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Capitolo IV.
IL DIAVOLO TENTATORE.
Satana non ispera più di riconquistare in cielo il posto che ha perduto. Egli rimpiange l’antica felicità, ma nel rimpianto non anneghittisce, anzi procura di accrescere a sè stesso grandezza e potenza. Egli è re; vasto e popoloso è il suo regno, ed ei può farlo maggiore e popolarlo vie più. Se l’umanità non sarà più sua tutta intera, sarà ancora sua la più parte. Rendere labile e scarso, quanto più far si possa, il frutto della redenzione; moltiplicar sulla faccia della terra l’errore; far della terra, invano bagnata del sangue di Cristo, un altro inferno, e della storia umana una sequela rovinosa di mali, dove peccato e dolore s’indentano l’uno nell’altro; tale sarà il suo costante proposito, tale il perpetuo suo studio. Ogni peccato commesso, ogni anima rubata al cielo e guadagnata all’inferno, segnerà un suo trionfo. Sia pure forte e salda la Chiesa come uno scoglio in mezzo ai marosi; egli saprà bene investirla e percuoterla d’ogni intorno, facendola tremare sin nelle fondamenta, e staccandone di tanto in tanto alcuna pietra angolare. Vigili il pastore, e vigilino i cani a custodia del gregge; egli, come un lupo affamato, anzi come il leone ruggente ricordato dall’apostolo, non cesserà dal rapire delle dieci pecorelle le nove.
Satana non può far sue le anime se prima non le intrida e non le corrompa di peccato; ma l’umana natura, tuttochè redenta, è proclive e pronta al peccato. Satana non può far forza al libero volere; ma può di tal maniera moltiplicargli le insidie d’attorno che esso abbia quasi necessariamente a soccombere. Satana è il grande, l’infaticabile tentatore. Egli tenta Eva e ardisce di tentar Cristo: qual meraviglia se tenta gli uomini anche più santi? Anzi gli è contro ai più santi ch’egli usa ogni sua industria, giacchè i non santi, senza troppo contendere, gli si fanno seguaci e servitori.
Questo della tentazione era un esercizio molteplice e vario, irregolare e malagevole, che prendeva norma dalle occasioni e dalle condizioni, si piegava e mutava secondo le persone, i tempi, i luoghi, richiedeva sottile accorgimento, e non di rado grande perseveranza. La tentazione era un’arte in cui Satana dava a conoscere tutto il suo ingegno e tutta la sua destrezza.
Le occasioni del tentare erano innumerevoli. San Paolo aveva detto: “Non fate luogo al diavolo;„ ma il diavolo sapeva farsi luogo da sè. Aveva anche detto: “Resistete al diavolo ed egli fuggirà da voi;„ ma spesso spesso chi più strenuamente resisteva era più ostinatamente assalito. Sottrarsi interamente al suo influsso non era possibile; non era nemmeno possibile evitare in tutto il suo pernicioso contatto. L’anima timorata poteva fare come la testuggine, restringersi tutta nel suo guscio; ma per fare che facesse lasciava sempre aperto un qualche adito, entro a cui il demonio poteva spingere l’ugna acuta e rapace. Chi viveva nel mondo, e della vita del mondo, non solo s’imbatteva in Satana ad ogni passo, ma si può dire vivesse in Satana, perchè la mondanità, nel tutto insieme delle sue parvenze ingannevoli, de’ suoi lenocinii e delle sue lascivie, non è se non Satana. Vivere nel mondo e non peccare, gli è come voler tuffarsi nel mare e non bagnarsi. Chi viveva nel mondo era dunque soggetto ad una tentazione continua; ma chi se ne ritraeva non cessava d’esser tentato. I buoni cristiani, che scandalizzati e nauseati della corruzione cittadina, e di tutta quella che appunto chiamavasi la pompa del diavolo, cominciarono, sin dai tempi di Costantino il Grande, a disertar la città, a fuggire il consorzio degli uomini, a cercare il deserto, ritrovarono nelle solitudini dell’Egitto e dell’Asia quel medesimo Satana che con tanto studio avevano voluto fuggire. E non altrimenti incontrò a quegli altri fuggiaschi del mondo che, senza disertar le terre popolate e le stesse città, cercarono fra le mura dei chiostri un asilo sicuro contro il temuto avversario. E gli uni e gli altri ritrovaronsi a fronte quel medesimo Satana, anzi un Satana molto più insidioso e più acerbo. L’assalto suo non cessava, ma mutava alquanto di qualità. Nel mondo la tentazione era continua, minuta, diffusa in certo qual modo nelle cose ch’erano perpetuo incentivo di peccato, e però non violenta d’ordinario: in solitudine si faceva acuta, subitanea, intermittente, ritraeva del parossismo. Nel mondo la tentazione sembrava muovere più dalle cose esteriori; in solitudine toglieva argomento dalle mal vinte energie dell’organismo, da ogni moto dell’animo che potesse in qualche maniera essere avviamento a peccato. Nessuna occasione di tentazione, per quanto fuggevole, per quanto dubbia si fosse, fu mai trascurata da Satana. Come si credette che ciascun’anima avesse, durante il terrestre pellegrinaggio, compagno un angelo, che si adoperava a guidarla sulla via della salute, così si credette ancora avesse compagno un diavolo che senza posa si studiava di trarla a perdizione. A destra l’angelo custode, a sinistra il diavolo tentatore.
