu san Niccolò, patrono di Trani: egli morì delle gran legnate che gli fece dare un vescovo. I peccatori erano poco tormentati dai diavoli, com’erano poco tentati, e spesso anzi ne avevano favori e carezze; ma pagavan cara qualche volta, anche in questo mondo, l’apparente immunità loro. Molti di essi furono da ultimo squartati vivi, fracassati, e abbruciati dai diavoli; molti furono portati via interi interi.


La ossessione più formidabile era quella a cui andavano soggetti i moribondi, fossero essi peccatori o santi. Il diavolo aspettava che l’uomo fosse disteso sopra un letto di dolore, vinto dal male, angosciato dal pensiero della morte imminente e del giudizio che lo attendeva, e gli dava allora l’ultimo e più terribile assalto. Secondo un’antica credenza, Satana aveva assistito, sul Calvario, alla morte del Redentore, anzi, dicevano alcuni, aveva osato, simile a un uccel di rapina, posarsi sopra uno dei bracci della croce; non doveva egli dunque assistere all’agonia delle sciagurate creature per la salute delle quali il Redentore aveva sparso il suo sangue? Non una, ma molte ragioni lo inducevano a far così, e non facevano se non confermare una divulgata opinione i vescovi di Reims e di Rouen, che in una lettera da essi scritta l’anno 858 a Luigi il Germanico, dicevano essere i demonii sempre presenti alla morte degli uomini, così dei giusti, come dei malvagi. In fatti, in quell’ultima ora della vita, i diavoli potevano sperimentare un’ultima e decisiva tentazione; potevano impedire, o render manchevole il pentimento; potevano cogliere a volo, e senza ritardo alcuno, l’anima rea che doveva, per l’eternità, farsi loro compagna; potevano, quand’altro non era loro concesso, far l’agonia più angosciosa e più orrenda. Certo, morire in una camera piena di diavoli arrabbiati e mostruosi, sopra un letto squassato da mani uncinate e impazienti, doveva essere una tortura ineffabile, ignota agli antichi. Lodovico il Pio cacciava da sè gli avversarii ansando con l’estremo anelito: “Fuori! fuori!„ Santa Caterina da Siena, essendo già in transito, ancora contrastava loro e teneva lor testa. La più crudele battaglia si doveva sostenere in quella appunto che l’ultime forze mancavano. Morire in tal modo e in tali condizioni doveva essere ardua e terribil cosa, e perciò non è da meravigliare se nel 1542 Domenico Capranica, vescovo di Fermo, raccogliendo gli ammaestramenti di molti suoi predecessori, scriveva un libro ch’ebbe molta fortuna e molte edizioni, e che s’intitola Ars moriendi, l’Arte di morire.

Che la tentazione potesse ancora trovar luogo quando l’uomo era ormai fuor dei sensi e quando sembra dovesse avere tutt’altra voglia che di peccare, parrà strano a molti, e pure era così. Si racconta di un povero giovane di Loreto, che avendo sempre menato vita onestissima, da ultimo s’innamorò di certa donna, ed ebbe con lei peccaminoso commercio. Infermatosi improvvisamente, e giunto in fin di vita, piange contrito il suo fallo, e fa una devotissima confessione, tanto che coloro che lo assistono si tengono sicurissimi della sua salvazione. Ma all’ultimo momento, quando egli era già per spirare, ecco farglisi accosto il diavolo, sotto le sembianze della donna amata, e chiedergli con voce tronca dai singhiozzi: “Adunque mi abbandonerai tu, amor mio?„ Il poveretto, dimenticando a quella vista e a quelle parole sè stesso, preso da un ultimo spasimo di tenerezza, raccoglie quanto gli rimane di fiato e mormora: “Mai non ti abbandonerò, mia diletta.„ Muore in quel punto, e il diavolo se ne porta l’anima all’inferno per tutta l’eternità. In altri casi il diavolo teneva altro modo: ricordava al moribondo tutti i peccati commessi e ne esagerava a bello studio la gravità, gliene imputava anche molti d’immaginarii, e lo assicurava ch’era irremissibilmente dannato; il tutto per farlo morir disperato e dannar veramente. Procurava anche di fargli credere che non ci fosse più tempo a pentirsi, e che il pentirsi era inutile.

Il diavolo finiva spesso i moribondi che sapeva suoi. Il venerabile Beda e il buon Passavanti narrano la storia di un vizioso cavaliere d’Inghilterra che, avendo rifiutato di confessarsi, quando era già preso dal male, morì per le mani di due diavoli che si posero con due gran coltellacci a tagliarlo, l’uno da capo e l’altro da piede. Cesario fa menzione di corvi diabolici che ai peccatori strappavano col becco l’anima dal petto.

