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Capitolo XV.
LA FINE DEL DIAVOLO.
Alla conversione e alla redenzione del diavolo c’è un impedimento a cui non hanno pensato i teologi, e che i teologi negherebbero anzi, se ci pensassero: il diavolo è morto, o sta per morire; e morendo, egli non rientrerà nel regno dei cieli, ma rientrerà e si dissolverà nell’umana fantasia, nella stessa matrice ond’è uscito.
Secondo la opinione dei rabbini molti demonii sono mortali. Nei processi contro le streghe più di una volta le accusate narrarono che il diavolo ammalava di tanto in tanto, giungeva in punto di morte, poi si riaveva: in molte fiabe popolari, tuttora vive qua e là per l’Europa, il diavolo muore a dirittura. Mi basterà di ricordarne una mantovana, dove un giovane prende varie forme per isfuggire al diavolo, che varie ne prende egli pure inseguendolo. Da ultimo il giovane, mutatosi in faina, uccide il suo persecutore che s’era mutato in gallina: “è questa la ragione,„ conclude il racconto, “perchè non c’è più il diavolo."
Strana e significativa un’affermazion così fatta nella bocca del popolo. Il diavolo non c’è più: prima di lasciar lui e la sua storia, vediamo qualche sintomo e qualche ragione del suo disvenire. Il diavolo nacque di certe cause, visse e prosperò in certe condizioni, adattandosi come potè meglio al loro lento ma continuo variare. Alla legge di variazione, che governa tutte le cose, soggiacque egli pure, e, come un organismo vivo, percorse tutti i gradi della evoluzion della vita: mancate le cause e le condizioni dell’esser suo, egli si estenua e muore, come farebbe un animale dei tropici trasportato sotto il rigido cielo settentrionale. Egli muore perchè la sua funzione è cessata, e perchè l’idea che lo fece vivere non riesce più, nel vasto agone della concorrenza vitale, a tener testa ad altre idee, più vigorose e più giovani.
Per iscorgere i sintomi del suo morire basta guardarsi d’attorno. Che cosa è ora l’opera sua a riscontro di quella d’altri tempi? Dove sono le spaventose sue apparizioni, le insidie perpetue, le offese d’ogni maniera, le meraviglie paurose? dove sono le formidabili milizie con cui egli di nottetempo attraversava pianure e foreste, o trasvolava per l’aria? dove i neri cavalli su cui rapiva gli uomini scellerati? dove gl’incendii suscitati da lui, le procelle scatenate da lui, le malattie devastatrici da lui cagionate? La Chiesa stessa, la quale non può concedere che il diavolo muoja, deve pur riconoscere ch’egli va assai più rattenuto di prima, e ha cessato di far molte cose che prima faceva.
E negli animi il pensiero, il sospetto e la paura di lui sono venuti sempre più mancando, non solo tra le persone colte, ma ancora tra il volgo; non solo nelle città, dove è più sollecito il rinnovamento delle idee e dei costumi, ma ancora nei campi, dove persiston più a lungo le antiche credenze e le consuetudini antiche. Il nome di lui ricorre frequente nel linguaggio famigliare, in proverbii, apostrofi e maniere di dire; ma l’immagine sua è, di solito, assente dagli spiriti. Pratiche magiche usano ancora tra le plebi ignoranti; ma è rarissimo ormai il caso che ci si faccia entrare il demonio, e dei famosi sabbats, o ritrovi, o giuochi, più nessuno parla. A chi mai ora potrebbe venire in mente, salvo ch’ei fosse matto spacciato, di evocare il demonio, di stringere un patto con lui, di dargli l’anima, di ripromettersi da lui ricchezze ed onori? La Chiesa stessa, di tali e simili peccati, che in altri tempi puniva col fuoco, oramai più non discorre, e volentieri pare che se ne dimentichi. Anzi va più là, e del demonio stesso parla il meno che può; e mentre fu sua cura in passato di richiamarne sempre, in tutti i possibili modi, alla memoria degli uomini, il nome, l’aspetto, la potenza, le opere, ora sembra che di tutto ciò più non si ricordi essa stessa. Così riman provata la legge di evoluzione in quegli stessi organismi che a cotal legge si mostrano più ribelli, e più s’illudono d’essere perpetui ed immutabili. Paragonate una predica di ora con una predica di cinque secoli addietro. In questa il diavolo salta in mezzo ad ogni frase, mostruoso e ribile, illuminato dai bagliori spaventosi dell’eterna fornace; in quella sarà molto se di passata se ne pronunzia il nome. Paragonate una chiesa moderna con una chiesa del medio evo. In questa il diavolo sotto tutti gli aspetti, in tutti gli atteggiamenti, dipinto, scolpito, intagliato, nei quadri, nei bassorilevi, negli scanni del coro, nei capitelli, nei fregi, sempre in iscena, personaggio immancabile di un dramma lungo e vasto quanto la storia stessa dell’umanità; in quella il più delle volte, non un’ombra, non un segno di lui.
