< Il dottor Antonio
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Giovanni Ruffini - Il dottor Antonio (1855)
Traduzione dall'inglese di Bartolomeo Aquarone (1856)
Avvertenza
I


AVVERTENZA DELLA PRIMA EDIZIONE


Il racconto del Dottor Antonio fu scritto in inglese da un Italiano; e con grande favore venne accolto in Inghilterra: fatto significante, chè i connazionali di Walter Scott sono maestri in siffatto genere di scritture. Io lo lessi; e sentii quanto meritasse di esser tradotto, affinchè l’Italia avesse un saggio del come si scriva in oggi il romanzo presso il popolo inglese. Fui inoltre sospinto a questa traduzione dalle sdegnose parole del Gallenga: «Le nazioni civili fanno a gara a tradurlo. Solo in patria l’autore non è profeta; e quando l’altra sera accennavamo come fosse opportuno il rivendicar subito per mezzo di una buona traduzione questo suo libro (il Dottor Antonio di G. Ruffini) — eccoti un cotal saccente, toscano o toscaneggiante, uomo di garbo per altro e di molto ingegno, ci si fece a rispondere molto in sul grave, che «simili esotici non fanno per la nostra ammosfera!» Altri, più discreto, cercava poi di consolarci col farci riflettere: che «quei libri, se valevano alcun che, non mancherebbero di esser voltati in francese, e che in quella nuova veste potrebbero poi, almeno in Piemonte, venir per le mani di tutti.» E un terzo aggiungeva: «I racconti son fatti per bambini; l’età nostra aspira a gravi cose; l’Italia fa senno, ed è stucca di romanzi. Abbiamo archivi storici, sistemi e scuole di filosofia, manuali, enciclopedie; vogliam libri che ci istruiscano, non che ci divertano; che ci maturino il senno, non che ci solletichino l’immaginativa.» E sia! purchè le vostre donne non siano ridotte per disperazione e per noia a Paul de Koch, e non continuino, senz’altro scrupolo, a scrivere Professore con due «effe.» (Cimento, febbraio 1856.)

L’autore dice ripetutamente, la sua una verace istoria; e pare davvero accaduto il fatto da lui posto nell’estrema Liguria occidentale. Il primo personaggio del racconto è un esule siciliano. Dimorando costui fuori della sua provincia, s’innamora di una fanciulla — che lo ricambia e ne muore. Egli, sorretto sempre nell’esiglio dalla speranza di battersi per liberare il suo paese; e, battendosi un giorno in Napoli, è quivi dalla Gran Corte Criminale condannato e sepolto in un carcere. Ma il merito grande del libro sta nell’averci mostrato un esiglio come quello del Dottor siciliano; nell’avere svolto un amore come il suo, del quale in tutto il racconto, non è mai proferito il nome, se non quando già tuona il cannone per la battaglia: «Lucy, questo non è momento da far molte parole (e il fuoco non rallentava punto mentre parlava), Lucy, io ti amo, ti ho amata ardentemente per tutti questi otto anni — ti amerò sino alla tomba. Ma la mia patria ha su di me diritti anteriori ai tuoi;» — e parte lasciandola, ed è ferito, nè più si rivedranno. Il merito grande sta nell’aver messo in iscena un patriota senza declamazioni; che ama l’Italia, ma più anche gli Italiani, e che vedesi, occorrendo, che sarà prodigo della propria vita, e, ideale sino all’esaltazione, mostra pure di adempiere scrupolosamente gli obblighi positivi della sua vita d’ogni giorno. Pare convinto non prepararsi per altro modo i grandi fatti politici; che per lui la nazione non è un portato astratto, ma il modo di aiuti vicendevoli. Riuscendogli troppo amaramente doloroso l’esiglio da tutta Italia, volentieri si era adattato a vivere oscuro, ignoto, dite anche fuor del suo posto, in un paesetto di provincia dell’estrema Liguria, fra povera gente: — pur di non passar oltre le Alpi, — pur di non togliersi alla vista de’ monti, del mare, e del nostro cielo bellissimi; — pur di ascoltar sempre la lingua del , o almeno un dialetto di essa.