Ho detto che quando non potevano, o non volevano altrimenti nuocere, i diavoli si studiavano di rendere l’agonia più angosciosa e terribile. I moribondi se li vedevano intorno al letto in sembianza di uomini smisurati e tetri, fuligginosi e torvi, i quali ficcavan loro nel viso gli occhi accesi e spalancati; li vedevano in figura di corvi e di avvoltoi volar per la stanza, in forma di serpenti pendere dal soffitto, e di rospi saltellare sul pavimento. San Gregorio Magno fa ricordo di un giovane che, combattendo con la morte, credeva d’essere divorato da un orribile drago. Spesso ancora i moribondi udivano il clangor formidabile delle trombe infernali, il frastuono e il fracasso delle enormi caldaje, delle smisurate graticole, dei ponderosi martelli, delle tenaglie, delle catene e degli altri stromenti di tortura senza posa ammanniti, rimescolati e tramestati dai diavoli, e l’incessante, disperato, spaventoso urlar dei dannati.


Ma assai più proficua della ossessione, quale l’ho definita e descritta, tornava ai diavoli la possessione. L’ossessione procacciava sfogo all’astio e alla invidia loro, ma la possessione era quella che li faceva padroni veri e assoluti degli uomini. Tanto che dovevano starsi paghi al tentare e al tormentare, i diavoli erano simili a soldati che assediino una fortezza, nella quale entreranno, o non entreranno, secondo i casi; ma quando dalla tentazione e dalla ossessione venivano alla possessione, erano come soldati vittoriosi, entrati nella fortezza e diventati padroni d’ogni cosa.

Chi è tentato e tormentato dal diavolo ha ancora di suo, se non altro, la volontà; ma chi è posseduto da lui, chi è indemoniato, gli appartiene tutto intero, anima e corpo, e se altri non lo libera, dopo aver trascinato alcun tempo la più scellerata vita che immaginar si possa, finisce inevitabilmente in inferno. L’anima dell’indemoniato è un’anima invasa da Satana, un’anima privata della vita sua propria, e che non si muove e non opera se non in quanto Satana la stimola, l’agita, la violenta e la travolge a suo senno.

Come mai poteva il diavolo così cacciarsi dentro l’anima altrui? Non è facile il dirlo. Sant’Ildegarde afferma che il demonio non penetra l’anima con la propria sostanza, ma solo l’investe con l’ombra e la nigredine sua. L’anima s’immergerebbe nella diabolica tenebra come un astro che si eclissa s’immerge nel cono d’ombra di un altro. Ma questa opinione si regge male, e giova più credere a una vera e propria penetrazione e commistione, le quali si compievano a volte con fulminea rapidità. Ogni pretesto era buono ai diavoli per invadere chi non si guardava e non si premuniva. Se l’anima non era più che intera e più che salda, correva pericolo grande e continuo, giacchè una incrinatura bastava a Satana per penetrarvi. Ogni peccato commesso, anche se minimo, era come una porta aperta al nemico, e non solamente ogni peccato, ma ancora ogni più leggiera negligenza, ogni più piccola sbadataggine. Un fanciullo ha sete e chiede da bere. Appare subitamente un diavolo travestito e gli porge un bicchier d’acqua: il povero bambino la beve senza pensare di farci su il segno della croce, e il diavolo gli entra in corpo. Questo si legge nella storia della invenzione di San Celso. A questo modo a un dì presso una monaca si cacciò in corpo il diavolo mangiando una lattuga: lo attesta san Gregorio Magno. Di una puerpera che inghiottì il diavolo Fumareth bevendo un bicchier d’acqua su cui s’era dimenticata di fare il segno della croce, si legge nella vita di san Bononio, abate di Lucedio. Chi poi era in peccato, non si poteva tener sicuro in luogo alcuno, e di nulla si poteva fare scudo. Nella leggenda di san Costanzo, arcivescovo di Conturbia, è riferito il caso di certo monaco giovane, invaso dal diavolo mentre cantava l’evangelo della messa. C’erano poi gl’indemoniati nati, ed erano tutti coloro i quali, venuti al mondo col peccato originale, non si erano lavati nelle acque del battesimo; tant’è vero che molte volte furono veduti i demonii uscir loro di bocca proprio nel punto che si battezzavano. I Massaliani, eretici del IV secolo, sputavano continuamente per espellere il demonio che credevano d’avere dentro.

Non sempre, del resto, l’invasione era improvvisa e subitanea. In una storia della morte e dei miracoli di Leone IX il diavolo ha la bontà di dire che molte volte egli, prima d’invadere l’anima, ingombra il corpo, tenendovisi occulto, ma generando sonnolenza, pigrizia e fame. Era questo, come si vede, il periodo d’incubazione della possessione. Anzi il corpo si poteva considerare come un ordinario abitacolo di demonii. Dice santa Brigida nelle sue Rivelazioni che il diavolo sta nel cuor dell’uomo come il verme nel pomo, nei genitali come un nocchiero in nave, fra le labbra come un sagittario con l’arco teso.