Nessuno ora, viaggiando, teme più di capitare in tenebrose foreste, in solitudini alpine, in orrende spelonche, in laghi senza fondo, in gorghi di mare infestati da demonii traditori ed omicidi. Se un peccatore ostinato sparisce improvvisamente senza lasciar traccia di sè, a nessuno più viene in fantasia che il diavolo l’abbia preso pei capelli e portato a volo in inferno; ma si fanno indagini, si mandano avvisi, con la ferma persuasione che, o vivo o morto, egli abbia ad essere in un qualche luogo, non dell’altro, ma di questo mondo. Se si trova un pover uomo strangolato in letto, nessuno crede più che sia stato il diavolo quegli che gli diè la stretta; ma si dice senz’altro che un delitto è stato commesso, e la polizia si dà le mani attorno per iscoprire il colpevole. Le donne non temono più gli abbracciamenti notturni del diavolo, e di diventar madri di diabolica prole, o di vedersi portar via da un diavolo, supposto padrino o tutore, i figli delle loro viscere. Chi ammala, più non s’immagina d’essere stregato, o d’avere il diavolo in corpo, e ricorre, non all’esorcista, ma al medico; chi muore, non si vede più intorno al letto una corona di diavoli fuligginosi e tetri, con le mascelle irte di denti aguzzi, con gli occhi strabuzzati, con distese le mani uncinate, in atto di ghermirgli l’anima. Una prova, fra l’altre, che la preoccupazione diabolica è mancata negli animi, o è, almeno, straordinariamente scemata, si ha nel fatto che le così dette demonopatie sono divenute rarissime, e tendono a sparire del tutto. Nei secoli scorsi, e sino a tempi non molto da noi lontani, certe malattie nervose, e in più particolar mado certe forme d’isterismo, davano luogo regolarmente ai fenomeni dell’ossessione e della possessione diabolica, appunto perchè le menti erano piene del pensiero e del terrore del diavolo: ora invece si risolvono in manifestazioni di tutt’altra natura, determinate dal modo del viver presente, dal mutato indirizzo delle idee, da nuovi interessi e da preoccupazioni nuove. I medici l’hanno veduto e detto da un pezzo. I miracoli già fatti dagli esorcisti nelle chiese si fanno ora dai medici nelle cliniche.
