< Il diavolo
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Dedica
Il diavolo Capitolo 1

A


EDMONDO DE AMICIS.



Caro Edmondo,


Questo libro lo dedico a te, che fosti soldato e non hai paura dei brutti musi.

Non è, a dir proprio, una storia ordinata e compiuta del diavolo, perchè non credo si possa fare di tale storia un libro popolare; e un libro popolare appunto intesi far io, un libro cioè che si potesse leggere senza fatica, ma forse non senza qualche gusto, da chiunque non faccia profession di erudito.

Perciò mi sono studiato di ritrarre il diavolo nelle sue svariate sembianze, e nei casi e nelle operazioni più notabili di quella lunga, affaccendata e rimescolata sua vita; e poichè gli anni migliori della vita di lui, gli anni, direi, della virilità rigogliosa e della maggiore operosità e potenza, sono i secoli di quello che noi chiamiamo il medio evo, così entro i termini del medio evo, assai larghi del resto, costringo la più gran parte del mio racconto.

Narro e descrivo assai più che non ragioni, e credo d’aver fatto bene, e che di ciò tu m’abbia a dare piuttosto lode che biasimo. Assai volte, riportando quelle innumerevoli tresche, mariolerie e meraviglie diaboliche, e le credenze e le superstizioni, e i sogni di cui si pascevano quelle anime dei padri nostri, intenebrate di paura e d’ignoranza, avrei potuto indicare i fatti fisiologici e psicologici d’onde il tutto deriva, e dissertar serrato, e farmi onore; ma coloro pe’ quali io voleva scrivere, o non m’avrebbero inteso, o presto si sarebbero stancati d’intendermi. Mi venne in mente ciò che fanno i marinai soprappresi dalla burrasca, quando, per salvare una parte del carico, buttano in mare l’altra; e, un po’ a malincuore, imitai il loro esempio.

Qualcuno potrebbe dirmi: perchè hai tu scritto di un vano fantasma? perchè non piuttosto di cose vive e reali? e confesso che questa medesima domanda fec’io più d’una volta a me stesso. Ricordo giorni in cui rimasi come sgomento in pensare che il diavolo, il formidabile re dell’abisso, la cagione di tante cadute, di tanti dolori, di tanti terrori, l’oggetto di tanti ragionamenti, di tante dispute, di tante dottrine, colui per cui furono versati fiumi di sangue e d’inchiostro, non esiste, non è esistito mai, più inconsistente della nebbia, più vano dell’ombra. E mi parve doloroso e stolto far di quel nulla un libro.

Ma poco duravo in quei pensieri, e di non esserci durato mi applaudo. Chi segna il limite che separa la vita dalla morte, il reale dal non reale? Terribile, incoercibile è la forza delle cose che non sono, e molti fra i più poderosi fattori della storia della umanità non sono tra le cose reali, non furono, non saranno mai. Satana fu un sogno; ma un sogno che rapì nei caliginosi avvolgimenti suoi le generazioni ed i secoli.

Non lo dimentichino coloro che rimpiangono (nè io so loro dar torto) le fedi e le speranze di un’altra età, e i conforti ineffabili che ne venivano alle anime travagliate. Il sangue di Cristo fu veramente come un balsamo prezioso versato sulle ferite sanguinanti dei figli del peccato; ma dietro a Cristo c’era Satana, e nelle ferite sanguinanti Satana stillava la velenosa sua bava. Il trepido credente era come sospeso fra il cielo e l’inferno, e dal cielo si sentiva scendere in cuore una soave letizia e dall’inferno si sentiva salire al cuore un orror disperato. L’anima di lui era come questo povero nostro pianeta, che sempre ha l’una parte rivolta al sole e l’altra immersa nel bujo; essa, come quello, rotava, ed ogni suo punto passava per una perpetua vicenda di luce e di tenebra, di speranza e di terrore. Le storie dei santi e delle sante, cui arrise da ultimo il sole della vittoria, sono là a farne fede.

I santi e le sante, i campioni della fede e i martiri della carità, i meravigliosi asceti, i quali non d’altro cibo si pascono che di speranza, anime di foco appese ad un tenue raggio che scaturisce dalle profondità immensurabili dell’infinito! Dovunque io spinsi il piede sulle buje tracce di Satana, io li scontrai, e fui lunghi giorni in lor compagnia. I casi meravigliosi, e le formidabili istorie, che tu, Edmondo, potrai leggere in queste pagine, io raccolsi, per molta parte, nelle antiche memorie della vita e degli atti loro, isole sopravanzate di un mondo sommerso, tutte dipinte dei fiori vivaci della leggenda. Altri s’inerpica su pei dirupi, e sfida le insidie e le asprezze dei ghiacci perpetui, pur di cogliere un gracile fiorellino spuntato dal greppo vivo a uno sguardo di sole; a me giova spesso arrancarmi pei ghiareti del latino barbaro, e avvilupparmi tra’ pruni del solecismo, pur di cogliere alcuno di quei fiori di leggenda, così caldi di colore, così pregni di strano ed acuto olezzo.

Accetta, amico mio, questo libro, non pel valore suo proprio, ch’è ben poco, ma per l’antico affetto di cui vuol essere un segno, e ch’è molto. E se in leggerlo ti parrà di sentirti dentro quella mite angoscia che prepara ed annunzia lo sbadiglio, tienti il libro a ogni modo, e manda pur me a colui che mi diede materia a scriverlo. Vedendo l’opera mia, e più che l’opera le buone intenzioni; e conoscendo lo zelo, la sincerità e la liberalità con cui io scrissi dei fatti suoi, vorrà usarmi qualche riguardo, e trattarmi men male di quello faranno forse i critici.

Torino, marzo 1889.

Tuo

A. Graf.


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