L’invasione poteva essere di un diavolo solo, di molti, e i molti potevano non invadere tutti in una volta, ma a più riprese, in varii stuoli, secondo chiedeva il bisogno. Di un indemoniato, in cui erano entrati 6666 diavoli, si legge già nell’Evangelo di San Luca. Gregorio Magno racconta: Una giovane sposa, in Toscana, doveva recarsi alla cerimonia della solenne dedicazione di una chiesa a San Sebastiano. La notte precedente all’andata cercò ed ebbe, in mal punto, le carezze del marito. Entrata la mattina seguente nel santuario, fu subito invasa da un diavolo che, scongiurato, saltò addosso al prete. I congiunti condussero la donna, non bene guarita, sembra, a certi incantatori, i quali non ottennero altro con l’arte loro se non di farla invadere da 6666 diavoli nuovi. Questi finalmente cedettero alle preci di un sant’uomo per nome Fortunato. Una indemoniata, che sant’Ubaldo liberò con molti stenti, ne aveva addosso 400,000: in altri casi si vide un diavolo solo posseder più persone. Interrogato, il diavolo diceva di solito il suo nome, e indicava la ragione e il modo della invasione.


La possessione si rendeva manifesta per un gran numero di fenomeni, o strani, o prodigiosi, parte fisici e parte psichici. Negli indemoniati le condizioni e le funzioni tutte della vita erano più o meno alterate e turbate. In molti una voracità straordinaria era il sintomo più spiccato della infezione diabolica; e lo storico Teodoreto, nel V secolo, ricorda il caso di certa donna la quale divorava ogni giorno non meno di trenta polli. Spesso tale voracità era accompagnata da perversione profonda dell’appetito e del gusto, e allora si vedevano gl’indemoniati inghiottire avidamente le cose più sudice e stomachevoli, il che sembrava del resto convenirsi assai bene alla sozza natura dei diavoli. Altri indemoniati, per contro, mostravano per qualsiasi cibo repugnanza profonda, e duravano in digiuni lunghissimi senza che ne venisse loro danno alcuno. Del resto i diavoli facevano dei posseduti da loro quello che lor meglio piaceva. Centuplicavano in essi le forze, o li facevano cadere in deliquio e in catalessia; li sollevavano da terra, tenendoli sospesi a mezz’aria, o li stramazzavano al suolo; li piegavano in due, li capovolgevano, li raggomitolavano, li facevano girare su sè stessi come trottole, ruzzolar come cercini, capitombolare, gesticolare e contorcersi in mille guise, strane, ridicole, spaventose. Ancora, li facevano latrare come cani, muggir come buoi, gracchiar come corvi, fischiar come serpi, urlar com’anime dannate, e spesso per le loro bocche eruttavano fiamme e fetidissimo fumo. Governati dai diavoli a questo modo, molti indemoniati avevano il viso macilento, l’occhio vitreo, la carnagione terrea, il corpo consunto; ma altri apparivano vegeti, pingui, rubicondi, e davano così nuovo esempio e nuova prova della molteplicità degli artifizii diabolici.

Queste erano le meraviglie e le singolarità d’ordine fisico; ma c’erano ancora, e più notabili, le meraviglie e le singolarità intellettuali e morali.

La persona morale dell’indemoniato era una persona mutata di pianta, o in vario modo alterata; non di rado soppressa interamente, oppure ritagliata e sminuita. In fatti, nell’indemoniato non c’era più un’anima sola; ma ce n’erano almeno due, e potevano essercene le centinaia e le migliaja, se a centinaia od a migliaja si contavano i demonii invasori, e la vita psichica di lui, tanto che la possessione durava, era il risultamento e il prodotto della sovrapposizione, dell’intreccio, della fusione di quelle due, o di quelle cento, o mille anime. L’indemoniato, secondo che variava l’influsso diabolico, secondo che l’accesso sopravveniva o si dileguava, perdeva o racquistava coscienza di sè, ricordava o non ricordava il passato, era lui, o non era lui, o era solamente una parte e un frammento di sè.