Tutti gli uomini potevano esser tentati, ma la tentazione variava, secondo il sesso, l’età, la condizione propria di ciascuno, quando semplice e poco o punto dissimulata, quando artificiosa e fraudolente. Mezzi sicuri a preservarsi dalla tentazione non c’erano, giacchè quegli stessi che avevan più credito ed erano più universalmente preconizzati, spesso spesso si mostravano inefficaci alla prova. I santi erano, come ho già detto, assaltati e perseguitati con più furore, perchè, dicevasi, importa a Satana assai più trionfare d’uno di loro che non di mille altri. Noi, guardando la cosa sott’altro aspetto, potrem dire che i santi, a cagione appunto di quella continua ed angosciosa preoccupazion di peccato che turbava le anime loro, e delle macerazioni insensate cui assoggettavano il corpo, credendo così di nettarlo da ogni mala prurigine di carnali appetiti, si esponevano assai più che altri alle fiere battaglie della tentazione. Vero è altresì che tali battaglie erano da essi spesso invocate e cercate, come quelle in cui la virtù loro brillava di lume più vivo, e ritraeva dal trionfo vigore novello. Ma checchessia di ciò, Satana sapeva, il più delle volte, commisurare alla qualità e condizione di ciascuno il grado e la forma della tentazione, e così facendo si dava a conoscere non meno buono psicologo di quello fosse buon loico.
Come i tempi non tutti, così non tutti i luoghi erano egualmente opportuni e propizii all’opera della tentazione. Quel della notte era il tempo più acconcio, non solo, perchè cresce col crescere delle tenebre la potenza diabolica, ma ancora perchè nelle tenebre i fantasmi suscitati da Satana non così facilmente si scoprono bugiardi. E l’ora fra tutte più propizia era quella in cui il sonno comincia a occupare le membra affaticate, quando si smarriscono i sensi, non però chiusi ancora alle impressioni del mondo esteriore, e cessa nell’anima la vigilanza della volontà e del giudizio. Ond’è che non senza ragione san Pacomio dormiva seduto, e chiedeva a Dio l’insonnia per poter meglio combattere il nemico.
I modi e le forme della tentazione erano innumerevoli, come sono innumerevoli gli atti dell’anima e i fatti della vita. Non c’era così tenue pensiero, non così picciolo avvenimento da cui Satana non sapesse cavare argomento di tentazione, e quando l’occasione mancava, egli la faceva nascere. Quegli strani documenti della credenza cristiana che sono le leggende dei santi, riboccano di racconti che il provano, e forniscono non di rado notizie e indizii preziosi per la cognizione dell’umana natura.