La civiltà umana, procedendo nell’opera del suo meraviglioso e sterminato edifizio, muta e rimuta continuamente gli strumenti del lavoro, abbatte essa stessa e distrugge le impalcature e i ponti e gli altri ajuti onde si servì per innalzarlo. Ciò che in un tempo le fu necessario, le diviene in un altro inutile o nocivo, ed essa se ne sbarazza a dispetto di chi non vuole e di chi le contrasta. La civiltà nostra espelle da sè il diavolo, che la servì in altri tempi, ma che ora le è divenuto un inutile ingombro; lo espelle da sè, come espelle la schiavitù, il privilegio, il fanatismo religioso, il diritto divino e tant’altre cose, e come tant’altre ne espellerà in avvenire. A ciò non è riparo possibile. Il diavolo era parte integrante e principale di tutto un ordine di cose e d’idee, di un reggimento complesso e potente, che raccolse per secoli sotto di sè tutta intera la vita. Mutato quel reggimento in certa misura, bisognò mutasse la parte serbata in esso al diavolo; proceduta più oltre la mutazione, bisogna che il diavolo n’esca. Una religione più grossolana, una morale più acerba e l’ignoranza introdussero il diavolo, e ne fecero il mostro che abbiam veduto; una religione più culta, una morale più matura e la scienza gli tolgono a mano a mano le orribili qualità e la spaventosa potenza, lo premono da ogni banda, lo cacciano dalla coscienza, dalla vita, dal mondo. Lo spirito che nega è negato a sua volta.
Chi voglia esser giusto non deve troppo rimproverare alla Chiesa d’aver lasciato crescere la figura del tenebroso avversario per modo da farne quasi un altro Arimane, e d’aver così offeso il diritto e snaturato il concetto del regno d’Iddio: chi, senza i debiti temperamenti e la voluta indulgenza, rinfaccia alla Chiesa di non essersi grettamente attenuta alla semplice e pura dottrina degli Evangeli, mostra di conoscer male la natura umana, e d’avere della storia, de’ suoi procedimenti e delle sue necessità un assai falso concetto. Il diavolo è un portato della storia, e come tale, dotato, finchè durano certe condizioni, d’invincibile e indomabile vitalità. La Chiesa, quando pure l’avesse saputo e voluto fare, non sarebbe stata in grado di soffocarlo e di sopprimerlo, giacchè egli perpetuamente si rigenerava nella coscienza dei singoli, e dalla coscienza dei singoli prorompeva con nuovo impeto nella storia. Immaginare nel medio evo una religione, non professata solo da pochi, ma comune a infiniti, e senza diavolo, sarebbe impossibile, come sarebbe impossibile immaginare in altre condizioni di tempi e di civiltà una religione senz’idoli, senza oracoli, senza sacrificii cruenti. Il diavolo del medio evo ha, senza dubbio, la origin sua e la sua radice in un dogma religioso anteriore a quella età; ma è quella età, presa nel tutto insieme del suo pensiero, delle sue istituzioni e de’ suoi costumi, che gli dà la pienezza l’essere e la perfezion del carattere. Esso è necessario allora, ed è così vero ciò, che la Riforma non lo tocca e lo accetta qual è.
Ma una religione muta a poco a poco al par di ogni altra cosa che viva; muta negli animi, se non nei dogmi, nei sentimenti, se non nei libri. Anche il cristianesimo muta, e mancati gli ostacoli che gliel vietavano prima, ritorna a poco a poco alla purità delle origini, tende sempre più a spiritualizzarsi, e a ridiventare essenzialmente, quale fu nei primordii, religione di speranza e d’amore, di letizia e di pace, rimovendo da sè tutto il tenebroso e il terribile che la barbarie di lunghi secoli le trasfusero in seno. Tale lavoro, pur troppo, non ancora si compie nei dogmi, nè coloro lo fanno che si chiamano custodi e ministri di verità, sieno essi di qual grado si vogliano; ma si fa da sè, spontaneamente e silenziosamente, a poco a poco, nell’intimo e nel secreto delle coscienze. Quanti cristiani ho io conosciuti e conosco, e dei più profondamente religiosi, e dei più degni, che del diavolo non vogliono udir discorrere, e risolutamente negano che un Dio di misericordia e d’amore possa dannare ad un perpetuo inferno, ad una malvagità irreparabile, ad un castigo spaventoso ed inutile, appunto perchè eterno, le sue povere creature! Ora, la religione vera (l’abbiano a mente coloro che se ne credono maestri) non è quella che rigida e assiderata si costringe nei dogmi, ma quella che viva e mobile, a guisa di fiamma, divampa negli animi, e li riscalda, e illumina le vie della vita.