Gl’indemoniati mostravan di solito profondo pervertimento morale. Bestemmiare Iddio, la Vergine, i santi; deridere le verità della fede, e le cerimonie del culto; mostrare una ripugnanza estrema, anzi un vero ribrezzo pei sacramenti e per tutto quanto appartiene alla religione e ai suoi ministri, erano portamenti e atti che assai sovente, se non sempre, li facevano riconoscere a primo aspetto. Essendo il diavolo padre di menzogna, gli è naturale che gl’indemoniati di consueto mentissero, ma giova pure avvertire che non mentivano sempre, e che qualche volta dicevano la verità, spontaneamente, senza esservi sforzati. Anzi, cosa più notabile ancora, la verità da essi detta tornava sovente in danno lor proprio, cioè di quel demonio che avevano in corpo, e in onor della Chiesa e della religione. Così si ricordano indemoniati i quali molto sanamente argomentarono contro l’idolatria e l’eresia; indemoniati che indicarono sepolcri ignoti di uomini santi; indemoniati che svelarono le altrui turpitudini occulte, e le altrui ignorate virtù; indemoniati che designarono la persona che con frutto poteva esorcizzarli. Non si dimentichi poi che la possessione poteva anche in certi casi accompagnarsi con la pietà più profonda e con le pratiche tutte di devozione.

Le facoltà mentali dell’indemoniato ora apparivano depresse ed ottuse, ora invece, ed era questo il caso più frequente, esaltate ed acuite; c’era l’indemoniato muto, e c’era l’indemoniato loquace. Infiniti parlarono lingue non mai apprese, rivelarono segreti occultissimi, indicarono i luoghi dove si sarebbero ritrovate cose perdute o rubate, diedero conto, come se le avessero presenti, di cose che avvenivano in remoti paesi, predissero alcuna volta persino l’avvenire. Una smania degli indemoniati fu spesso quella di palesare i peccati non confessati delle persone che capitavano loro dinanzi: più di un esorcista, mentre attendeva al malagevole suo officio, ebbe la sgradita sorpresa di sentirsi così recitare in pubblico la lunga e poco edificante litania dei peccati commessi.

La possessione, la quale era più frequente assai tra le donne che non tra gli uomini, assumeva alle volte carattere contagioso. Un primo indemoniato ne suscitava un secondo, un terzo, e ne poteva suscitare altri cento. Così è che si videro più di una volta gli abitanti di un intero villaggio, o i frati, e più spesso le suore, di un intero convento essere invasi in brevissimo tempo dai diavoli. Basterebbe ricordare a tale proposito il celebre esempio delle Orsoline di Loudun, uno dei meno antichi e dei più noti. A cominciare dalla badessa, suor Giovanna degli Angeli, le diciassette suore del chiostro furono tutte invase dal diavolo, e le rivelazioni ch’esse fecero agli esorcisti e ai magistrati costarono la vita al povero Urbano Grandier, che era stato loro confessore, e che fu arso per mago. L’esempio delle monache di Loudun può dirsi in certo modo recente, perchè del secolo XVII; ma esempii molto più antichi non mancano. Nel 1490, le suore del monastero di Quercy, nel Belgio, furono invase dai diavoli, e rimasero indemoniate quattr’anni. Nel 1124 furono invasi dai diavoli i religiosi del monastero di Prémontrè, fondato da san Norberto. Le danze epidemiche, le quali a più riprese, e in varie province d’Europa, apparvero nel corso del medio evo, erano ancor esse fenomeni di possessione generale e contagiosa.

L’indemoniato da sè non si poteva liberare; bisognava che altri lo ajutasse. La operazione di liberare altrui dal demonio si chiamava esorcismo, e a così fatto esercizio provvide la Chiesa istituendo appunto l’ordine degli esorcisti. Vedremo più là quali argomenti si adoperassero contro il demonio nell’esorcismo; ma voglio dire subito che la pratica non andava senza difficoltà grandi, e, qualche volta, senza grande pericolo. Spesso il diavolo, uscito di corpo all’indemoniato, entrava in corpo all’esorcista.

La possessione poteva essere acuta, con un certo decorso, o cronica: la beata Eustochia da Padova fu posseduta tutta la vita.

Il diavolo usciva sempre di mala voglia, e più tardi che poteva, e quando era costretto a far piazza pulita, s’ingegnava ancora di nuocere e spaventare fuggendo. Spesso metteva urli terribili, e sgusciando via si portava dietro l’uscio o un pezzo di soffitto, o la cappa del camino, oppure, lasciato l’uomo tramortito in terra, si cacciava in corpo a un bue, a una pecora, o ad altro animale. E ora usciva con la forma sua propria, ora con la forma di un pipistrello, di una biscia, di un rospo, di un uccello nero, o come un fumo denso e nauseabondo. Molti indemoniati guarirono subitamente dopo aver vomitato il desinare, oppur dopo una colica violenta, o un copioso flusso di ventre.

Gl’indemoniati ora non si curano più dagli esorcisti, ma dai medici, e ciò malgrado che il gesuita Giovanni Perrone abbia nelle sue Prælectiones theologicæ con molta diligenza enumerati i segni in virtù de’ quali si può sicuramente distinguere la possessione da certe malattie che hanno con essa alcuni caratteri comuni. In questa materia il reprobo Charcot sa ciò che nessun teologo ha mai saputo.

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