Talvolta la tentazione era assai semplice, si offriva con poco o punto apparato, e si raccoglieva tutta in un solo momento. Sant’Antonio, le cui tentazioni sono diventate famose e proverbiali, viaggiando una volta nel deserto, trovò in terra un disco d’argento: era una insidia del demonio che voleva fargli nascere in cuore un peccaminoso rincrescimento delle lasciate ricchezze. Sant’Ilarione, affamato, si vedeva improvvisamente davanti gran copia di vivande squisite. A santa Pelagia, che un tempo era stata commediante in Antiochia, ed erasi poi ritirata a vita contempativa in una spelonca del Monte Oliveto, il diavolo offriva, oggetto di desideri antichi, anelli, monili, gemme d’ogni sorta. Queste immagini bugiarde si dileguavano così subitamente come erano apparse.
Alcun’altra volta l’apparato e l’ostentazione eran maggiori, le larve allettatrici o paurose si moltiplicavano e si variavano, la tentazione si sceneggiava. Sant’Ilarione, mentre pregava, si vedeva schizzar sotto gli occhi lupi ululanti, volpi squittenti, assisteva a pugne improvvisate di gladiatori, vedeva i morenti rotolarsi a’ suoi piedi, e gli udiva implorare da lui la sepoltura. Una notte, mentre vegliava com’era consueto, cominciò a udire vagito di bambini, belato di greggi, muglio di buoi, rugghio di leoni, pianto di donne, un murmure vasto, come di esercito in campo. Conosciuto il diabolico ludibrio, si butta in ginocchio, si segna in fronte, e si guarda d’attorno, aspettando nuovo portento. Ed ecco, subitamente, al lume della luna, vede un cocchio, trascinato da focosi cavalli, farglisi addosso. Invocato dal santo il divin nome di Cristo, incontanente s’apre la terra ed inghiotte il fantasma. Il tutto era opera di Satana, voglioso di stogliere il buon servo di Dio dalla meditazione e dalla preghiera, e di rendergli incresciosa, popolandola di terrori, la solitudine. Le storie dei santi riboccano di sì fatti esempii.
Queste, che Satana esercitava col sussidio di larve ingannevoli, o, come pure accadeva, con quello di cose reali e corporee, erano tentazioni assai poderose, perchè occupavano i sensi, e attraverso i sensi investivano l’anima, sempre così pronta a farsi ancella dei sensi; ma tra esse tutte la più formidabile era quella che toglieva argomento dai pervicaci istinti della generazione e dell’amor sessuale. Era questa la tentazione che procurava a Satana i maggiori trionfi.
Il cristianesimo ha maledetto la carne, ha infamato l’amore. L’atto vario e molteplice ne’ modi, ma uno nel principio, per il quale le creature si riproducono, e a cui gli antichi avevano preposta una delle maggiori, e certo la più radiosa fra le divinità dell’Olimpo, è, agli occhi del cristiano, essenzialmente malvagio e turpe, e la malvagità e turpitudine sua possono a mala pena, nella progenitura d’Adamo, essere emendate dal sacramento. Il celibato è pel cristiano, se non altro in teorica, condizione di vita assai più pregevole e degna che non il conjugio, e la continenza è virtù che va tra le maggiori. Lattanzio afferma essere la verginità come il fastigio di tutte le virtù, e il grand’Origene, detto l’adamantino, non aveva aspettato l’affermazion di Lattanzio per porsi, con le proprie sue mani, nella impossibilità di perderla.