Come muta la religione, così muta ancor la morale, e le due mutazioni non possono andar disgiunte l’una dall’altra, ma l’una è coordinata all’altra, e determinata dall’altra, ed entrambe sono condizionate da altre mutazioni via via, e a volta loro le condizionano, compiendo così quel vasto e labile cerchio di cause e di effetti per cui si muove infaticabilmente la vita storica della umanità.
Checchè altri possa dire in contrario, mosso da preconcetto, o da erronea cognizione di tempi e di cose, la morale cresce nel mondo, inteso, sotto il nome un po’ vago di morale, l’insieme di quegli stati mentali e di quelle forme di operosità che assicurano l’esistenza e la prosperità dei singoli uomini e delle associazioni loro, e favoriscono le manifestazioni più alte della vita individuale e sociale. L’uomo si umanizza a poco a poco, discostandosi sempre più dalla belva, e la morale, attraverso i secoli, si affina, si allarga, s’innalza. C’è più umanità nel mondo ora che non un secolo fa, assai più che non nel medioevo, infinitamente più che non nell’età della pietra. So che i fautori di una morale rivelata e immutabile negano, come possono meglio, tutto ciò; ma guai per loro se ciò che essi negano a priori non fosse vero. E le prove che sia vero sono infinite, sparse a piene mani in ogni pagina di qualsiasi libro di storia si apra. Volerle riferire, anche per piccola parte, sarebbe stucchevole; ma facciamo una semplice supposizione. Supponiamo che il medio evo, co’ suoi re e co’ suoi baroni, con le sue fazioni e le sue città divise, con le guerre di conquista, con le guerre civili e con le guerre religiose, avesse avuto i mezzi formidabili di distruzione che la scienza ha dato a noi; ci sarebbero ancora nel mondo mura di città e di castella, ci sarebbero ancora popoli civili? È lecito dubitarne.
Gli uomini, pel fatto stesso della convivenza sociale, diventano sempre più morali; vivendo in società essi sempre più si adattano e si piegano a quelle forme e condizioni di vita che sono necessarie o proficue all’esistenza della società medesima. È un caso questo di quel generale fenomeno ch’è l’adattamento degli organismi all’ambiente. La moralità diventa un abito, si fa istintiva, come tutti gli atti di volontà eccessivamente ripetuti, e si trasmette per via di generazione; e come più diventa istintiva, meno abbisogna del precetto o del divieto della legge e della sanzion della pena. Se le leggi si van facendo sempre men aspre, e men aspri i castighi, è questo un segno, non di scemata, ma di cresciuta moralità: l’imperiosità esterna della legge si fa imperiosità interna della coscienza, e il castigo, che di sua natura non corregge, si fa rimorso, cioè ravvedimento. Ecco perchè sparisce dalle legislazioni moderne la pena di morte, e spariscono molt’altre pene atroci che già furono in uso; ecco ancora perchè vien meno e si perde la credenza in un diavolo tormentatore e in un inferno pien di dannati a cui nessuna speranza sorride. Nel medio evo, per ogni più lieve colpa il giudice minaccia la morte, il confessore l’inferno, e con ragione, giacchè ogni altro argomento sarebbe scarso a trattener dal mal fare uomini rozzi e violenti; ma a trattener dal mal fare uomini raggentiliti bastano argomenti meno terribili, e la pena di morte è abolita e il diavolo si dilegua. Come più gli uomini divengono atti ad essere governati con la ragione, più divengono disadatti e ricalcitranti ad essere governati col terrore. Perciò ancora ai reggimenti despotici sottentrano i liberali; e quando altri fatti nol provassero, basterebbero a provare che la morale è cresciuta, la cessazione del despotismo, la mitigazion delle leggi e delle pene, la sparizione del diavolo.