Ora, questo carattere, nel racconto è posto di fronte al carattere di sir John Davenne, vero tipo inglese: e dicendo tipo inglese, accenno a una razza d’uomini dove c’è pur sempre del grande. Certo, sir John rispetto al Dottore è piccino, meschino, gottoso e riottoso; per le quali ragioni l’accoglienza fatta a questo libro dagli Inglesi, parmi che formi un bell’elogio di quel paese. Come una gente veramente grande, essi non temono siano svelate le mende del loro carattere nazionale; le quali vorranno modificate e corrette. Ma l’inglese sir John nulla ha di floscio, di balzo o di cascante; e questo Annibale che trova la sua Capua nell’Osteria del Mattone, mostra pure molta energia: e la sua cocciutaggine, l’alta idea che ha di sè, della sua famiglia e del suo paese, il disprezzo per tutto quanto non è inglese, e l’orgoglio smisurato per il suo figliuolo, se non sono qualità, son pur sempre indizii di forza. Come tutto il mondo sta per lui nella Inghilterra, così l’Inghilterra sta alla sua volta nella famiglia Davenne; e per Lucy oblia gli affari, e il viaggio, e Parigi e Londra. Se piegasi alle seduzioni del nostro cielo, e del mare, e delle spiagge d’Italia, vedi pure, anche quando cede, che piuttosto si spezzerebbe anzi che accondiscendere davanti a qualsiasi violenza; e che morrebbe, come Nelson a Trafalgar, vestito del suo grande uniforme. — Antonio si trova del pari a fronte di Aubrey, il figlio di sir John: giovine avventato, orgoglioso, sicuro di sè, bramoso di grandi emozioni, di cui «i sogni, desto e dormente, erano stati da lunghi anni cacce di tigri e di elefanti e l’India la sua terra di Canaan;» e quindi pieno d’indomita baldanza; e che nel breve periodo in cui si mostra, sta a meraviglia dirimpetto all’Italiano. Ecco come quelle due figure sono delineate nel racconto, al momento in cui si trovano a faccia a faccia: Lo sguardo de’ due uomini s’incontrò in atto non amichevole. Il torvo cipiglio, le labbra arricciate e il portamento alquanto aggressivo di Aubrey mostravano poco buon volere verso l’oggetto della sua investigazione. Le labbra serrate di Antonio, la cinerea tinta e il guardo raccolto come in atto di difesa, facean vedere chiaramente ch’ei presentiva l’approssimarsi d’un nemico. Così stettero l’uno a fronte dell’altro: tipi di due belle razze, e tali che rare volte Roma e la Grecia ne avean visti di simili. L’uno bello, roseo, cogli occhi azzurri (proprio gli stessi occhi di Lucy). L’altro scuro come la tempesta. L’Inglese più alto di tutta la testa del suo alto antagonista; dal petto quadro, dalle spalle larghe proporzionate, il vero non plus ultra di forza e musculatura bene sviluppate. L’Italiano, meno taurino, ma ben piantato, pieghevole e elastico come una tigre, con nervi e muscoli di ferro, pronti ministri dell’indomita volontà trasparente nel cupo fuoco degli occhi. Voglia il cielo che mai non s’incontrino in un’ora di furia, perchè il loro incontro sarà simile a quello di due nubi cariche di elettrico.»

Altro carattere, pari a quel di Antonio, è il carattere di Lucy: che vediamo fanciulla prima, poi donna. Ventenne appena, domina la società fra cui era vissuta, e ne era già stancata; mentre invece trova ogni delizia nella quiete dell’Osteria del Mattone, ed è piena d’ammirazione per il grande carattere dell’Italiano. Dilicata da prima ne’ suoi affetti, debole, pieghevole ne’ suoi propositi; la vedi poi, fatta donna, affinata dal dolore, vedova senza figli e libera di sè, ricordare religiosamente l’antico affetto: e voler ripartire, e tornare in Italia, a Bordighera, all’Osteria del Mattone. E questa volta vedi che è ella che viaggia, e vuole: e sin dai primi apparecchi di partenza, vedi che vorrà sino all’ultimo. E quando in Napoli, trovato Antonio, seduta al piano accanto a lui, «fu per il misterioso potere della riminiscenza, che le sue dita sbadate trovarono le note dell’aria siciliana, cantata la prima volta da lui, e mai più suonata dal giorno del suo sposalizio,» allora vedi la donna — e una donna che sommuoverà quanto umanamente è dato per l’uomo amato; e non riuscendo ne morrà di scoppio del cuore. Lucy è tipo di razza nordica: ha pregi e difetti che una donna e una fanciulla del meridione non ha. — E come forse l’autore ebbe il disegno di posare innanzi all’alterigia inglese in Antonio un tipo del carattere italiano, così il traduttore dilettavesi, traducendo, di poter contrapporre questo tipo della fanciulla inglese, all’accademico contegno delle fanciulle di alcuna provincia italiana. In oggi che le nazioni dall’elettrico e dal vapore sono ravvicinate, giova si studiino e si conoscano a vicenda.

Del libro, quale opera d’arte, non parlerò: sarebbe pedanteria dandolo in mano al lettore che ne giudicherà da sè. Come ha osservato il Gallenga, questo racconto è doppio: nella prima parte appartiene al genere dei racconti di carattere; scritto col facile movimento dell’idillio, e appare quasi una marina del Salvator Rosa. Nella seconda parte invece appartiene al genere storico, ed è scritto coll’animo con cui l’Alfieri poteva scrivere il Filippo, e ricorda la Congiura di Catilina dello stesso pennello. Nel capitolo intermedio fra le due parti, che è intestato: Buona notte all’Idillio, si legge: «D’ora innanzi più alcuna dolce lusinga ci ritarderà per via. Addio alle fresche ombre e alle apriche colline! Addio ai quieti sentieri cosparsi di fiori, ai limpidi ruscelli lietamente mormoranti a lato della strada! La parte del nostro corso illuminata dal sole è finita, e fosche nuvole oscurano quella che ci rimane.» Questa parte oscura per fosche nuvole è quella in cui viene tratteggiata la storia del processo davanti la Gran Corte Criminale, per la setta dell’Unità Italiana. Questa parte, giudicata in sè, è mirabilmente fatta; e le auguro la fortuna delle Mie Prigioni di Pellico, le quali più valsero e a concitar cuori e ad accendere odii contro l’Austria, che non dieci volumi di documenti.

Il Dottor Antonio è scritto co’ modi e lo stile di una lingua purissima: si direbbe da noi, da trecentista. M’ingegnai traducendolo, conservare, se non la purezza, almeno quella semplicità di modi e di stile; e per ajuto avutone, debbo molte grazie a Pasquale Papiri, esule romano, con un braccio traforato battendosi contro lo straniero, per due anni mio compagno nell’insegnamento in Alessandria; e che ora naviga l’Atlantico per isbarcare su non so quale spiaggia del Pacifico. I venti, il mare e gli uomini gli sieno miti.


Porto Maurizio, 22 luglio 1856.

Bart. Aquarone.

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