Non è dunque da stupire se gli asceti consumarono spesso il meglio delle forze loro nella disperata fatica di spegnere in sè medesimi ogni favilla di concupiscenza, di sedare ogni benchè involontario e minimo fremito della carne; ma non è dà stupir similmente, se in cotal opera di ribellione contro alla natura, essi, più di una volta, furono soperchiati e vinti. Per fuggir le insidie di Venere, riparavano nei deserti, si muravan nei chiostri; e Venere rinasceva dentro di loro, dall’orgoglio degli umori, come già altra volta dalla spuma del mare, e soggiogava le lor fantasie. Per sottrarsi al temuto contagio, ricusavano di vedere, dopo anni ed anni di separazione, le madri e le sorelle; ma la donna invadeva le loro celle egualmente, immagine vagheggiata e detestata ad un tempo. A un accenno fortuito, a un pensier fuggitivo, la virilità, compressa, ma non vinta, insorgeva con impeti belluini, mordeva e dilaniava quelle carni esacerbate dalle mortificazioni. Ed erano battaglie spaventose che lasciavano affranto, anche se vittorioso, l’atleta di Cristo. Oh quante volte, scriveva san Gerolamo alla vergine Eustochia, essendo io nel deserto, in quella vasta solitudine arsa dal sole, che porge ai monaci orrenda abitazione, immaginava d’essere tra le delizie di Roma! Sedeva solo, piena l’anima di amarezza, vestito di turpe sacco, e fatto nelle carni simile ad un Etiope. Non passava giorno senza lacrime, senza gemiti, e quando mi vinceva, mio malgrado, il sonno, m’era letto la nuda terra. Nulla dico del mangiare e del bere, essendochè i monaci, anche ammalati, non bevono se non acqua, e stimano lussuria ogni vivanda cucinata. E quell’io, che per timor dell’inferno m’era dannato a tal vita, e a non avere altra compagnia che di scorpioni e di fiere, spesso m’immaginava d’essere in mezzo a schiere di fanciulle danzanti. Il mio volto era fatto pallido dai digiuni, ma nel frigido corpo l’anima ardeva di desiderii, e nell’uomo, quanto alla carne già morto, divampavano gl’incendii della libidine. Allora, privo d’ogni altro soccorso, mi gettavo ai piedi di Gesù, li bagnavo di lacrime, li tergevo co’ miei capelli, e la carne ribelle soggiogavo col digiuno di una intera settimana. Non arrossisco in confessare la mia miseria; anzi piango di più non essere qual fui. E mi sovviene che assai volte, gridando e pregando, vidi succedere al giorno la notte, e come non cessassi dal percuotermi il petto finchè, alla voce di Dio, non fosse in me tornata la calma.
Sono senza numero i santi a cui il diavolo apparve in figura di leggiadra fanciulla, o di nobil matrona pomposamente vestita, e non rarissimi quelli che non seppero vincere la terribile tentazione. Di solito la falsa e diabolica donna fingeva d’avere smarrita la via, d’essere stata soprappresa dal mal tempo o dalla notte, ovvero anche, come l’Abimelech del Boccaccio, d’avere abbandonato la casa e la famiglia per darsi al servizio di Dio, e con volto dimesso, con grande umiltà e onestà di parole, chiedeva al sant’uomo asilo e protezione. E se il sant’uomo, mosso da intempestiva pietà, o troppo fidente nella virtù propria, accoglieva nella sua celletta, appena capace di due persone, la bella supplicante, c’era pericolo, ma pericolo grande, che la cosa andasse a finir male. Ruffino d’Aquileja narra a tale proposito una storia degna d’essere scelta fra cento.
Viveva nel deserto, e abitava in una spelonca un monaco, uomo di grandissima astinenza, adorno, di tutte le virtù, solito di passare in orazione i giorni e le notti. Costui, vedendo il profitto che faceva in santità, cominciò a montare in superbia, e a dare tutto a sè il merito che solo apparteneva a Dio. Il demonio, ciò conoscendo, non tarda ad apparecchiare e tendere i suoi lacci. Ed ecco, una sera, giunge dinanzi alla spelonca del santo uomo una bellissima donna, la quale, entrata dentro, fingendosi al tutto vinta dalla stanchezza, si getta ai suoi piedi, e con ogni istanza lo prega di volerle dare ricovero: la notte l’ha colta in quel deserto; non la lasci, per carità, in preda alle fiere. Egli, impietosito, l’accoglie benignamente, e comincia a chiederle la ragion del suo viaggio; ella narra una sua storia, ingegnosamente ordita, e con arte sparge di blandizie e di lusinghe il racconto, ora mostrandosi degna di commiserazione, ora meritevole di difesa, e con la eleganza e soavità del discorso circuisce e soggioga l’animo di lui. A poco a poco il colloquio si fa più intimo; alle parole si mescolano il riso e gli scherzi, ed ella, fatta ardita, non tarda a stendere la mano alla barba di lui, ad accarezzargli dolcemente la nuca e il collo. Ed ecco, è già vinto il milite di Cristo. Divorato dalle fiamme della concupiscenza, dimentico del suo passato, non curante del frutto di tante fatiche strenuamente sostenute, egli, fatto simile a un bruto (dice Ruffino), già si accinge agli osceni amplessi. Ma in quella appunto, la menzognera immagine, gettando un urlo spaventevole, fugge dalle sue braccia, lasciando lui in assai indecoroso (Ruffino dice più e meglio) e ridicolo atteggiamento. Allora i demonii, che in grande moltitudine erano ivi congregati nell’aria, spettatori del turpe fatto, lo scherniscono, gridando a gran voce: “O tu, che ti estollevi sino al cielo, come sei così precipitato in inferno? Conosci ora che chi si innalza sarà umiliato.„ Dopo così dolorosa avventura, il mal consigliato monaco, disperando della salute, fece ritorno al mondo, e tutto si abbandonò all’impudicizia e all’iniquità, e si diede irrevocabilmente in preda a Satana.