Finalmente c’è la scienza, che compie il lavoro cominciato da una religione più illuminata e da una morale più perfetta, e che sarebbe in grado di tutto farlo da sè, anche senza il concorso di quelle. Chi dice scienza, dice, tra l’altro, il contrario di demonismo. Il demonismo nasce spontaneo nella storia, non per opera di ciurmadori; e risponde a certa condizione degli spiriti, e a certi modi di cognizione. L’uomo rozzo non riesce altrimenti a spiegarsi i fenomeni della natura che ponendo una volontà simile alla sua dietro a ciascuna cosa, popolando il mondo di esseri superiori alla natura, buoni o cattivi. È questo il demonismo. Viene la scienza, e fa vedere che dietro le cose non ci sono volontà capricciose, ma forze disciplinate, e che la natura non obbedisce ad arbitrii, ma a leggi. Il demonismo è, perciò solo, incontanente e irreparabilmente distrutto. Gli uomini del medio evo veggono e sentono il diavolo per tutto, nel vento che imperversa, nell’onda che irrompe, nella fiamma che divampa, nella folgore, nella grandine, nel fuoco fatuo, nelle malattie, nel pensiero e nel sentimento lor proprio; gli uomini moderni, per poco che abbiano qualohe coltura, non veggono nella vita delle cose se non una perpetua fluenza di cause e di effetti, della quale si può, ogniqualvolta soccorra cognizion sufficiente, predire e descrivere il moto. Essi hanno dinanzi a sè, non il regno dell’arbitrio, ma il regno della necessità. Come si caccia di posizione in posizione un nemico, la scienza ha cacciato d’uno in altro fenomeno il diavolo, e non gli ha lasciato più, sulla terra e nel cielo, un angolo solo ov’egli possa fermare il piede, e d’onde possa gettar novamente la sua ombra sul mondo. Essa ha fatto anche di più: ha mostrato come e perchè il diavolo sia nato, di quali elementi dell’animo nostro sia stato formato, e l’ha reso assai più cognito a noi, che lo neghiamo, di quello fosse nei secoli andati a coloro che ci credevano. Arrigo Heine dice, in una sua poesia, d’avere evocato una volta il diavolo, e d’aver ravvisato in lui, guardandolo bene, un antico suo conoscente. Noi possiam dire di più; noi possiam dire che nel diavolo, guardandolo bene, riconosciamo noi stessi.
La scienza combatte e caccia dinanzi a sè tutte le superstizioni, di qualunque natura esse sieno, dovunque le trovi, e non poserà finchè tutte non le abbia vinte e dissipate; ma essa non le affronta tutte con eguale impeto, nè di tutte trionfa egualmente. Le minori si salvano dal suo urto più facilmente che non le maggiori, appunto perchè offrono minor presa, e di poco spazio e di poco nutrimento si contentano; così l’erbe del prato sono appena agitate dal turbine che passa, mentre gli alberi più poderosi sono divelti. La scienza può lasciar sussistere l’umile superstizione, di piccolo significato e di poca efficacia, vegetante a fior di terra; ma non la superstizione rigogliosa e tenace, che con le infinite propaggini le attraversa ogni tratto la via; non la superstizion prepotente che aveva empiuto del diavolo le cose e le anime, la natura e la storia. Questa superstizione essa necessariamente combatte ad ogni passo che muove, dovunque la incontri; ed ecco perchè, mentre continuano a vivere indisturbati nella fantasia popolare molti fantasmi, prole vivace della paura e dell’ignoranza, il diavolo vien meno, il diavolo muore, il diavolo sfuma.
Strana vicenda delle cose di quaggiù! muore e sfuma per virtù della scienza quel diavolo che già fu creduto suscitatore delle inquiete curiosità e delle silenziose ribellioni dello spirito, onde nasce appunto e inorgoglisce la scienza. Satis scis si Christum scis, abbastanza sai se Cristo sai, diceva la sapienza degli asceti e dei santi; ed ogni altro sapere era guardato con sospetto, e si accusavano d’aver patteggiato col diavolo gli uomini che delle cose della natura avessero qualche lume, col diavolo, l’antico bugiardo, che sedusse la donna promettendo la scienza. E i trionfi della scienza, e il crescere di una civiltà nuova di cui la scienza, ogni giorno più, si fa moderatrice e maestra, furono pianti e maledetti come opere e vittorie del diavolo.