Avverte Ruffino che il monaco avrebbe potuto con le lacrime del pentimento lavarsi del peccato commesso, e ritornare, con le astinenze e le orazioni, nella grazia di prima. In fatti, san Vittorino, vescovo d’Amiterno, cadde nello stesso peccato; ma seppe con formidabile penitenza riscattarsi dalle mani del vittorioso nemico. E così fecero altri parecchi. C’è appena bisogno di dire che quando si trattava, non di santi, ma di sante, il diavolo assumeva l’aspetto di un bel giovane, non meno audace che tenero. In tal forma appunto egli si mostrò a santa Francesca Romana, che molto ebbe a soffrire della sua importunità.
Non sempre il diavolo si piegava a far la parte che in questi racconti si vede, o non sempre lo giudicava necessario. Egli poteva contentarsi talvolta di far nascere certi desiderii, perchè i desiderii sono già peccato per sè stessi, e la sua naturale tristizia poteva trovare una soddisfazione tutta particolare in far nascere quei desiderii e in non dare poi modo di appagarli. Narra san Gregorio Magno che il diavolo accese una volta in corpo a san Benedetto una concupiscenza così rabbiosa e spasimata che il povero santo, a chetarla, non trovò altro, rimedio che di spogliarsi ignudo e voltolarsi ben bene in uno spineto. Quando altro non poteva, il diavolo provocava polluzioni notturne, le quali, tuttochè involontarie, potevano essere peccato, se accompagnate da immagini lascive e da sentimento di voluttà, e bastavano, a ogni modo, a tener deste certe energie, a metter la fantasia in subbuglio.
Volentieri il diavolo prendeva questa o quella forma, sia per tentare più efficacemente, sia per indurre altrui piuttosto in uno che in altro peccato. Ai santi uomini si lasciava spesso vedere in figura di angelo, circonfuso di luce, o di santo, o di Cristo stesso, con in fronte i segni della divinità, e ciò a fine di farli salire in superbia, provocando in essi un esagerato concetto della lor santità, o anche per suggerir loro false e malvage dottrine, funesti propositi. Gli è con quest’arte che egli riuscì, più di una volta, a persuadere il suicidio ad uomini d’impeccabile vita, che avevano insino allora respinto vittoriosamente ogni suo assalto. Si narra di un monaco Erone, che da cinquant’anni menava nel deserto austerissima vita, per modo che nemmeno il giorno di Pasqua allentava il rigore delle astinenze. Un giorno il diavolo gli appare in figura d’angelo, e gl’impone di gettarsi capofitto in un pozzo, ciò ch’egli fa senza indugio, fermo nella opinione che ne uscirà illeso, e che sarà questa una grande e irrefragabile prova della sua santità e della grazia divina. Altri monaci riescono con grande fatica a trarnelo fuori, ed egli in capo di tre giorni si muore.
Altro esempio. Guiberto di Nogent (m. 1124) racconta la storia di un giovane che aveva peccato con una donna, e che pentito se n’era andato in pellegrinaggio a San Giacomo di Gallizia. Un bel giorno gli apparve il diavolo sotto le sembianze del santo, e gl’impose per penitenza di tagliarsi, prima ciò che il discreto lettore vorrà indovinare senza ch’io il dica, e poi la gola. Obbedì l’incauto giovane, e sarebbe andato senza remissione in inferno, se la beata Vergine non l’avesse in buon punto risuscitato. Tornò vivo, ma non riebbe più ciò che s’era tolto con le proprie sue mani.
Certi santi invece, per quanto s’immascherasse, il diavolo non riusciva a ingannarli. Ho già ricordato san Martino. Una volta il diavolo gli si presentò con la porpora indosso, la corona in capo, i calzari dorati, e gli disse: “Non mi conosci? io sono Cristo.„ Ma il santo: “Che Cristo! Cristo non ebbe nè porpora, nè corona, ed io non lo conosco se non ignudo, quale fu sulla croce. Tu sei il diavolo.„ Se i papi avessero meditato questa risposta!
Più raro era il caso che il demonio venisse a tentare sotto l’aspetto suo proprio, ma anche questo caso si dava. Satana non si trasformò, nè si travestì per tentar Cristo. Una volta san Pacomio vide una torma di diavoli trascinare un fastello di foglie e fingere di durarci una grande fatica, non per altro che per muoverlo al riso. Ora, il riso, se non era peccato, poteva essere semente di peccato, I migliori monaci non ridevano mai, anzi piangevano spesso, come quel sant’Abramo di Siria, che non passò mai un giorno senza piangere.
Non parlo delle mille tentazioni minute e leggiere che intravenivano pressochè del continuo, e non avevano altro scopo che di distogliere dalla meditazione e dalla preghiera, o di far rinnegare la pazienza a chi le pativa; come, per esempio, ripetere, a guisa d’eco, le parole dei leggenti, fare sternutire ripetutamente un predicatore nel più bel punto del suo discorso, fare che una mosca importuna si posasse dieci volte di seguito sul viso di chi stava per abbandonarsi al sonno, ecc. ecc. Ma abbiasi a mente che non è tentazione così piccola e lieve la quale non possa divenir principio d’irreparabile caduta. Mettete un seme in terra, e se non fanno difetto gli elementi e le condizioni necessarie alla vegetazione, il seme diventa pianta. Così il diavolo, che sa queste cose, riesce con una prima tentazione, spesso leggierissima, a porre nell’animo un primo germe di peccato, e questo germe, ajutato da lui, subito alligna, cresce, si fa pianta e reca in breve i perniciosi suoi frutti. C’era un eremita, che menava vita austerissima, e aveva grande riputazione di santità. Un giorno gli capita innanzi il diavolo, in sembianza di un uom dabbene, e gli dice: “Voi vivete così solo; perchè non togliete con voi un gallo che vi serva di compagnia, e vi faccia la mattina levare a tempo?„ Il povero eremita ricusa da prima, poi esita, ma finalmente segue il consiglio e toglie il gallo. Che sarà? un gallo non è mica il diavolo. Ma il gallo a star solo s’annoja, smagrisce di giorno in giorno. Allora l’eremita, per sentimento di carità, gli provvede una gallina. Non l’avesse mai fatto! La vista di certi spettacoli ridesta nell’animo suo ardori antichi, e che egli certamente credeva spenti per sempre. Si innamora della figlia di un gentiluomo del vicinato, assai giovane e bella, e pecca con lei; poi per celar la sua colpa e sottrarsi alla vendetta dei parenti, uccide la giovane, e la nasconde sotto il letto. Ma si scopre il misfatto, e il colpevole è condannato all’ultimo supplizio. Salendo il patibolo egli esclama: “Ecco a che termine m’ha condotto un gallo!„
Queste erano tentazioni che davano al diavolo poca faccenda, e che quasi da sè venivano al fine loro; ma ce n’erano altre che il diavolo preparava di lunga mano, e a cui attendeva con diligenza indefessa, con pazienza miracolosa. Una storia che ebbe nel medio evo grandissima voga, e che fu narrata tra gli altri dal nostro Bernardo Giambullari, racconta come il diavolo, una volta, si fece bambino, e, in tal forma, chiese ed ottenne d’essere accolto in un monastero il quale era in grandissimo odore di santità. L’abate, uomo dabbene, lo fece istruirete vedendo che il fanciullo imparava ogni cosa con somma facilità, ed era di ottima indole, e assai costumato, stimava avere il convento fatto un grande acquisto e ne ringraziava Iddio. Quando il fanciullo fu cresciuto, ed ebbe l’età, vestì l’abito, con grande giubilo dei fratelli; e morto, dopo qualche anno, il vecchio abate, egli n’ebbe, per voto unanime, la dignità. Ma non andò molto che la regola del convento cominciò ad allentarsi, i costumi a corrompersi. Il nuovo abate migliorò assai il vitto, accordò facilmente dispense, e agevolò in tutti i modi le relazioni dei suoi monaci con le suore di certo monastero ivi presso. Lo scandalo era grande e si faceva ogni giorno maggiore. Il papa, informatone, mandò sul luogo due monaci di santa vita, e di sua fiducia, perchè vedessero e provvedessero. Costoro cominciarono le loro indagini, e a un certo punto il diavolo, sentendosi scoperto, gettò le insegne dell’usurpato officio, e si sprofondò nella terra. I monaci traviati fecero penitenza, e l’antico ordine fu restaurato. In Danimarca, in Germania, in Inghilterra, fu notissima un tempo la storia di frate Ruus, Rush, o Rausch, un diavolo che si pose per cuoco in un convento, fece da mezzano all’abate e agli altri monaci, fu dopo sette anni ricevuto nell’ordine, e tutto il convento avrebbe condotto in perdizione, se non fosse stato scoperto per caso.