Ed ecco il diavolo trasformarsi nel sogno e nell’accesa parola del poeta, e diventare un simbolo luminoso e mirabile, il simbolo della scienza imperterrita e indomita, che dirocca i dogmi e sbarba le superstizioni; della ribellione, che abbatte tutte le tirannie; della libertà, sotto le cui grand’ale una nuova vita s’instaura. Il Voltaire chiamava frères en Belzébuth gli amici suoi migliori, che, come il D’Alembert e il Diderot, cooperavano con lui al grande rinnovamento filosofico e civile. Il Michelet, nella Sorcière, narrò questo Satana simbolico, e a questo sciolse il suo inno il Carducci:
Salute, o Satana, |
Satana fu Dio a sua volta ed ebbe adoratori e preci; e un altro poeta, il Baudelaire, nelle ambasce d’un dolor senza nome, lo chiamava in suo ajuto:
O toi, le plus savant et le plus beau des Anges,
Pére adoptif de ceux qu’en sa noire colère |
Il vinto si muta in vincitore, rientra in quel cielo onde fu bandito, e uccide il suo nemico. L’empio Rapisardi narrò in mirabili versi questa suprema vittoria di Lucifero:
Così dicendo (ed additava il sole |
Ma questi sono simboli e miti poetici, a cui altri poeti non mancarono di contraddire. Nell’Armando del Prati, Mastragabito, cioè Satana, muore di sfinimento: in un poemetto di Massimo Du Camp, La mort du Diable, Satana chiede in grazia a Dio la morte, e muore sotto il piede di Eva, l’antica madre ingannata, che compie così, non un’opera di vendetta, ma un’opera di misericordia. Il buon Béranger pretendeva che il diavolo fosse morto sino dai tempi di sant’Ignazio di Loyola, e per opera del santo medesimo:
Du miracle que je retrace
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Ma, soggiunge il poeta, sant’Ignazio chiese ed ottenne il posto del morto, ed ereditò l’inferno. Finalmente è da ricordare che Guglielmo Hauff in Germania, e Federico Soulié in Francia, scrissero le Memorie del Diavolo, e che le memorie si sogliono scrivere di chi è morto, non di chi è vivo.
In realtà la scienza, che tante cose uccide, mentre tante altre ne crea, uccide, o finisce di uccidere anche il diavolo, del cui ajuto, se mai ebbe, ora non ha più bisogno. Per essa si avverano le parole memorabili del vecchio Virgilio:
Felice |
Ma che il diavolo sia morto, o moribondo, non si ammette da tutti, e molti s’ostinano a veder l’opera sua (poichè altrove oramai non la possono vedere) negli oscuri fenomeni, o nelle troppo chiare ciurmerie, del magnetismo animale e dello spiritismo: e or è qualche anno la Santità infallibile del Sommo Pontefice Leone XIII, commossa da non so che diavoleria di spiriti e di visioni, onde per due settimane di seguito fecero gazzarra i giornali della Penisola, volse calda preghiera all’arcangelo Michele, perché volesse impugnar di nuovo la spada formidabile, e gettato ai quattro venti, sopra e sotto la Via Lattea, il grido della battaglia, scendere anco una volta in campo contro l’antico e mal vinto avversario, e torgli il ruzzo dal capo. Beatissimo Padre! Io non so qual risposta sia stata fatta di lassù al vostro invito; ma a che pro turbare i riposi al degno paladino del cielo? L’opera incominciata da Cristo diciotto secoli sono la civiltà l’ha compita. La civiltà ha debellato l’inferno e ci ha per sempre redenti dal diavolo.
Fine.