Come si vede, il demonio, da quel volpone ch’egli è, non prendeva sempre la via più diritta per venire ai suoi fini, ben sapendo che non sempre la più diritta è la più corta, e la più sicura. Anzi, non di rado, egli prendeva una via che sembrava doverlo condurre ad un fine affatto opposto a quello che s’era prefisso, ma tanto più sicura per lui quanto meno sospettata dagli altri. Così, se vedeva un uomo tutto dedito alle pratiche di devozione, chiuso ad ogni lusinga, inaccessibile all’errore, egli non perdeva il tempo a stuzzicarlo con tentazioni di carattere più o meno mondano; ma, all’incontro, lo esortava a perseverare, lo stimolava a inasprire vie più le macerazioni, a moltiplicare le preghiere, a esagerare le pratiche tutte dell’ascetismo, e giungeva persino ad inspirargli una grande conoscenza delle Scritture, come se ne può vedere esempio nella Vita di san Norberto, vescovo di Magdeburgo. Di san Simeone Trevirense si racconta che i diavoli volevano fargli dire la messa per forza, lo toglievano dal letto, lo menavano davanti all’altare, gli ponevano indosso le vesti sacerdotali. La conseguenza non insolita di tutto ciò era che il sant’uomo, meravigliando della propria santità, cominciava a levarsi in superbia, e a perdere, per questo solo peccato, il frutto d’ogni sua virtù. Così per voler essere troppo santi si finiva qualche volta all’inferno.
Ad esercitare questa specie di tentazioni il diavolo di rado si valeva di argomenti esteriori, che potessero fare impressione sui sensi, ma si giovava, d’ordinario, della pericolosa facoltà ch’egli ha di sommuovere gli animi umani e d’influirvi in vario modo. Nè quelle erano, come può bene immaginarsi, le sole tentazioni che egli, in grazia di quella sua facoltà, potesse esercitare. Dato che la volontà non patisca violenza da lui, tutte le altre potenze dell’anima umana soggiacciono al suo influsso, e questo influsso si risolve in un lavoro di tentazione continua. Ed anche qui le Vite dei santi abbondano di esempii e di prove. Sullo specchio dell’anima egli faceva passar l’ombre che più gli piacevano, e nella viva sostanza di lei spargeva a larga mano i più svariati fermenti. Suscitava fantasmi fascinatori, evocava ricordi pungenti, acuiva desideri, sollevava dubbii, incuteva terrori, fomentava inquietudini dolorose e profonde, promoveva quell’intimo e generale turbamento dello spirito entro a cui si forma e si addensa il peccato come si forma e si addensa la nube negli avvolgimenti della bufera.
Così il diavolo era sempre attorno alle anime per sedurle e per rapirle, e gli è perciò ch’ei fu chiamato cacciatore, pescatore, stupratore, ladrone, omicida delle anime. San Gerolamo ebbe a chiamarlo pirata, perchè, veramente, questo mondo è come un mare in tempesta, dolorosamente navigato da noi, e corso trionfalmente da lui. Dico da lui e dovrei dire da loro. Perchè tutti i diavoli facevano mestiere di tentatori, ed era anzi opinione ricevuta comunemente che ciascun vizio avesse suoi particolari demonii, che l’insegnavano e fomentavano. Costoro ricevevano dal principe gli ordini necessarii e le opportune istruzioni, poi, compiuta l’opera, tornavano a darne conto, e quelli che s’erano fatti poco onore trovavano assai brutte accoglienze. San Gregorio Magno racconta di un così fatto consesso o conciliabolo diabolico, tenuto in un tempio di Apollo. Nelle Vite dei Santi Padri è un curioso racconto, il quale prova che i diavoli avevano un bel da fare a contentare il principe. Il figlio di un sacerdote degli idoli, entrato un giorno nel tempio, vede Satana in trono, circondato della sua milizia, e in atto di esaminatore e di giudice. Viene un demonio, e l’adora, e Satana gli domanda: “Dove fosti, e che facesti?„ Quegli risponde: “Fui nella tal provincia, e suscitai guerre e turbazioni grandissime, e feci versar molto sangue.„ “E quanto tempo, chiede Satana, spendesti in tal opera?„ ― “Trenta giorni.„ ― “Tanto ti ci volle?„ dice Satana, e senz’altro ordina che sia bastonato ben bene. Capita un altro diavolo. ― “D’onde vieni, che hai fatto?„ ― “Fui sul mare, e levai grandi burrasche, e sommersi molte navi; feci morire assai uomini.„ ― “In quanto tempo?„ ― “In venti giorni.„ ― “Troppi!„ esclama Satana, e ordina subito che anche questo sia bastonato. Sopraggiunge un terzo diavolo, e ricomincia l’interrogatorio: “A te; dove fosti, e che facesti?„ ― “Fui nella tal città, e mentre si festeggiavano certe nozze, eccitai gli animi, accesi litigi e zuffe, e procurai molte uccisioni, e ammazzai anche lo sposo.„ ― “In quanti giorni?„ ― “In dieci.„ ― “Oibò! “ dice Satana, e lo dà in mano ai bastonatori. Ecco finalmente un quarto diavolo. “D’onde vieni? che facesti?„ ― “Fui nel deserto, dove tentai un monaco lo spazio di quarant’anni, e solo la scorsa notte riuscii a vincerlo e a farlo fornicare.„ In udir ciò Satana si leva da sedere e bacia il demonio; poi la propria corona gli pone in capo, e se lo fa sedere a fianco, dicendo: “Gran cosa facesti e ti comportasti da valoroso.„
Questa storia lascia intendere, fra altre cose parecchie, che la tentazione poteva essere qualche volta opera assai laboriosa; ma quanto laboriosa fosse la resistenza alla tentazione, non dice. I Dottori affermano, gli è vero, che la tentazione non supera mai le forze del tentato, così chiedendo la bontà e la giustizia di Dio; ma gl’infiniti tentati che caddero dovettero essere, in generale, d’altro avviso. Comunque sia, sta il fatto che resistere alla tentazione non era, alcuna volta almeno, senza grande pericolo. Cesario racconta il lacrimevole caso di un brav’uomo, il quale, avendo ricusato di fare all’amore con un diavolo, fu dal diavolo afferrato per i capelli, levato in aria, e poi scaraventato in terra, per modo che, dopo un anno, se ne morì.
Tutti gli uomini erano, come abbiam veduto, esposti alla tentazione, e la tentazione durava tutta la vita. Il santo, anzichè andarne immune, la sperimentava più violenta e più assidua di ogni altro: ciò nondimeno egli aveva un modo di liberarsene del quale non potevano fruire i miseri peccatori. Quando egli aveva domati in sè tutti gli istinti e tutte le energie; quando a furia di digiuni, di flagellazioni, di veglie, di orazioni, aveva uccisa la carne, scombujata la memoria, spenta la fantasia, assiderato l’intelletto; quando aveva fatto dentro di sè il silenzio e la immobilità della morte, la tentazione cessava, come cessa la fiamma, quando più non trovi a che appigliarsi. Chi abbia, come san Simeone Stilita, passato mezzo secolo in cima a una colonna, può ridersi di tutte le arti del tentatore. Il santo, diventato un sasso, ha raggiunto la perfezione.